Il “codice” MiFID e l’asimmetria informativa. L’educazione finanziaria ha un valore economico?

Oggi esiste un sistema stabile di monitoraggio, sorretto da analisi statistiche di buon livello scientifico e da indagini comparative dei livelli di educazione finanziaria presenti in altri paesi del mondo. Tuttavia, il compito di educare gli italiani in materia di finanza personale rimane pressoché impossibile. Ecco perchè.
Di Alessio Cardinale
L’Educazione Finanziaria, la tutela dei consumatori in materia di servizi e strumenti finanziari, nonchè le politiche di Inclusione Finanziaria sono da qualche anno riconosciute come elementi fondamentali di conoscenza degli individui e di stabilità del sistema finanziario europeo. Fin dal 2010, ai più alti livelli mondiali, questi principi sono stati “sdoganati” dai vari G20 nel frattempo effettuati (Inclusione finanziaria innovativa nel 2010, Tutela finanziaria dei consumatori nel 2011 e Strategie nazionali per l’educazione finanziaria nel 2012).
Di recente, 26 paesi ed economie (di cui 12 membri dell’OCSE), provenienti da Asia, Europa e America Latina hanno dato vita alla seconda indagine internazionale sull’alfabetizzazione finanziaria, stabilendo che la sua diffusione sia uno dei tre obiettivi principali, e che l’Italia non sia messa proprio bene. Infatti, secondo l’International Survey of Adult Financial Literacy e Global Financial Literacy Survey (Rapporto 2020), gli italiani che investono sono in larghissima parte degli “analfabeti finanziari”, e non conoscono concetti basilari come quelli di inflazione, interesse (semplice e composto) e diversificazione.
Da circa cinque anni, il problema della scarsa educazione finanziaria degli italiani viene discusso finalmente con una certa assiduità, ed è entrato a pieno titolo anche nel novero delle politiche a sfondo sociale degli ultimi governi lungo il corso delle ultime legislature. Pertanto, nel loro complesso, esiste oggi un sistema stabile di monitoraggio, sorretto da diffuse dichiarazioni di principio, da analisi statistiche di buon livello scientifico e da indagini comparative dei livelli di educazione finanziaria presenti in altri paesi del mondo.
Tuttavia, il compito di educare gli italiani in materia di finanza personale, così restando le cose, rimane pressoché impossibile. Infatti, oltre al fatto che le basi della buona gestione del denaro e dei risparmi non sono state ancora inserite a pieno titolo – insieme alla “grande assente”, e cioè l’educazione civica e solidale – quale materia fondamentale fin dalle scuole elementari (al pari della lingua italiana o della matematica), l’attuale “corredo educativo” disponibile agli investitori e agli stessi consulenti finanziari è composto da un coacervo di norme che, attraverso i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi trent’anni, oggi costituisce un vero e proprio “codice”.
Soltanto la MiFID II, per esempio, è articolata in 1.400 norme distribuite su circa 7.000 pagine, ed un intero corso di laurea triennale sarebbe appena sufficiente a disciplinare la conoscenza della materia anche per gli studenti più brillanti. Eppure, il sistema finanziario europeo, nel quale l’Italia è entrata a far parte ratificando le MiFID, pretende che, prima di sottoscrivere un servizio di investimento, un investitore debba leggere e comprendere da solo la complessità della materia che disciplina il prodotto che andrà ad utilizzare per gestire i propri risparmi, limitandosi ad assimilare la “traduzione” effettuata, con grande spirito di sacrificio – e relativi rischi connessi alla mancata comprensione in buona fede da parte del cliente di elementi fondamentali dell’investimento – proprio dai consulenti; i quali, essendo il terminale della comunicazione di questa lunga catena di distribuzione della conoscenza finanziaria (UE, ESMA, BCE, CONSOB, Sistema Bancario, reti di consulenza, consulenti, investitori), detengono un compito molto delicato, che li espone ad un altissimo livello di responsabilità rispetto al trattamento economico ricevuto. Nessun compenso, infatti, è previsto per l’educazione finanziaria da impartire ai singoli risparmiatori, così come nessuna disciplina organizzata è prevista in capo al sistema bancario e allo stesso Stato.
Insomma, se ne parla tanto e si fa davvero poco per consulenti finanziari e risparmiatori, e non è certo colpa delle reti non si riesce ad andare oltre alle mere dichiarazioni di intenti. Persino la campagna culturale mondiale a beneficio degli obiettivi di sostenibilità (ESG), improntata su basi emozionali di forte impatto collettivo, sembra culturalmente più accessibile di quella sull’Educazione Finanziaria.
Nonostante questo problema di base, il sistema (e chi lo regolamenta) si preoccupa ancora oggi di inondare il risparmiatore di informazioni difficili e talvolta incomprensibili. In concreto, all’atto dell’apertura di un nuovo rapporto (es. conto corrente più deposito titoli), un investitore viene sottoposto ad un bombardamento cartaceo di informazioni – per lo più indecifrabili – che totalizza circa 50 pagine e una quindicina di firme. Il sistema MiFID, pertanto, dà per scontato che l’investitore medio, grazie alla lettura di questa massa enorme di informazioni, comprenderà in maniera semplice la tutela implicita contenuta negli strumenti finanziari, il concetto di conflitto di interessi e la sua disciplina, i costi applicabili ai servizi sottoscritti/da sottoscrivere ed il concetto di best execution, che viene proposto con un inopportuno inglesismo anziché in una più accessibile traduzione in lingua madre.
Ebbene, Un sistema basato su tale enorme asimmetria informativa tra chi offre prodotti finanziari e chi li compra al dettaglio necessiterebbe, da parte delle stesse autorità finanziarie, di una proditoria semplificazione – anche concedendo una delega formativa al sistema bancario, sotto il controllo della Consob – oppure di una fase preliminare di spiegazione e trasferimento della conoscenza all’investitore come “condizione di procedibilità” all’investimento (ad esempio, attraverso un test preliminare).
Peccato che questa funzione non sia prevista, nonostante i consulenti finanziari facciano un lavoro egregio – e non retribuito, al pari delle mansioni amministrative – di informazione ed educazione finanziaria, districandosi anche loro tra mille regolamenti e continui aggiornamenti che, naturalmente, non arrivano alla clientela e si fermano all’interno del sistema. Gli investitori, infatti, non provano neanche più a leggere i contratti, rassegnati a “non voler capire” nulla di fronte ad un sistema che percepiscono come immutabile, come una creatura talmente “elevata” da richiedere un atteggiamento dogmatico e, quindi, l’assoluta inutilità di osservare le più elementari regole di informazione e controllo.
Viste queste premesse, se davvero il sistema finanziario europeo è determinato a “educare” il popolo dei risparmiatori fino a far loro acquisire un buon grado di autonomia, e se davvero si vuole fare dei consulenti finanziari gli attori principali dell’educazione finanziaria, le regole andrebbero riviste fin dalle basi, attribuendo un valore economico – e degli obiettivi di quantità/qualità, naturalmente – all’attività di educazione finanziaria svolta dai consulenti, oppure creando delle figure professionali regolarmente retribuite dal sistema, presenti in ogni rete di consulenza finanziaria e “a servizio” dei consulenti, soprattutto di quelli giovani, chiamati ad assicurare il ricambio generazionale della categoria ma non ancora pervenuti.