Settembre 17, 2024

L’Italia non è il Giappone, ma potrebbe superarlo. I due “figli dell’America” a confronto

Entrambe uscite distrutte dal ciclo storico delle guerre mondiali, oggi l’Italia è un Giappone “riuscito male”, cronicamente e politicamente incapace di risollevarsi dalle disgrazie e, soprattutto, di imparare la lezione dal suo fratellastro orientale, “cresciuto bene” senza aver ceduto un grammo della sua sovranità monetaria.

Di Alessio Cardinale*

Sarà per la conformazione geografica piuttosto simile – con l’unica differenza del nostro “ancoraggio orografico” al continente – ma le similitudini tra Italia e Giappone sono molte di più di quanto ci si possa aspettare, tanto dal punto di vista sociale quanto da quello storico ed economico.

Entrambe uscite distrutte dal ciclo storico delle guerre mondiali, oggi l’Italia è un Giappone “riuscito male”, cronicamente e politicamente incapace di risollevarsi dalle disgrazie e, soprattutto, di imparare la lezione dal suo fratellastro orientale, “cresciuto bene” senza aver ceduto un grammo della sua sovranità monetaria.

Entrambi i paesi, infatti, hanno avuto il proprio “Piano Marshall”, che nella storiografia giapponese viene chiamato, al pari del nostro, “Miracolo economico o Boom economico”, ed esattamente come in Italia ciò è stato possibile grazie all’assistenza finanziaria degli Stati Uniti d’America e, successivamente, grazie alla politica di intervento pubblico del Ministero giapponese del commercio e dell’industria, vero cuore pulsante del Paese.  

La spinta all’economia giapponese, degli anni ‘50 e ’60, vide il proprio tasso di sviluppo mantenere una media del 10% per circa 18 anni, dal 1953 al 1971, con picchi che raggiunsero il 14% del PIL annuale. Anche l’Italia fece faville, ma il suo “boom” è durato “solo” 13 anni (tra il 1951 e il 1963) ed il prodotto interno lordo aumentato in media del 5,9% annuo (con un picco dell’8,3% nel 1961).

Anche in Giappone, gli USA di fatto non permisero a nessun altro degli alleati di interferire nella propria influenza politica, soprattutto per impedire l’avanzamento ideologico dell’URSS e del Comunismo. Come in Italia, gli Stati Uniti inizialmente smantellarono le maggiori concentrazioni industriali e finanziarie del periodo ante guerra, e poi ritornarono velocemente sui propri passi, ricostituendole in parte e considerandole come il punto di partenza da cui risanare l’economia del Paese.

Per non parlare dell’influenza militare americana in Italia e in Giappone – che continua ancora oggi, sebbene sotto altre forme più condivise – e della nuova Costituzione, stilata per entrambi i paesi sotto la supervisione degli USA, che “suggerirono” (fortunatamente) i principi giuridici fondamentali dell’Ordinamento Democratico e la maggior parte degli articoli sui diritti umani e sulle libertà fondamentali dell’individuo, oltre alla composizione del Parlamento (due camere) e alla Corte Suprema (Corte Costituzionale, in Italia), quest’ultima con il compito di verificare la rispondenza delle leggi del Parlamento alle rispettive costituzioni.

Volendo sorvolare sugli accadimenti della Società e della Politica – che pure hanno il loro peso – dobbiamo annotare che sia l’Italia che il Giappone si sono entrambi distinti per un notevole tasso di corruzione e scandali politici, e per la presenza di una potente criminalità organizzata (in Giappone si chiama Jakuza, l’equivalente di cosa nostra, ‘ndrangheta e compagnia cantando).

Eppure, nonostante ciò, i due principali “figli dell’America” non sono venuti su allo stesso modo, un po’ come accade nelle migliori famiglie. E i motivi ricadono nelle scelte fondamentali effettuate dalle rispettive classi politiche e industriali, che negli ultimi venti anni – in particolare con la scelta obbligata di aderire all’UE, e con la perdita della sovranità monetaria – hanno determinato la scissione da quello storico “percorso economico comune” che rendeva così simili i due stati. 

