Ucraina a parte, sui mercati pesano i dati “roventi” sull’inflazione: cosa succede adesso?
La performance dei mercati è stata modellata dalla crescita dei prezzi al consumo, che sta mettendo a dura prova il sentiment dei consumatori. La crisi Ucraina non modifica la prospettiva su ciò che mostrano i dati recenti, e su ciò che potrebbe accadere.
Mentre la crisi tra Russia e Ucraina incombe sul panorama mondiale, i fondamentali di mercato non mutano affatto, e affidano gli scenari futuri alla congiuntura economica. Infatti, l’inflazione ha accelerato la sua corsa a Gennaio, allargando le pressioni sui prezzi, ed il rendimento dei Treasury a 10 anni ha superato la soglia del 2% per la prima volta dal 2019, sotto la scia delle aspettative per un inasprimento più aggressivo da parte della Fed. E così, i settori sensibili ai tassi e i titoli growth hanno sottoperformato dopo tanto tempo, confermando un trend che vedrebbe adesso i titoli value più attrattivi.
Sebbene gli investitori si aspettassero una lettura dell’inflazione elevata, i dati di gennaio sono comunque riusciti a sorprendere al rialzo, innescando un’immediata reazione del mercato azionario ed obbligazionario. L’indice dei prezzi al consumo (CPI) è aumentato del 7,5% rispetto a un anno fa, superando la stima del 7,3% e segnando il più grande aumento dal febbraio 1982. Escludendo le componenti volatili di cibo ed energia, i prezzi sono aumentati del 6% rispetto a un anno fa e dello 0,6% da un mese prima.
L’aumento dei prezzi di cibo, elettricità, auto usate e abitazioni ha segnalato che le pressioni sui prezzi si stanno diffondendo al di là di alcuni beni che continuano a essere colpiti dalle interruzioni della catena di approvvigionamento. Inoltre, è probabile che l’accelerazione degli affitti, il peso maggiore nel paniere di spesa dei consumatori, sia supportata dall’aumento dei prezzi delle case, da un mercato del lavoro molto teso e dal tasso di affitti liberi più basso dal 1984. Con l’aumento dell’inflazione nel prezzo dei servizi, ci vorrà probabilmente più tempo di quanto le banche centrali siano disposte a tollerare prima che il tasso di crescita dei prezzi ritorni ad una soglia accettabile e adeguata a sostenere l’onda lunga del piano di espansione dell’economia.
Anche se l’inflazione probabilmente rimarrà al di sopra dell’obiettivo della Fed per qualche tempo, gli aumenti dei prezzi raggiungeranno presto il picco entro il mese di marzo e si modereranno in modo più significativo nella seconda metà dell’anno, man mano che le catene di approvvigionamento e le scorte si normalizzeranno. A gennaio, per esempio, i prezzi delle auto usate sono aumentati del 41% e quelli delle auto nuove del 12% rispetto a un anno fa, ma si tratta di un recupero delle perdite realizzate a dicembre.
Più in generale, i costi di spedizione sono diminuiti da metà novembre, e i tempi di consegna dei fornitori sono migliorati, entrambi indicando che i colli di bottiglia stanno iniziando a risolversi. Con l’attenuarsi dell’impennata della variante omicron, questa tendenza al miglioramento potrebbe ulteriormente prendere vigore, confermando che l’inflazione elevata è un problema che non verrà risolto presto, ma la sua dinamica in aumento verrà spenta non appena la Fed inizierà ad agire sui tassi in modo deciso. Forse è per questo che le aspettative di inflazione a lungo termine basate sul mercato sono rimaste relativamente stabili, anche se l’inflazione nel breve periodo sta raggiungendo i massimi da 40 anni.
In ogni caso, è evidente che i dati economici evidenziano l’urgenza per la Fed di agire, e ciò rappresenta comunque un cambiamento di linea rispetto a quella di appena 4 mesi fa, secondo la quale non sarebbe stato necessario mettere mano ad un aumento dei tassi e sarebbe stato sufficiente attendere la sistemazione spontanea delle distorsioni nelle catene di approvvigionamento. La Fed deve quindi abbandonare la sua politica monetaria estremamente accomodante e iniziare velocemente ad aumentare i tassi di interesse. Con il PIL che dovrebbe continuare a crescere a un ritmo superiore alla media quest’anno, e con il tasso di disoccupazione in calo vicino ai minimi storici, l’economia non ha decisamente più bisogno di aiuto, e sebbene gli aumenti dei tassi non aiuteranno a risolvere i problemi della catena di approvvigionamento, ed anzi aumenteranno il costo dei prestiti – vero asse portante dei consumatori, soprattutto di quelli americani – le mosse della Fed potrebbero aiutare a bilanciare domanda e offerta.
Dopo la pubblicazione dei dati sull’inflazione, il mercato obbligazionario si sta muovendo in modo un po’ irrazionale, soprattutto in USA, dove sta scontando quasi ben sette rialzi dei tassi solo quest’anno. Decisamente troppi, ma a guidare questo comportamento è la percezione che la Fed, invece di aumentare il tasso di riferimento del classico 0,25% a marzo, possa decidere di aumentarlo dello 0,5%, ossia il primo aumento di mezzo punto dal 2000. Tale sensazione è rafforzata dal presidente della Fed di St. Louis James Bullard, che ha espresso pubblicamente il suo sostegno all’aumento dei tassi dell’1% entro luglio, facendo schizzare i rendimenti dei treasuries a due anni della percentuale più grande dal 2009.
Da qui il timore di una serie di rialzi che appare invece del tutto ingiustificata. Infatti, è più logico ritenere che in risposta all’aumento repentino e sostenuto dell’inflazione – il maggiore aumento degli ultimi quattro decenni – un ritmo di inasprimento più aggressivo sia giustificato solo all’inizio, con la Fed in rialzo in ciascuno dei prossimi tre incontri (marzo, maggio, giugno) allo scopo di “chiudere la partita” con l’inflazione nel più breve tempo possibile e continuare a far crescere l’economia. Da giugno in poi, la Fed potrebbe avere un certo margine per rivalutare le cose e muoversi a un ritmo più graduale se l’inflazione, come ci si augura, si dovesse moderare.
I rendimenti globali sono in aumento anche in Europa e nel resto del mondo, dove le altre banche centrali stanno ruotando in risposta alle pressioni inflazionistiche. I rendimenti a 10 anni dell’eurozona hanno superato lo 0% per la prima volta in tre anni, e i rendimenti giapponesi sono i più alti dal 2016, avvicinandosi al limite massimo dello 0,25% della Banca del Giappone. Con la fine dell’era dei tassi negativi, il valore di mercato del debito a rendimento negativo in tutto il mondo (composto principalmente da titoli di Stato esteri) si sta riducendo rapidamente, e con le banche centrali che iniziano a normalizzare la politica monetaria gli investitori con un orizzonte temporale pluriennale potranno beneficiare di rendimenti più elevati, ma solo se mantengono un investimento adeguato rispetto ai loro obiettivi di investimento, orizzonte temporale e tolleranza al rischio. Quando le obbligazioni a breve termine matureranno, il controvalore potrà essere reinvestito in obbligazioni di nuova emissione con cedole più elevate. Così facendo, le obbligazioni potrebbero tornare a fungere da stabilizzatore di portafoglio durante i periodi di volatilità dei mercati, proprio come una volta.