Consulenza Patrimoniale: professione del futuro, ma ancora da “identificare”
L’assenza di un corso di un percorso accademico specifico e di un albo dei consulenti patrimoniali sembra dettata dalla paura delle altre professioni di dover cedere una fetta di “sovranità culturale” e di mercato ad una nuova figura professionale che, sebbene limitatamente ad alcuni aspetti, le comprende tutte.
Di Alessio Cardinale
Da circa dieci anni, ed in particolar modo da quando gli effetti della crisi del 2008 hanno consolidato la sensazione di insufficiente efficacia della consulenza finanziaria rispetto ai bisogni della clientela variamente patrimonializzata, si è fatto strada il concetto di consulenza patrimoniale, inteso come attività professionale all’interno della quale la gestione del patrimonio mobiliare rappresenta solo una parte. Nel corso degli anni, poi, dalla semplice definizione concettuale si è passati all’attribuzione di un contenuto e delle caratteristiche di questa professione, sulla quale sussiste ancora un certo grado di indeterminatezza legato, più che mai, all’assenza di una specifica disciplina giuridica. Infatti, come è già successo nella seconda metà del secolo scorso per la nascente professione di consulente finanziario, anche quella del consulente patrimoniale viene di fatto già svolta e, in un certo modo, auto-regolamentata prima ancora di una sua previsione nel nostro Ordinamento, e questo la rende estremamente inclusiva ma piuttosto vulnerabile.
Del resto, negli anni ‘70-’80 i primi fondi comuni di investimento venivano distribuiti senza alcuna regolamentazione da reti di “consulenti-venditori”, e solo agli inizi degli anni ’90 il sistema venne disciplinato grazie all’istituzione delle SIM (società di intermediazione mobiliare) e dell’albo dei promotori finanziari. Prima di allora, chiunque poteva vendere fondi comuni, e chiunque si fregiava, solo per questo, del titolo di “consulente finanziario”. Stessa cosa sta accadendo adesso, e in assenza di una disciplina giuridica molte professioni stanno rivendicando, alcune impegnandosi lodevolmente in modo ordinato e trasparente, altre in modo disordinato, i contenuti di una nuova professionalità che “va oltre” quella del consulente finanziario, dell’avvocato, del notaio e del commercialista, solo a titolo di esempio. Il consulente patrimoniale, infatti, a differenza del consulente finanziario abilitato fuori sede, non affronterà solamente il tema della consulenza di investimento, ma dovrà occuparsi di questioni che “invadono” l’area di competenza tipica di altre professionalità e che richiedono la conoscenza di ogni dettaglio relativo alla famiglia, alla sua composizione (allargata agli ascendenti), ai risparmi, alla gestione delle entrate e delle uscite, alla previdenza, agli impegni finanziari, alla situazione debitoria, al patrimonio immobiliare ed ad altro ancora, fino ad arrivare ai problemi inerenti le crisi familiari e quelli della pianificazione successoria e del passaggio generazionale.
Tutte competenze, pertanto, che richiedono una specifica formazione e che, per le loro caratteristiche, non potrebbero che essere di livello accademico. Questo basta per comprendere come non sia sufficiente, per alcune banche-reti, fregiare i propri consulenti finanziari del titolo di “consulente patrimoniale” solo in virtù della frequentazione di un corso di formazione di due o tre mesi e della consegna di un attestato. Ancora di più, è inopportuno attribuirsi da soli una simile qualifica, magari per via di un percorso di conoscenza personale, per potersi definire consulenti patrimoniali. Di certo, se volessimo individuare una formazione ed una esperienza fortemente “propedeutiche” a quella del consulente patrimoniale, il consulente finanziario sembra essere la figura più adatta per storia, prossimità alla famiglia-cliente e abilità nella gestione della relazione; essa però si scontra con innegabili (e del tutto logiche) carenze di preparazione difficilmente colmabili senza una preparazione universitaria almeno triennale o (almeno) di un master di pari livello. Pertanto, la scelta di limitare il contenuto della consulenza patrimoniale al rilascio di una semplice certificazione di basso valore pubblicistico oggi appare dettata dalla paura delle altre professioni di dover cedere una fetta di “sovranità culturale” e di mercato ad una nuova figura professionale che, sebbene limitatamente ad alcuni aspetti specifici, le comprende tutte.
