Settembre 17, 2024

Brexit, storia di un divorzio. Dal 1971 all’epilogo del 2020, l’uscita del Regno piace ai conquistatori europei

Come si è arrivati alla Brexit? La Gran Bretagna è passata da un impegno entusiastico nei confronti dell’UE ad un atteggiamento acrimonioso frutto di errori e calcoli politici. In mezzo, una generazione di delusi che, a distanza di cinquanta anni dai primi trattati, ha prevalso su chi avrebbe voluto rimanere in una Europa che oggi trae un enorme vantaggio dall’uscita del Regno.

Il voto alla Camera dei Comuni per l’approvazione dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità Economica Europea, il 28 ottobre 1971, fu accolto con un tripudio diffuso. Il voto “sì” fu molto ampio (maggioranza di 112 voti) e i leader politici andarono a festeggiare nelle sedi dei loro partiti, mentre il primo ministro Edward Heath tornò a Downing Street in uno stato di euforia. Oggi, a distanza di 49 anni, la Gran Bretagna completa la sua partenza dall’UE senza alcuna celebrazione. Persino gli euroscettici si lamentano dei termini del trattato di recesso (in particolare sulla pesca), mentre altri sono dispiaciuti, se non furiosi; secondo l’ultimo sondaggio, infatti, il 48% dei britannici pensa che il paese dovrebbe rimanere nell’UE, mentre solo il 38% pensa che doveva andarsene.

C’è nervosismo, soprattutto tra le imprese che commerciano con l’Europa, su come funzionerà il rapporto. E c’è una perplessità residua da entrambe le parti. Come è potuta andare così male?

La Gran Bretagna, storicamente, era sempre stata ambivalente nei confronti del progetto europeo. Per la maggior parte dei paesi continentali, la costruzione dell’unità europea è stata una reazione agli orrori della seconda guerra mondiale e alle sue conseguenze. I tedeschi stavano sfuggendo al nazismo e alla sconfitta, così come l’Italia alla dittatura fascista, ma la Gran Bretagna era l’unico membro che non sentiva il bisogno di fuggire dal suo passato; anzi, per molti versi, preferiva crogiolarsi nel passato piuttosto che affrontare il futuro.

Anche la storia imperiale britannica ha fatto la differenza. Il suo impero era più grande e più recente di quello di altre nazioni europee. Culturalmente, gli inglesi si sentono più vicini all’America, al Canada e all’Australia che all’Europa. Gli espatriati britannici che vivono nel mondo anglofono sono due volte e mezzo rispetto a quelli che vivono nel continente europeo, e le principali minoranze etniche della Gran Bretagna provengono dai paesi del Commonwealth. Il fatto, poi, che l’inglese sia la lingua del mondo dà agli inglesi la sensazione di essere a casa ovunque. Pertanto, non erano pochi i politici britannici che dubitavano dell’adesione all’Unione Europea, sulla base del fatto che la Gran Bretagna fosse tradizionalmente isolata, marittima, collegata attraverso i suoi scambi, i suoi mercati, le sue linee di rifornimento ai paesi più diversi e spesso più lontani e che, in definitiva, non avesse alcun bisogno dell’Europa. E così, i dubbi dei politici portarono un governo laburista a indire un referendum sull’adesione nel 1975, solo due anni dopo l’adesione, ma la Gran Bretagna a quel tempo era colpita dagli scioperi e l’Europa sembrava offrire un futuro più stabile e prospero, determinando un risultato elettorale netto (due terzi degli elettori votarono per rimanere in Europa).

Fin dall’inizio, la Gran Bretagna non era soddisfatta dei termini della sua adesione. L’agricoltura era il punto principale della contesa. Impegnata nel libero scambio di prodotti alimentari dall’abolizione delle leggi sul mais nel 1846, la Gran Bretagna aveva un minuscolo settore agricolo rispetto ai suoi vicini, e godeva di cibo a buon mercato. L’adesione alla CEE impose tariffe elevate, facendo pagare prezzi elevati ai consumatori; di conseguenza, la Gran Bretagna fu il secondo maggior contributore al bilancio europeo, fino a quando la Thatcher non ottenne un ristoro di quel fiume di denaro nel 1984.

