Dicembre 2, 2024

Così lontani, così vicini. Commercialisti e consulenti finanziari alla prova dell’imprenditore

Quello dell’imprenditore, fino a qualche anno fa, sembrava un mondo  inavvicinabile per i consulenti, così come la gestione dei suoi risparmi era materia di poco interesse per i commercialisti. A cambiare le cose ci ha pensato la seconda MiFID, e soprattutto il suo portato di grande apertura verso la Consulenza Indipendente.

Di Massimo Bonaventura

Mentre il modello di business delle reti di consulenza finanziaria non autonoma continua la sua marcia verso un inesorabile declino (complice l’assenza di ricambio generazionale), la distanza tra la categoria dei commercialisti e i contenuti della professione di consulente finanziario si fa sempre più sottile, quanto meno dal punto di vista delle intenzioni che gli organismi di categoria lasciano intravedere.

Si tratta di un “avvicinamento lento”, in considerazione del basso numero di professionisti della consulenza aziendale che hanno già iniziato ad occuparsi di Consulenza Finanziaria (con tanto di esame sostenuto e superato), ma a giudicare dalle dichiarazioni di intenti sembra che il Cndcec (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili) faccia sul serio, e ci vuol poco per presagire, in caso di sviluppo delle strategie, l’inizio di una possibile competizione con i consulenti finanziari sull’unico terreno che oggi li può accomunare: l’imprenditore, con tutto il suo mondo fatto di logiche e regole aziendali (appannaggio dei commercialisti) e di attivi e risparmio (sui quali lavorano i consulenti finanziari).

L’imprenditore, fino a qualche anno fa, sembrava inavvicinabile per i consulenti, così come la gestione dei suoi risparmi era materia di poco interesse per i commercialisti. A cambiare le cose ci ha pensato la seconda MiFID, e soprattutto il suo portato di grande apertura – che molti, dal mondo dei consulenti non autonomi, non hanno ancora compreso – verso la Consulenza Indipendente e, tramite questa, verso i commercialisti, visti dalle organizzazioni di consulenti autonomi come un “serbatoio” di ottima professionalità da adattare, con i dovuti accorgimenti, alla finanza stretta e, in questo modo, ingrossare anche le loro fila, puntando alla qualità.

A questa visione strategica corrisponde anche un modello di business completamente differente da quello delle banche-reti. Il modello a cui il Cndcec  si ispira, infatti, sembra essere quello americano, dove i Certified public account (Cpa) sono circa 400mila e, di questi, circa 120mila erogano anche servizi di pianificazione finanziaria, cioè svolgono un’attività di consulenza finanziaria definita “generica”. Tra questi ultimi, poi, esiste un altro sottogruppo, che arriva a circa 40.000 unità, di Certified Financial Advisers, che nel nostro sistema corrispondono ai consulenti finanziari indipendenti.

Il modello proposto dai commercialisti è basato sulla persona, e prende in considerazione gli obiettivi di vita, non solo quelli finanziari, pensando all’individuo come se fosse un’azienda, per la quale ricercare l’equilibrio finanziario migliore. Del resto, in Italia la maggioranza delle aziende di piccole e media dimensioni sono di proprietà di famiglie, e questo approccio verso la famiglia-azienda risulta essere, in prospettiva, vincente.

Sul punto, il mondo delle reti mostra di essere molto indietro, soprattutto in quanto a competenze distintive. Anche i commercialisti che vogliono avvicinarsi alla consulenza finanziaria, naturalmente, hanno molto da imparare, ma la sensazione è che, per loro, le distanze in termini di formazione siano più corte rispetto a quelle che separano i consulenti finanziari dalle competenze di natura aziendale (dai principi di contabilità ai bilanci, dai business plan al controllo di gestione), tanto più che le società mandanti – sia di natura prettamente bancaria che quelle nate a servizio dei consulenti – stanno facendo ben poco per la formazione in senso aziendalista del consulente finanziario e per adeguare l’offerta di servizi agli imprenditori.

Probabilmente, siamo di fronte ad un c.d. collo di bottiglia: le reti di consulenza finanziaria sono di proprietà delle grandi banche, le quali da decenni si occupano di servizi all’impresa che, in tutta evidenza, non possono essere allargati anche ai consulenti finanziari senza creare una sorta di competizione interna tra fattori della produzione. Pertanto, è un problema difficilmente risolvibile, però si sente sempre di più, tra le fila dei consulenti non autonomi, la mancanza di una nuova figura, quella del Consulente Finanziario Corporate, che potrebbe prosperare – e far prosperare le società mandanti, grazie alla loro fortissima inclinazione commerciale – all’interno del mercato riservato fino ad oggi alle grandi banche, le quali fidelizzano l’imprenditore con un cross selling di servizi all’impresa di cui i consulenti non sono dotati. Sono questi servizi, infatti, che attraggono anche la gestione delle soluzioni di investimento dell’imprenditore e della sua famiglia, e “chiudono” oggi le opportunità ai consulenti finanziari tradizionali.

Eppure, non c’è campagna commerciale, oggi, che non includa nelle strategie delle reti di consulenza l’approccio alle necessità dell’imprenditore, per raggiungere il quale, però, è necessario, oltre ad avere servizi adeguati, “parlare la sua stessa lingua”. Senza formazione di stampo aziendalista, però, sarà difficile fare breccia, senza contare che molti imprenditori diventati negli anni clienti dei consulenti finanziari gestiscono, di contro, relazioni professionali di lunga data con i propri commercialisti, i quali non faticherebbero molto a diventare anche i loro consulenti finanziari nel momento in cui dovessero decidere di occuparsi professionalmente anche di soluzioni di investimento mobiliare.

In sintesi, i consulenti finanziari devono cercarseli, gli imprenditori, mentre i commercialisti ce li hanno già in portafoglio clienti.   

Già lo scorso mese di Giugno 2020 il Cndcec era uscito con una nota ufficiale, nella quale affermava l’obiettivo di “….ampliare le opportunità di lavoro per i commercialisti iscritti all’Albo, sviluppare nuove professionalità e diffondere l’educazione finanziaria tra consumatori e investitori”. Il documento evidenziava “le potenzialità connesse all’ampliamento della consulenza finanziaria indipendente in Italia, sulla base delle caratteristiche quantitative e qualitative del risparmio nel nostro Paese…”, e descriveva “….le possibili modalità di erogazione delle prestazioni da parte degli studi professionali dei commercialisti, sia per le prestazioni ritenute libere sia per quelle riservate…”. Il presidente del Consiglio nazionale Massimo Miani, inoltre, sottolineava l’importanza di “…identificare nuovi ambiti di lavoro e nell’ampliamento di nuove professionalità per i commercialisti, valorizzando le conoscenze che solo un commercialista ha dell’imprenditore e della sua situazione patrimoniale e familiare complessiva”.

L’organizzazione dei commercialisti, pertanto, sembra avere le idee chiare riguardo a nuove aree di intervento e opportunità di reddito. Quella dei consulenti finanziari non autonomi, in considerazione del suo “lungo sonno” in materia di ricambio generazionale e nuove competenze, pare di no.

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