La professione di consulente finanziario e il ricambio generazionale che non c’è
La categoria dei consulenti finanziari ha bisogno di nuova linfa, ma le reti sembrano non accorgersene.
Di Alessio Cardinale
La figura del consulente finanziario, per lungo tempo denominato promotore finanziario (e prima ancora consulente, ma in modo informale e auto-attribuito), è nata cinquant’anni fa, in un’epoca in cui vendere un fondo comune di investimento equivaleva a piazzare un’astronave ad una tranquilla famiglia italiana della classe media. Al suo inizio, e per almeno trent’anni, il lavoro di consulente si è svolto mettendo in grande risalto le tecniche di vendita più sofisticate – ma mai ingannevoli – per quei tempi, prese in prestito dai maghi del marketing a stelle e strisce e soprattutto dall’esperienza di chi ha fatto nascere questa professione, l’americano Bernie Cornfeld. Dalle ceneri della sua IOS, prima grande rete di vendita con migliaia di agenti sparsi in tutto il mondo, nacque Fideuram (che era l’acronimo di “Fiduciaria Euro Americana”).
Fin dalle sue origini, pertanto, il mestiere di consulente finanziario – allora semplice venditore di fondi “porta a porta”, come amano ripetere ancora oggi alcuni detrattori di dubbia competenza e professionalità – riservava ai candidati dei contenuti a forte impatto emotivo, del tutto inadatti a chi non sapesse veramente mettersi in gioco e “denudare” il proprio io di fronte ai colleghi più anziani. Non sorprenderà, pertanto, che a cominciare dai primi anni ’80 chi veniva selezionato per sostenere un colloquio di inserimento non parlava in prima battuta con un manager, ma con uno psicologo, che verificava le capacità del candidato di imbastire nuove relazioni, sondare le esigenze più profonde delle persone, sapere ascoltare i loro messaggi espliciti o impliciti, imparare ad utilizzare le domande chiuse/aperte e a creare curiosità verso strumenti di investimento che ai risparmiatori di allora sembravano pura fantascienza.
Inoltre, si doveva comunicare – e motivare – al cliente potenziale la presenza di commissioni di ingresso anche del 7,5% (i primi pionieri raccontano di front fee del 10% negli anni ’70), e questo faceva dei consulenti finanziari ante Legge 1/91 dei venditori mitologici. Oggi una commissione di quel tipo ci fa gridare allo scandalo, ma bisogna contestualizzare il periodo storico: il management fee, ossia la “base stabile” del reddito ordinario del consulente, neanche esisteva (sarebbe stata una conquista successiva di Anasf e delle sigle sindacali del tempo, di cui oggi beneficiano tutti), e il valore delle quote dei primi fondi di investimento si è moltiplicato per venti, ammortizzando largamente quelle commissioni così “preistoriche”.
Il marketing operativo del neofita prevedeva sia il contatto “a freddo”con i potenziali clienti (le famose “telefonate a freddo” immortalate nel film “Wall Street” degli anni ’80), sia il contatto “a caldo” con persone già conosciute con cui era meno difficile ottenere un appuntamento insieme al proprio supervisore. Inoltre, si stava tutto il giorno fuori a fare appuntamenti – almeno 4 ogni giorno, era la regola aurea per un buon avviamento dell’attività – si conoscevano tante persone nuove e si andava in ufficio solo ad inizio e a fine giornata, per consegnare i contratti oppure per confrontarsi con i colleghi sull’efficacia delle tecniche di marketing operativo. Le postazioni di lavoro si condividevano – solo un “anziano” poteva averne una tutta sua – così come tutti i costi dell’ufficio. Lavorare dentro una filiale bancaria non era neanche lontanamente immaginabile. I supervisori, tutti di grande esperienza, tiravano su i nuovi entrati a forza di riunioni, incontri motivazionali e, soprattutto, a furia di costante affiancamento commerciale. Erano anche veri maestri di vita, i supervisori, ed oggi se ne sente la mancanza.
