Marzo 19, 2024

Professione? Visionario. Quando troppa mitologia aziendale da alla testa

Chi è il c.d. Direttore Visionario, ruolo che sta cominciando a proliferare in molte aziende americane ed europee? Per alcuni una pedina importante, per altri  una specie di santone aziendale, cui tutto sarebbe concesso.

Di Massimo Bonaventura

Il primo fu un certo Einar Stefferud, co-fondatore delle prime holdings della realtà virtuale nel 1994, ad essere riconosciuto come il primo CVO, ossia “Chief Visionary Officer”. In Italia, se non andassero troppo di moda gli inglesismi, verrebbe chiamato Direttore Visionario.

Roba da far sorridere – ed anche impaurire – i dipendenti: un visionario, per giunta direttore, è anche un tipo imprevedibile, non c’è che dire.

A contendere il primato nell’uso di questo ambita carica aziendale dei giorni nostri c’è anche Tim Roberts, alto dirigente del ramo della banda larga di un colosso come Investment Group. Roberts afferma di averlo inventato lui il titolo, per via dei suoi “attributi visionari”, necessari per integrare un business complesso e per definire in maniera netta ed inequivocabile il suo ruolo nell’organizzazione, quello appunto di capo con una “visione” del futuro dell’azienda nel lungo periodo.

In mezzo a questa contesa, si inserisce con prepotenza il mito – è il caso di dirlo – di Steve Jobs, visionario dei visionari, cui il mondo attribuisce meriti riconoscibili, tra i quali quello di aver creato l’azienda più ricca e potente del mondo. Infatti, la nutrita filmografia sul personaggio ci ha restituito l’immagine del “perfetto visionario”, quello a cui tutti gli altri vorrebbero tendere: determinato, arrogante, cinico e geniale.

Solo che lui, nel biglietto da visita, non scriveva CVO, ma CEO (Chief Executive Officer, in Italia è l’equivalente di Amministratore Delegato). Anzi, si narra che non li avesse neanche, i biglietti da visita.

Del resto, l’industria cinematografica ha contribuito al “racconto mitologico” di diversi visionari realmente esistiti; a titolo di esempio, lo stesso Jobs (due film e decine di docufilm all’attivo su di lui), il mito negativo (ma sempre mito) di Jordan Belfort interpretato da Leonardo Di Caprio in “The Wolf Of Wall Street”, ed il gruppo di visionari raccontati nel celebre film “La Grande Scommessa” (The Big Short, tratto da una storia verissima), su cui primeggia il personaggio interpretato dall’attore Christian Bale, Michael Burry, autentico visionario che era solito lavorare a piedi scalzi e in bermuda.  

In Italia abbiamo avuto il compianto Sergio Marchionne, esempio di visionario “nostrano” (sebbene sia stato naturalizzato canadese), il quale ha saputo modificare profondamente la storia della FIAT – oggi FCA –  e sul quale è cresciuto, anche per via della sua prematura scomparsa, un discreto mito imprenditoriale che continua anche dopo la sua morte (su tutto, la sua leggendaria insofferenza per la cravatta).

Gli esempi descritti hanno tutti un denominatore comune: sono dei fuoriclasse della “visionarietà”, e a loro la Società ha tributato l’appellativo onorifico di “visionario”. Oggi, invece, è tutto un proliferare – soprattutto in alcuni settori come quelli legati alla creatività – di biglietti da visita con su scritto visionary officer, utilizzati dagli executive del marketing, della pubblicità o anche del design.

Non sarebbe più appropriato il caro vecchio “direttore creativo”?

Ipoteticamente, in una classificazione dei ruoli aziendali, il ruolo di “capo visionario” incarnerebbe una funzione dirigente come le altre, ma a differenza di queste verrebbe usato per formalizzare una posizione di più alto livello, persino rispetto al CEO. Una specie di “santone aziendalecui tutto è concesso: camminare a piedi scalzi, farsi una canna in pieno orario di lavoro (per amplificare il “pensiero visionario”), vestirsi in maniera informale anche durante i consigli di amministrazione, consumare pasti frugali e salutari, disprezzare (apparentemente) il denaro, vivere (apparentemente) in modo modesto, insultare occasionalmente i dipendenti che non seguono le sue visioni e mostrare una certa insofferenza per le regole dello stile dirigenziale.

In teoria, il CVO dovrebbe avere una conoscenza ampia e completa di tutte le questioni connesse con l’attività dell’organizzazione, così come la visione necessaria per guidare il suo corso verso il futuro. Dovrebbe possedere tutte competenze di base di ogni dirigente, a cui applicare le proprie idee visionarie al fine di definire le strategie aziendali e i piani di lavoro conseguenti. Un direttore strategico, insomma; un CSO (Chief Strategy Officer), cioè, ruolo già conosciuto, che nelle grandi aziende si occupa delle modifiche necessarie per adeguare il panorama aziendale alle previsioni dell’Economia, delle strutture organizzative complesse, della globalizzazione, delle nuove normative e dell’innovazione (di processo e di prodotto), portando avanti questo lavoro così complesso insieme ad un team dedicato.

In pratica, niente che già non ci fosse.

Il problema è che, se si desidera avere l’attribuzione della qualità positiva di “visionario”, non è sufficiente attribuirsela da soli in un biglietto da visita, ma deve essere il sistema in cui operi a riconoscerla, per meriti e risultati inaspettati e dirompenti. In caso contrario, si rischia di passare per un soggetto auto-referenziale – uno che si dà le arie insomma; che poi, quando i risultati non arrivano, è l’anticamera per un rapido oblio.

Qualcuno potrebbe pensare che questo mio modo di vedere la faccenda sia un po’ “arretrato” e non al passo con i tempi. Può darsi. Ma io, quando sento il termine “visionario”, continuo a pensare ad un tizio strampalato e bisognoso di cure, che vaga per strada in preda a confusione mentale, intento ad urlare anatemi complottisti contro gli infermieri che lo stanno riconducendo, con cauta gentilezza, verso un’ambulanza.

 

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