In realtà, questa paura non ha alcuna ragione di esistere, poiché la previsione legislativa di un albo dei consulenti patrimoniali, cui accedere solo dopo aver superato uno specifico corso di laurea – o altri corsi equipollenti – ed un esame attitudinale, avrebbe il compito di disciplinare, oltre ai contenuti, la giungla di tariffe e parcelle che, al momento, domina confusamente il nuovo contesto. Inoltre, la sua previsione normativa attribuirebbe notorietà alla professione e assicurerebbe un percorso di crescita alle nuove generazioni di consulenti finanziari, avvocati, commercialisti (etc) all’interno di un nuovo mercato di sbocco, senza dover per questo “invadere” le aree di competenza delle altre professioni: l’accesso alla giustizia, in qualunque forma, richiederà sempre un avvocato, e l’elaborazione di una pianificazione fiscale non potrà che essere fatta da un commercialista; il trasferimento di una proprietà immobiliare, così come la redazione di un testamento o la costituzione di un fondo patrimoniale, non potranno che essere perfezionati da un notaio, e la stima di un’opera d’arte vedrà il concorso fondamentale di un esperto in materia. In ultimo, proprio la consulenza patrimoniale assicurerebbe alle categorie professionali unite in team un notevole aumento del fatturato e dell’indotto, che è impossibile non intuire.
Pertanto, in tutti questi ambiti, nessuna invasione di campo può essere consentita dalla legislazione esistente, e certamente nessun consulente patrimoniale potrà permettersi di farlo in futuro. Il lavoro in team con gli altri professionisti, quindi, è l’unica strada possibile, da percorrere sotto l’egida di un corpo di leggi e regolamenti che ne preveda la forma giuridica, il contenuto, il valore economico e il metodo di “ingaggio” consentito al consulente, il quale potrà far accedere i clienti alla consulenza patrimoniale – come “condizione di procedibilità” – solo dopo aver curato la redazione di un “questionario esteso” che la stessa ESMA-MiFID, oggi, neanche prevede, occupata com’è a burocratizzare la consulenza agli investimenti mobiliari. Il processo di consulenza patrimoniale, invece, è rivolto sia alle famiglie che alle imprese, e mette al centro di ogni progetto la persona (o la persona-imprenditore) osservando essenzialmente tre/quattro fasi molto più inclusive di quelle tipiche del processo di consulenza finanziaria. Più precisamente:
– identificazione dello status del cliente,
– mappatura del patrimonio personale,
– mappatura del patrimonio familiare (sia in caso di unione che in caso di separazione).
In sintesi, il questionario iniziale dovrà essere esteso ad altri aspetti della vita del cliente, e prima di procedere a un’analisi del patrimonio personale e/o familiare sarà necessario identificare il suo status giuridico come single o componente della coppia: coniugato, unito civilmente o convivente (unione di fatto) con o senza un contratto che ne regolarizzi i rapporti patrimoniali. Successivamente, per non creare “confusione” tra il patrimonio personale dei singoli partner e quello familiare, bisognerà procedere ad una “ricognizione” (ricostruzione) del patrimonio personale dei coniugi, e poi far seguire la ricognizione del patrimonio familiare, che va ricostruito in funzione del regime patrimoniale scelto dalla coppia per regolarizzare tutti i loro rapporti di natura economica (comunione o separazione dei beni) nati in costanza di matrimonio. Solo dopo questi tre passaggi, il consulente patrimoniale potrà affrontare una corretta pianificazione patrimoniale e consigliare gli strumenti da adottare in tutti gli ambiti (finanza, previdenza, protezione etc).
Una eventuale quarta fase del processo di consulenza – sempre più importante – è quella dell’analisi degli effetti patrimoniali in caso di separazione o divorzio; una fase piuttosto impegnativa per qualunque professionista, soprattutto nei casi in cui la coppia abbia originariamente scelto il regime di comunione dei beni.
In definitiva, questa nuova professione, di cui tanto si sente parlare, deve ancora essere “identificata” e, in un certo senso, anche “nobilitata” sia dall’Ordinamento che, soprattutto, dagli addetti ai lavori, tra i quali non si intravede ancora chi vorrà intestarsi la paternità di un percorso di legittimazione che, per sua natura, non potrà che essere legislativo.