Inflazione, guerra e potere d’acquisto: mettiamo ordine e fissiamo i punti
I mercati cominciano a scontare una durata lunga sia della guerra che dell’inflazione, che ci metterà parecchio prima di arretrare per via delle prolungate tensioni sul prezzo delle materie prime energetiche. Domande “secche” e risposte schiette.
Neanche lo scoppio della pandemia, con il suo carico di video e immagini ormai iconiche – ricordate i mezzi dell’esercito a Bergamo per il trasporto delle bare? – aveva destato tanta preoccupazione nei mercati finanziari e negli investitori come l’attuale binomio inflazione-guerra. Come per il Coronavirus, anche di queste due variabili non si riesce a intravedere la fine; eppure i mercati ne hanno visti, fin dal Secondo Dopoguerra, di conflitti armati e inflazione, ma a differenza degli altri questi eventi mettono più paura perché la sensazione che possano avere la natura di “financial pandemic” diventa ogni giorno più forte.
In breve, gli operatori di mercato cominciano a scontare una durata lunga sia della guerra – subito trasformata in una “guerra per procura” tra la NATO per mezzo dell’Ucraina e la Federazione Russa – sia dell’inflazione, la quale ci metterà parecchio prima di arretrare verso un tasso più sostenibile per via delle prolungate tensioni sul prezzo delle materie prime energetiche (che stanno arricchendo i paesi produttori e impoverendo quelli importatori netti). Persino gli analisti più inclini a comparsate nei Tg economici e nelle interviste sui media che si occupano di finanza oggi stanno cautamente defilati nel nome di uno dei più famosi motti di Warren Buffet: “In finanza è meglio non dire nulla che dire sciocchezze”. In tal senso, anche il silenzio dell’oracolo di Omaha rivela il fatto che, questa volta, neanche lui ha una vaga idea di come uscire da due fenomeni profondamente diversi per natura e cause ma con medesimi effetti sui mercati, accomunati come sono da un tempismo diabolico.
L’inflazione, infatti, è figlia di uno degli effetti principali della pandemia, ossia il blocco della produzione nei mesi di marzo, aprile e maggio 2020 ed il forte rallentamento delle rotte di distribuzione causato dalle restrizioni imposte dal contagio; la guerra scatenata da Putin, invece, è un atto ostile contro l’umanità – ogni guerra lo è, anche se geograficamente localizzata in una data regione del mondo – cui tutti noi non eravamo abituati ad assistere così vicino a casa, e verso la quale abbiamo una evidente impreparazione psicologica da quando è caduta la Germania nazista di Hitler (al contrario degli Stati Uniti, che non hanno mai smesso di fare guerre proprio a partire da quel momento).
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Le domande che risparmiatori, investitori e operatori finanziari si pongono trovano spesso risposte tra le più diverse e contrastanti; per cui, cerchiamo di fare un po’ di ordine e fissare dei punti attraverso le domande più frequenti e le risposte più corrette. Alla rotta da seguire con gli investimenti, poi, ci penserete voi.
“Quanto tempo durerà la guerra?“
Dipende dagli interessi politici e industriali in gioco, primo tra tutti da quello degli Stati Uniti e da quello delle industrie delle armi – le abbiamo anche in Italia – e del petrolio che, da questo conflitto, cercano di trarre vantaggio al pari dello stesso Putin che, la guerra, l’ha scatenata sul campo. L’Unione Europea appare politicamente “pietrificata” e subalterna, ma è un atteggiamento del tutto normale: in caso di allargamento del conflitto, senza la NATO e gli Stati Uniti la Russia farebbe dell’Europa un sol boccone. C’è da dire che l’allargamento politico del conflitto è già avvenuto – con i paesi aderenti alla NATO che portano armi in Ucraina non badando alle apparenze diplomatiche – ma non quello militare, per fortuna. Di questo passo, potremo rivedere la luce solo nel momento in cui la diplomazia riprenderà a prevalere sulle bombe.
“L’inflazione rimarrà elevata per molto tempo?“
L’inflazione non ci abbandonerà molto presto, e prima di assestarsi verso una misura più sostenibile potrebbero passare ancora dai 12 ai 18 mesi. Eroderà i risparmi in misura significativa, dal momento che non esiste investimento obbligazionario con cedola e con rating elevato in grado di compensare, se non in minima parte, il decremento reale del potere d’acquisto. Molto dipenderà, in ogni caso, dalla durata della guerra in Ucraina e dalle conseguenti tensioni sui prezzi di gas e petrolio, ma difficilmente scenderà dall’attuale 6,7% al di sotto di un tasso annuo inferiore al 3-3,5%, sia in Europa che in USA, con tempi diversi (più rapidamente negli Stati Uniti, più lentamente in Europa).