C’è da dire che, agli occhi dei suoi fondatori, l’Europa era un progetto politico il cui scopo era quello di legare il continente così strettamente che un futuro conflitto bellico sarebbe stato inconcepibile, ma l’ipotesi di “un super-stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles” non piaceva né alla Thatcher né agli inglesi, determinando il fiorire, negli anni ’80, di un profondo euroscetticismo che fu mitigato solo nel 1992, con il trattato di Maastricht, grazie al quale l’Unione Europea e la Gran Bretagna si riavvicinarono. Lo scontro politico sulla condivisione della sovranità, però, non smise di alimentarsi, generando quello scenario di “quasi adesione” in base al quale la Gran Bretagna era metà dentro e metà fuori, conservando la propria moneta e parecchie prerogative.

Dopo la crisi finanziaria, questa situazione di avere “un piede in due scarpe” non fu utile al Regno Unito, dal momento che il governo di David Cameron fu costretto a tagliare la spesa danneggiando maggiormente le aree povere, ed il partito laburista virò a sinistra, eleggendo un euroscettico di estrema sinistra (Jeremy Corbyn) come leader. All’interno di questo clima politico, con l’ascesa di altre formazioni contrarie all’Unione Europea, nacque l’ipotesi di un referendum, che Cameron aveva promesso agli inglesi con un azzardo dettato dalla certezza di non vincere le elezioni. Invece, le vinse, e dovette mantenere l’impegno preso (il Regno Unito non è l’Italia…).

Boris Johnson, ex sindaco di Londra, ha fornito un volto sorridente come facciata per il movimento che sosteneva l’uscita dall’UE, e Jeremy Corbyn, con il suo noto disgusto per l’Europa, fece il resto, ma anche i matrimoni difficili sono difficili da far finire. In mezzo secolo, la legislazione europea era diventata parte dell’ordito e della trama del diritto e degli affari europei e britannici, ora completamente intrecciati. Le aziende avevano abbracciato felicemente le normative europee, e così agli elettori fu offerta una scelta binaria (SI’/NO) su una serie complicata di relazioni. Nella scheda elettorale non c’era nulla sul mercato unico, sull’unione doganale o su come affrontare il confine di 500 km tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, carico di storia e carico di tensione. L’asimmetria tra la complessità del problema e la semplicità della questione ha fatto sì che il dibattito referendario fosse superficiale e mendace per gli ignari votanti.

Il risultato del referendum, poi (48% dei no contro 52% dei sì) avrebbe dovuto sostenere una Brexit “morbida”, con la Gran Bretagna che rimaneva vicina all’Europa, ma il fatto che sia avvenuta una Brexit “dura”, con la Gran Bretagna che lascia sia il mercato unico che l’unione doganale, non è una buona cosa per la l’economia inglese.

Anche l’Europa ha contribuito al risultato di una “Hard Brexit, negando ostinatamente di scendere a compromessi con Theresa May – succeduta a Cameron alla guida del paese – quando la stessa stava cercando disperatamente di rendere più soft l’uscita del Regno Unito. Oggi, appare evidente l’intento politico di Germania, Francia e Olanda nell’opporsi alle richieste di una “soft Brexit” da parte della fragile leadership della May. La Scozia, infatti, ha votato per il “Remain” con un’ampia maggioranza, e l’Irlanda del Nord con una più piccola. Per evitare di creare un confine inaccettabile tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica di Irlanda, è stato stabilito un confine all’interno del Regno Unito, tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, e adesso la maggioranza degli scozzesi vuole l’indipendenza, mentre il sostegno all’unificazione irlandese sta crescendo giorno dopo giorno.

La disgregazione del Regno Unito, in questo modo, sembra sempre più vicina, e così il suo indebolimento economico che, probabilmente, fa molto piacere ad una Europa di nuovi e moderni “conquistatori”.

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