Ottobre 6, 2024

Nessuno vuole la revisione dei valori catastali. La riforma colpirà il ceto medio

Da anni ormai si parla di revisione dei valori catastali, ma la riforma di settore rimane una eterna incompiuta. Dal primo dei parlamentari all’ultimo dei piccoli proprietari di immobili, nessuno la vuole. Eppure la strada sembra segnata.

Di Massimo Bonaventura

In Italia esiste un asse politico-sociale trasversale ed eterogeneo, che in occasione della convergenza di interessi economici primari si muove all’unisono, senza essere sollecitata dalle lobbies che animano i corridoi di Camera e Senato. Succede ad ogni legislatura con le aliquote di donazione e successione – in relazione alle quali il nostro Paese viene tacciato di essere una sorta di “paradiso fiscale” – ma nel caso della tassazione sulle abitazioni si tratta di un rarissimo esempio di perfetta sintonia tra Politica e Popolo, e basterebbe anche un dieci per cento di questa sintonia per risolvere problemi “decisivi” come la redistribuzione del reddito, la tassazione delle imprese e dei lavoratori dipendenti, lo sfascio della Sanità, la responsabilità civile dei magistrati e la vergogna di una legge elettorale basata ancora sulle liste bloccate e sulla supremazia dei partiti, solo per fare un esempio.

La questione della tassazione della casa e della revisione del metodo di calcolo dei valori catastali, a ben vedere, va oltre il semplice dibattito politico e finisce per investire aspetti che hanno a che fare con la politica fiscale interna e, in un certo modo, con la nostra stessa sovranità. Infatti, era il 28 settembre del 2015 quando la Commissione Europea cominciò a sollecitare l’Italia ad adottare misure che alleggerissero gli oneri fiscali gravanti sul lavoro, e spostassero il carico sui consumi, sugli immobili e sulle donazioni/successioni. In particolare, nel rapporto Riforme fiscali negli Stati membri dell’Unione europea, ci venne chiesto espressamente di tassare meno il lavoro e tassare più efficacemente le abitazioni, ossia il patrimonio, ma nonostante siano passati sei anni non si è mossa neanche una foglia.

In verità, stessa cosa fu chiesta a Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria e Finlandia, ma è in Italia che il c.d. cuneo fiscale sul salario medio è più elevato, attestandosi al 48,2% contro il 43,4% della media UE. Quest’ultimo dato, poi, si aggiungeva al nostro tasso di occupazione complessivo, pari nel 2014 al 59,9% contro il 70,9% dell’Unione europea di allora. Dal raffronto tra queste due grandezze nasce il “consiglio” dell’Europa di riequilibrare le due poste (cuneo fiscale e tasso di occupazione), strettamente collegate tra loro, e spostare il peso fiscale sulle case, in modo da utilizzare i proventi aggiuntivi per ridurre le tasse sul lavoro. Peccato che questa visione lasci fuori la riduzione della tassazione sui redditi, e riveli un approccio alla redistribuzione della ricchezza affatto “in sintonia” con i produttori di reddito, i quali preferirebbero vederselo detassare, aumentare i consumi e attivare il moltiplicatore dell’economia reale, utilizzando il maggior gettito “strutturale” derivante dalla riforma dei valori catastali proprio per ridurre gradualmente, anno dopo anno, le imposte sui redditi. Oppure ancora, entrambe le cose.

Invece, sposando la visione della Commissione europea, si sposta solo il peso del fisco sui patrimoni, ed è proprio questo che unisce in un sorprendente abbraccio classi sociali così diverse tra loro. In ogni caso, la resistenza del centrodestra all’ipotesi di alzare l’imposizione sulle ricchezze di qualsivoglia natura mette al riparo, al momento, da misure del genere. Però si deve riconoscere che, qualora la riforma venisse fatta senza danneggiare i piccolissimi proprietari di immobili – quelli che hanno la sola abitazione in cui vivono, insomma – il riordino dei valori catastali potrebbe essere un primo passo per ridistribuire la ricchezza dai più ricchi ai meno ricchi. Ciò potrebbe avvenire aumentando significativamente le tasse sugli immobili di pregio, che in Italia non sono pochi, e offrendo ai piccoli proprietari una sorta di “franchigia fiscale” entro un dato valore commerciale della propria casa, individuabile tramite l’Osservatorio OMI dell’Agenzia delle Entrate.

Sul tema generale, il dibattito del Governo si snoda sul riequilibrio del prelievo fra chi ha un immobile dal valore di mercato più basso di quello richiesto oggi dal fisco e chi si trova nella situazione opposta, e questo potrebbe avvenire solo utilizzando il metro quadro, e non più il “vano catastale” come unità di misura alla base delle rendite. In questo modo, il valore di reddito delle abitazioni potrebbe essere affiancato dal valore medio di mercato, e fare giustizia tra micro-proprietari di periferia e grandi detentori di immobili di lusso. Darebbe maggiore equità fiscale, infine, tassare in base ad altri parametri specifici, come la natura del fabbricato, la sua classe energetica, il contesto del quartiere ed in generale tutta una serie di caratteristiche relative all’area in cui l’immobile è inserito (es. trasporto pubblico, presenza di scuole, di ospedali e di esercizi commerciali).

Naturalmente, nessuno si aspetti che da una riforma del Catasto possa scaturire l’esenzione da possibili aumenti della tassazione: chiunque verrà colpito, poiché la motivazione di una simile misura è l’aumento del gettito fiscale. E poco importa se, in Italia, la casa è “sacra” anche per i parlamentari e i lobbisti, poiché il percorso sembra essere ineluttabile, ed il gettito previsto ben più ingente di quello derivante dall’aumento delle aliquote di donazione e successione. Peraltro, i più colpiti da questa riforma saranno i piccoli proprietari del ceto medio delle grandi città, ossia proprio coloro che la riforma fiscale dovrebbe favorire dopo venti anni di Unione Monetaria e di continuo depauperamento del potere d’acquisto e della capacità di risparmio.

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