A tutto questo, si è aggiunta la “narrazione europeista”, che fa acqua da tutte le parti: il Giappone, con le sue politiche economiche espansive rese possibili dalla sovranità monetaria e dal controllo sulla banca centrale, dimostra che il problema dell’Italia non è affatto il debito pubblico, ma l’attuale modo di concepire l’Unione Europea e i privilegi di Germania, Olanda e Francia sui quali essa è stata fondata. Infatti, l’Italia attualmente ha un rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo intorno al 155% (era il 135% prima dello scoppio della pandemia), mentre il Giappone ha un rapporto poco sopra il 250% (era il 235% prima dell’era Covid). Eppure, nonostante circa 100 punti percentuali di differenza, la credibilità del Giappone non viene mai messa in discussione. Invece l’Italia, sui media nazionali ed internazionali, è data per spacciata un giorno sì ed uno no, paragonata ai peggiori esempi stranieri di gestione della Res Publica. In particolare, i media italiani a cui piace parecchio parlar male del proprio paese hanno scelto, quale metro di paragone, la Turchia, dimenticando a piacimento le profonde differenze politiche, costituzionali ed economiche dell’Italia rispetto al paese di Erdogan. Così facendo, essi contribuiscono non poco al basso apprezzamento del nostro debito pubblico (rating) e sul prezzo dei nostri titoli di Stato, soprattutto quando accade uno shock mondiale come quello che stiamo vivendo oggi: il BTP decennale, ad Aprile 2020, è arrivato ad un rendimento del 3%, mentre le emissioni giapponesi dello stesso tipo e scadenza hanno superato lo 0% di pochi centesimi.

Il Quantitative Easing non l’ha inventato l’UE o Mario Draghi: la Bank of Japan è stata la prima a sperimentarlo già agli inizi degli anni 2000, acquistando obbligazioni governative per abbassarne il rendimento. In più, la domanda interna di questi titoli è sostenuta, sia dal mercato retail che da quello di banche e fondi pensione nazionali; questo sembra essere un indice di elevata sostenibilità, che detta la differenza con il debito pubblico italiano, detenuto in buona parte da banche e fondi stranieri (circa la metà, più di 1.000 miliardi).

In tutta evidenza, ciò avviene in quanto il Giappone detiene la sovranità monetaria e può contare sulla banca centrale come prestatrice di ultima istanza. Grazie a questo, non è soggetto al classico rischio di default e non deve pagare premi agli investitori per compensare la possibilità che l’amministrazione pubblica non ripaghi i debiti accumulati. La medesima dotazione strategica era nelle nostre mani fino a quando non è avvenuto l’ingresso nella moneta unica e la inevitabile cessione di sovranità. l’Italia, con gli stessi strumenti di politica economica e monetaria del Giappone potrebbe arrivare a gestire anche gli stessi livelli di debito, e potrebbe finanziare lo sviluppo economico applicando gli stessi criteri di chiarezza contabile utilizzati dal Giappone nella sua politica di gestione del debito.

Con questi strumenti, il nostro Paese potrebbe addirittura risolvere – politica permettendo – la questione meridionale che si trascina vergognosamente dalla caduta del Regno delle Due Sicilie e dalla c.d. Unificazione d’Italia.

A differenza di quello italiano, però, l’enorme debito pubblico nipponico è più al sicuro, perché una parte è comprata dallo stesso settore pubblico che lo emette, il 37% lo ha in mano la BOJ, poi ci sono i fondi pensione, le pensioni pubbliche e le assicurazioni. Insomma, un debito formalmente elevato ma, in realtà, una “partita di giro” per una sua fetta importante, in relazione alla quale gli interessi che si pagano sul debito detenuto dalla banca centrale ritornano allo Stato generando un circolo virtuoso che l’Italia, con i suoi tassi, potrebbe addirittura superare in efficacia.

Qualcuno ha scritto di recente che “l’UE è una favola per bambini. E dietro questa storiella fatta di arcobaleni, cuoricini e frasi fatte continuano a muoversi i pragmatici interessi dei singoli stati. Tranne il nostro“.

Tutto sommato, non siamo lontani dalla verità, ed il confronto con il Giappone lo dimostra più di ogni altro argomento.

* Direttore Editoriale di Patrimoni&Finanza

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