L’offerta di prodotti finanziari era ai minimi termini: un fondo comune obbligazionario (da assimilare ai BTP), uno azionario globale (azioni) e uno bilanciato (fifty-fifty tra il primo ed il secondo), con i quali si proponevano alternative, tutt’altro che fantasiose o ingannevoli, agli strumenti di risparmio più usati allora dagli italiani. Infatti, si lavorava contro i titoli di stato al 12-15%, in una Italia in cui ognuna delle principali città (Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo) aveva la propria borsa valori. Insieme ai fondi comuni si vendevano soprattutto sogni e ideali di risparmio, e non c’è dubbio che i concetti basilari dell’Educazione Finanziaria siano nati proprio in quel tempo, nel quale si parlava già di risparmio per obiettivi, e di sogni di vita vera che spesso si avveravano: nonostante le commissioni di ingresso molto elevate, i primi “risparmiatori/pionieri” che hanno creduto in quella innovazione di prodotto hanno comprato casa dopo appena qualche anno, grazie ai rendimenti stratosferici realizzati in quegli anni dai mercati finanziari.
Tutto questo oggi è un lontano e nostalgico ricordo.
Intendiamoci, i sistemi cambiano, si evolvono e si adattano ai tempi. E migliorano anche. E’ un fatto quasi naturale, che rientra nelle dinamiche di qualunque sistema produttivo. Le regole che hanno disciplinato per anni la professione dei consulenti finanziari, però, sono cambiate troppo in fretta, chiudendo la professione all’interno di una sfera di cristallo dove gli attuali consulenti invecchiano e dove migliaia di giovani, che sulla consulenza finanziaria potrebbero puntare dopo gli studi universitari, non riescono a fare ingresso e ad assicurare così al sistema quel passaggio generazionale che, invece, da sempre garantisce longevità alle altre professioni più rinomate. Infatti, la competizione tra banche/reti, incanalata verso il recruiting di consulenti con masse consolidate o di bancari con potenzialità di portafoglio ed esperienza, si rivela un gioco a somma zero, perché escludendo i giovanissimi – che non hanno né masse né esperienza – determina una lenta e inesorabile diminuzione del numero dei consulenti attivi.
Ancora oggi, ai parametri di qualità dei professionisti (solo a titolo di esempio: competenze specifiche acquisite, tasso di fedeltà della clientela, aggiornamenti professionali svolti, assenza di reclami, presenza sul web, capacità di diffondere contenuti, proattività nelle iniziative di attrazione della clientela etc) vengano preferiti dei parametri meramente quantitativi di natura tipicamente commerciale, primo tra tutti quello del portafoglio medio pro capite. Eppure, sono davvero pochi i clienti che soppesano il valore di un consulente in base al portafoglio da lui amministrato (quanti di loro ve lo chiedono, quanti di loro lo conoscono?), preferendo di gran lunga qualità come correttezza, puntualità, prontezza, prossimità, chiarezza, precisione e percezione di esclusività della relazione.
Da molti anni le reti preferiscono investire sui bancari con portafoglio clienti (i c.d. private bankers), che richiedono un investimento inferiore rispetto a quello previsto in termini di tempo (da tre a cinque anni) e di denaro (tra 50.000 e 75.000 euro) per un promettente neolaureato senza esperienza, ma il sistema ha gradualmente eliminato sia la figura del praticante sia quella del supervisore da affiancamento, determinando di fatto il crollo dell’architrave su cui si reggeva il ricambio generazionale della categoria. Basterebbe un solo supervisore “vecchio stampo” per fare crescere, ed anche in fretta, sia i bancari che i giovani neolaureati; entrambi, infatti, hanno caratteristiche simili: sono impreparati a diventare “imprenditori di se stessi” e sono bisognosi di un lungo periodo di adattamento al lavoro autonomo. Eppure, la presenza di giovanissimi all’interno di un ufficio di consulenti finanziari avrebbe più vantaggi che costi: darebbe all’ambiente di lavoro una “scarica motivazionale” formidabile, stimolando nuovo entusiasmo negli “older” e la loro naturale propensione a fare da tutor, trasmettendo quotidianamente il mestiere a coloro che sono destinati ad “ereditare” il loro portafoglio clienti nel momento della pensione.
Proprio oggi, in uno scenario di guerra e in una fase storica di mercato che non si vedeva da almeno vent’anni, è il momento giusto per fare molto di più in tema di passaggio generazionale, investendo moltissimo sui giovani e creando una tutorship sistemica prima ancora che individuale.
Ogni ritardo, in tal senso, diventa complicità in un sicuro declino della professione.