I fondi sovrani, obiettivi e criteri di gestione. E in Italia, quando ne avremo uno?
Tutti i fondi sovrani sono caratterizzati da alcuni principi ispiratori, uguali per tutti, che guidano le loro scelte di investimento. Mentre il fondo norvegese guadagna nel 2021 ben 111 miliardi di dollari, in Italia si comincia solo adesso a dare un po’ di concretezza al progetto voluto da Draghi.
E’ notizia di pochissimi giorni fa che il mega-fondo sovrano norvegese, che contiene asset pari a circa 1.400 miliardi di dollari – il più grande del mondo – ha ottenuto un rendimento complessivo sugli investimenti mobiliari superiore al 9% solo nel primo semestre del 2021, grazie alla forte crescita dei mercati azionari globali (ad esclusione della Cina) nei settori dell’energia, della finanza e della tecnologia. Nel dettaglio, il fondo (denominato Norges Bank Investment Management) ha registrato un guadagno di 111 miliardi di dollari (pari a 990 miliardi di corone norvegesi), sovraperformando il proprio benchmark. Ancora più in particolare, gli investimenti nei titoli dell’energia hanno dato un ritorno del 19,5%, ma gli investimenti si sono concentrati maggiormente su alcune bluechip come Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon e Facebook, che hanno permesso di realizzare una performance del 13,7% e compensare le lievi perdite di valore degli asset obbligazionari.
Non è la prima volta che si ha notizia di ottimi risultati di gestione dei fondi sovrani, ma i più non sanno bene cosa siano e come vengano gestiti. Innanzitutto, un fondo sovrano è una vera e propria istituzione finanziaria partecipata dallo Stato, che ha come attività esclusiva quella di gestire il patrimonio mobiliare conferito in totale autonomia dal mondo della politica nazionale e dagli stessi ministeri competenti. Il fondo può gestire rendite e apporti provenienti dalle più disparate fonti statali, come quelle petrolifere e gli avanzi commerciali, e possono anche avere il mandato di promuovere, attraverso investimenti “mirati”, lo sviluppo dell’economia e del tessuto imprenditoriale nazionale.
Nonostante la dotazione di mezzi finanziari e la loro gestione professionale, la storia dei fondi sovrani ci ha regalato alcuni insuccessi – come lo scandalo del fondo di sviluppo malese, che è stato al centro di uno scandalo finanziario e ha imbarazzato non poco il suo advisor americano, Goldman Sachs – e iniziative vincenti (come quella del fondo irlandese ISIF), ma tutti i fondi sovrani sono caratterizzati da alcuni principi ispiratori, uguali per tutti, che guidano le loro scelte di investimento. Il primo criterio è quello di focalizzare l’attività di gestione su progetti di largo respiro e di lungo periodo, con una complessità che richiede necessariamente un intervento pubblico per assorbire una parte di rischio e per attrarre i capitali privati in momenti particolarmente difficili per un certo mercato. Allo stesso modo, e per gli stessi motivi, un fondo sovrano può attrarre anche gli investimenti di altri fondi sovrani stranieri, in modo tale da favorire l’internazionalizzazione delle aziende su cui si investe. Il secondo criterio di gestione riguarda la sostenibilità delle scelte di investimento, che sono diverse da quelle di un tipico fondo privato. Il fondo sovrano, infatti, può anche non conseguire rendimenti di mercato strabilianti, ma in ogni caso il ritorno deve essere superiore al costo del servizio del debito pubblico sommato a quello dell’eventuale impatto economico, sociale e ambientale.
In Italia, dopo l’istituzione nel 2015 del mini–Fondo Strategico Italiano (FSI, con un capitale sottoscritto di 4,5 miliardi di euro) si parla di fare sul serio solo da un paio d’anni, ma la particolare inclinazione della politica a non delegare il controllo di una simile iniziativa, e le vicende interne legate anche allo scoppio della pandemia, non hanno permesso un dibattito costruttivo. Solo di recente, con l’avvicinarsi della partenza del Recovery Fund (in Italia PNRR), e grazie all’opera di moral suasion del premier Mario Draghi, si è cominciato a dare un po’ di concretezza, individuando nella Cassa Depositi e Prestiti l’istituzione finanziaria più idonea a gestire il fondo sovrano tricolore, che funzionerebbe gestendo sia le disponibilità liquide di “Patrimonio destinato CDP” (44 miliardi per le spa italiane), sia le disponibilità liquide dei contribuenti che investono nei PIR (Piani individuali di risparmio, che consentono l’esenzione fiscale per 5 anni entro un tetto di 150mila euro).
Ma c’è di più. Nel fondo sovrano potrebbero confluire anche parte delle risorse del Recovery Fund ed il risparmio privato raccolto attraverso altre forme di incentivazione fiscale anche diverse da quelle dei PIR. In tal senso, basterebbe coinvolgere anche una piccola parte del risparmio privato italiano – 4.400 miliardi investiti tra titoli, fondi e conti correnti – per dare in dotazione al fondo dai 200 ai 400 miliardi di euro, da investire nel tessuto produttivo italiano, e quindi non più nel debito pubblico, ma nel capitale aziendale e, in definitiva, nella crescita del Paese.