“I fondamentali economici dei paesi sono tali da giustificare per lungo tempo una inflazione elevata?“
I fondamentali dell’economia, con una domanda post-pandemia ben sostenuta, hanno finora limitato i danni, ma in Italia già si parla di una “recessione tecnica” (un trimestre negativo), e presto la diminuzione del PIL europeo e americano potrebbero preoccupare ancora di più i mercati, con l’azionario ancora privo di spunti al rialzo – la propensione al rischio è bassa e i megatrend attualmente dimenticati – e l’obbligazionario che appare destinato a non rialzare la testa finchè le previsioni sul rialzo dei tassi di interesse non cominceranno a parlare di una uscita dal tunnel.
“Qual è la percentuale di inflazione media che possiamo aspettarci nei prossimi 10-15 anni?“
Difficilissimo rispondere. Nel medio periodo, in tutta probabilità, ci dovremo attendere tassi comunque elevati e oscillanti tra il 2.5% e il 3.5%. Certamente possiamo dimenticarci del tasso zero, la cui era sembra definitivamente conclusa (almeno per i prossimi 15-20 anni). Nel lungo periodo, invece, è probabile che si tornerà a poter gestire l’inflazione e puntare nuovamente al tasso massimo di politica monetaria del 2%, soprattutto in Europa a guida tedesca dove vivere con l’inflazione alta equivale a dormire ogni notte sapendo di avere Belfagor nell’armadio.
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“Quali saranno gli effetti sul potere d’acquisto e sui risparmi nel breve e nel lungo periodo?“
L’erosione del capitale sarà evidente a partire dal prossimo autunno, ma già gli aumenti dei prezzi sono evidenti nel settore degli affitti, in quello turistico e su quello della ristorazione, con aumenti medi dal 7% al 20% in alcune località. L’inflazione elevata potrebbe sollecitare gli amanti della liquidità in conto corrente ad investire di più in strumenti che possano compensare la perdita del potere d’acquisto dei propri risparmi, ma mentre sulla durata dell’inflazione elevata abbiamo purtroppo qualche certezza, degli investimenti azionari – gli unici storicamente in grado di restituire un rendimento reale significativo, ma solo nel lungo periodo – non possiamo dire altrettanto, soprattutto nel breve periodo. Probabilmente troverà maggior favore l’investimento immobiliare, da sempre preferito sia in Italia che in molti paesi occidentali (sebbene con differenti finalità socio-demografiche). Di certo, lasciare il denaro sul conto è un atto di consapevole autolesionismo.
“Quali saranno gli effetti sull’indebitamento privato e pubblico?“
Se c’è un effetto positivo dell’inflazione, è quello che anche il valore reale del debito, privato o pubblico, si “impoverisce” più o meno nella stessa misura. In passato, gli italiani hanno sostenuto la domanda di immobili proprio grazie all’inflazione media al 15%, con i mutui a tasso fisso le cui rate, già dopo 5 anni, sembravano piccolissime, come per magia. Tuttavia, quello è il periodo della c.d. Scala Mobile, quando stipendi e pensioni aumentavano in base al tasso di inflazione; oggi questo strumento non esiste, e il livello medio dei redditi dei lavoratori più giovani si è abbassato progressivamente – complice la totale deregulation sulla paga oraria minima per legge – per cui l’”effetto inflazione” sulle rate dei mutui a tasso fisso già attivi sarà molto limitato.
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“La compressione forzosa verso il basso dei tassi di interessi, nonostante l’alta inflazione, rischia di appiattire il corso dei titoli obbligazionari per molto tempo?“
E’ probabile che ciò accada, e secondo molti analisti la parabola discendente sui corsi delle obbligazioni non è ancora terminata. Al momento, l’unico approdo obbligazionario sembra essere quello dei titoli inflation linked oppure, per chi ha una maggiore propensione al rischio, quello delle obbligazioni convertibili. Bisognerà attendere le nuove emissioni successive agli aumenti dei tassi di interesse prima di poter rivedere anche nei comparti obbligazionari una certa volatilità, e anche il ritorno delle opportunità basate sugli spostamenti della curva dei tassi. Tra 12-18 mesi i bond potrebbero tornare ad assolvere, sia pure in modo differente rispetto al passato, l’antica funzione di “cuscinetto” dei portafogli di investimento.