Scudo anti-spread: un nuovo strumento della BCE per intrappolare l’economia italiana?

L’annuncio della Bce sul nebuloso scudo anti-spread non spegne i dubbi sulla reale possibilità che un simile strumento possa funzionare in un periodo di alta inflazione. Ecco i rischi per l’Italia.
Di Alessio Cardinale
Per trovare una inflazione come quella di oggi (+6,7%) sarebbe necessario tornare agli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Oggettivamente, dopo quasi un decennio di tassi prossimi allo zero (o negativi) e di inflazione pressoché nulla, c’è chi neanche ricorda più – o non ha mai vissuto direttamente – una simile corsa dei prezzi che rischia di azzerare circa trentacinque anni di storia e stabilità economica. Soprattutto tra i millennials, che tra mille differenze con il periodo storico in cui hanno vissuto i babyboomers cercano di portare avanti i propri progetti di vita.
Ma se uguale è il livello di inflazione, sono comunque tantissime le differenze tra la nostra epoca e quella dei favolosi “eighties e nineties”, di gran lunga migliori, a parere di chi scrive, rispetto ai “two thousand years” così carichi di tecnologia, senso del profitto ad ogni costo e culto della relazione interpersonale debole. Innanzitutto, già dalla metà degli anni Ottanta l’inflazione stava cominciando a scendere dopo aver raggiunto un livello medio del 15% circa nel 1980 generato dall’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio che, invece, oggi la sta facendo salire per via del conflitto bellico in Ucraina. Inoltre, non esiste più il meccanismo della c.d. Scala Mobile, che allora adeguava i redditi sulla base del tasso di inflazione, per cui il potere d’acquisto delle famiglie rischia di subire un colpo durissimo in un solo anno fiscale. Ancora, i mercati finanziari non erano certamente gli stessi, così come le dimensioni della finanza speculativa, e le quotazioni di borsa erano irrimediabilmente legate all’economia reale.
Per questi motivi, in un sussulto di (finta) solidarietà verso le famiglie con reddito più basso abitanti nei paesi – come l’Italia – dotati di un sistema economico bisognoso di riforme strutturali ormai urgentissime, la Banca Centrale Europea ha annunciato la “preparazione” di un c.d. scudo anti-spread, riunendo in seduta straordinaria il Consiglio direttivo che, a sua volta, ha incaricato gli uffici di studiare l’intervento più opportuno. Se non si fosse deciso di far scattare il piano d’emergenza, si sarebbe trattato di pura fuffa europea, e i mercati ci avrebbero penalizzato ancora di più; ma almeno sappiamo che, con modalità ancora tutte da scoprire, Francoforte potrà riacquistare i titoli alla scadenza in base alle esigenze del mercato senza dover tener conto della quote definite per Paese.
In cosa consiste questo “scudo”? Sappiamo che avrebbe lo scopo di impedire che movimenti speculativi di mercato possano esercitare eccessiva pressione sulle singole nazioni nel momento in cui la banca centrale avvia alla luce del sole un percorso di aumento graduale dei tassi di interesse, ma è mancato un messaggio netto da parte della Lagarde, poiché ad oggi si conoscono soltanto i meccanismi di base dello scudo ed il principio di fondo, e cioè che la Bce acquisterà incondizionatamente le obbligazioni degli Stati con il maggiore debito derogando al principio che imporrebbe alla banca centrale di acquistare gli asset in base alle dimensioni di un’economia. Naturalmente, all’Italia – paese indebitato per eccellenza e trattato
costantemente dai c.d. paesi frugali come la Cenerentola d’Europa – verranno richiesti dei vincoli, come l’aderenza pedissequa a raccomandazioni economiche della Commissiona europea. Questo la Lagarde non lo ha detto, ma rientra nella natura stessa di questa Unione Europea a guida tedesco-francese, che è fondamentalmente una unione contabile e non lascia spazio alcuno al principio di solidarietà tipico di una “unione dei popoli”, secondo la quale, invece, i problemi di un paese si risolvono insieme, condividendo danni, soluzioni e vantaggi economici generali.
Da apprezzare, tuttavia, gli sforzi di Christine Lagarde di trasmettere una certa sicurezza ai mercati almeno nell’adozione di uno stile “draghiano” allorquando ha dichiarato che l’impegno a scongiurare la frammentazione degli spread “non ha limiti”, tracciando così una similitudine con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi nel 2012. Purtroppo, Christine Lagarde non è – o non le è consentito essere – Mario Draghi, e le sue dichiarazioni si distinguono per vaghezza e scarsità di dettagli, lasciando spazio a quella speculazione a cui il mandato della Lagarde sembra essere involontariamente connesso fin dal Marzo del 2020, quando la Lagarde, in piena pandemia e con i mercati assetati di soluzioni, affermò che “non è
compito della Bce ridurre gli spread” e che non voleva “essere ricordata per un altro whatever it takes”, causando un crollo del 10% delle borse europee e del 17% in Italia – in una sola giornata, il 12 Marzo – e uno spread BTP-BUND pari a 260 punti. Nei due anni successivi il presidente della Bce ha beneficiato del sentimento di riscatto generale dalla pandemia e di un certo ottimismo dei mercati, trainati dalle misure espansive dei governi e dai piani di spesa, ma lo scorso mese di febbraio 2022 Christine Lagarde ha dato una ulteriore prova della sua scarsa preparazione al ruolo e, dopo aver dichiarato più volte che i tassi non sarebbero stati toccati prima del 2023, annunciava bruscamente il rialzo dei tassi, generando altra speculazione.
Pertanto, l’annuncio dello scudo anti-spread non nasce con i migliori auspici, anche perché le caratteristiche dello strumento non sono note e ai mercati restano le generali dichiarazioni scritte dopo il vertice straordinario all’Eurotower. I più maliziosi pensano che questo imbarazzante comportamento da absolute beginner non sia del tutto spontaneo, e sia dettato dall’interpretazione rigida – richiesta dai c.d. paesi frugali dell’UE – delle regole dell’Unione monetaria, che non lasciano alcuno spazio a meccanismi di solidarietà “senza corrispettivo” per i paesi in difficoltà, ai quali invece verrà richiesto l’obbligo di osservare durissimi vincoli di bilancio e di tagli alla spesa, che già negli ultimi venti anni, per fare un esempio tra i tanti, hanno determinato una impressionante
diminuzione della sicurezza sanitaria e dei posti letto nei reparti di ospedale, e un elevatissimo tasso di morte per “malasanità” che ha manifestato tutta la sua gravità in occasione della fase più cruenta della pandemia. Quest’ultima ha segnato un punto di non ritorno nella Società italiana: il desiderio di “essere cittadini europei” che in tantissimi nutrivano nel 2001 si è spento irrimediabilmente, e qualunque pretesa del Consiglio d’Europa che abbia effetti nefasti sulla nostra economia oggi viene istintivamente vista come una trappola da cui liberarsi, facendo così il gioco di chi, dall’Unione Europea, vorrebbe (legittimamente) uscire.
Non c’è verso, oggi, di convincere gli architetti dell’Unione monetaria che la Storia e i popoli richiedono a gran voce una evoluzione del sogno europeo, un nuovo trattato che segua la scia del percorso virtuoso nato all’indomani del 1945 e che unisca finalmente popoli oggi divisi da confini economici evidenti e da una incipiente “questione meridionale europea”. Coloro che si ostinano a lasciare in questo stadio evolutivo il sogno di una Europa Unita sono in mala fede, e su di loro ricadranno le responsabilità della sua fine.