Schmidt, Ethenea: Bce inadeguata, serve un nuovo “whatever it takes”

I rialzi dei tassi attesi da parte della Banca centrale europea fino all’1.25% potrebbero non bastare per difendere l’euro. Possibile un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine.
“È ora che la Bce metta fine alla politica monetaria degli ultimi dieci anni e inizi ad adottare misure coerenti e credibili per contenere l’inflazione. Come ha dimostrato di saper fare, invece, la Banca nazionale svizzera, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% per difendere il cambio del franco svizzero”, sostiene Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors. “Gli strumenti più importanti nell’arsenale di una banca centrale non sono gli acquisti di obbligazioni o i tassi d’interesse di riferimento, bensì l’integrità e la credibilità”, prosegue Schmidt. “La Bce ha perso buona parte di entrambe negli ultimi anni, ma è ancora in tempo per riconquistare la fiducia dei cittadini. Ciò richiede una consistente svolta di politica monetaria, un nuovo momento whatever it takes”.
Sono passati circa dieci anni da quando, il 26 luglio 2012, l’allora presidente della Banca centrale europea e attuale campo del Governo italiano, Mario Draghi, pronunciò quel famoso Whatever it takes, che avrebbe dato una svolta alla crisi dell’euro. In quel periodo, i paesi dell’Europa meridionale come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo erano afflitti da enormi problemi di rifinanziamento a causa di deficit delle partite correnti persistentemente elevati, dell’andamento del debito pubblico nel periodo precedente la crisi finanziaria e dell’eliminazione dei meccanismi di cambio dovuta all’Unione monetaria europea. Nel giro di pochissimo tempo, i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni schizzarono oltre il 6%. Solo il coraggioso intervento delle autorità politiche e della Banca centrale europea, con al centro l’annuncio del presidente della Bce, a
settembre 2012, di voler acquistare quantità illimitate di titoli governativi degli Stati dell’Ue, riuscì a frenare il massiccio aumento dei rendimenti dei titoli dei Paesi del Sud e a stabilizzare l’economia dell’area dell’euro. “Gli attuali dati sull’inflazione mostrano che ci troviamo di nuovo in un momento whatever it takes”, sottolinea Schmidt. “Con un aumento dei prezzi del 7,9% in Germania a giugno, gli economisti prevedono un’inflazione media del 6,8% nell’area euro per l’intero 2022 e un’inflazione in rallentamento ma ancora elevata nel 2023 a causa degli effetti di base”.
Naturalmente è difficile fare previsioni nell’attuale contesto economico. La crisi ucraina, le misure contro il Covid-19 e le strozzature lungo le catene di approvvigionamento rappresentano un mix difficilmente prevedibile di variabili in costante evoluzione e il desiderio di non spegnere subito la timida ripresa economica dell’area euro dopo la crisi sanitaria è più che comprensibile. Tuttavia, tassi d’interesse di riferimento pari al -0,5% non sono più graditi ad ampie fasce della popolazione, visto l’attuale andamento dell’inflazione, e, nel peggiore dei casi, determineranno una notevole perdita di fiducia e spaccature sociali.
La Banca nazionale svizzera (Bns) ha recentemente dimostrato che esistono alternative, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% e portandolo a -0,25%, in risposta a un tasso d’inflazione che a maggio aveva raggiunto il massimo da 14 anni ma che, al 2,9%, resta nettamente inferiore a quello dei vicini Paesi europei. Con questa mossa, l’istituto centrale svizzero anticipa la Banca centrale europea, che probabilmente annuncerà un primo rialzo dei tassi dello 0,25% nella prossima riunione di luglio. Se la Bns non avesse alzato i tassi, il franco svizzero si sarebbe probabilmente svalutato in misura significativa, alimentando ulteriormente le pressioni inflazionistiche con l’aumento dei prezzi delle importazioni.
Per sottolineare ulteriormente la posizione della Bns, il presidente dell’istituto, Thomas Jordan, ha indicato che in futuro continuerà a monitorare l’andamento dei mercati dei cambi e, se necessario, interverrà vendendo titoli di Stato dell’area euro, Bund in primis, al fine di rafforzare il franco svizzero. “La svolta di politica monetaria è arrivata”, è convinto Schmidt. La Federal Reserve statunitense ha recentemente innalzato dello 0,75% l’intervallo obiettivo per il tasso sui federal funds, ora compreso tra l’1,50% e l’1,75%, la Bank of England (BoE) ha aumentato per la quinta volta consecutiva il tasso d’interesse di riferimento dello 0,25% portandolo all’1,25% nonostante i crescenti timori di recessione e persino la banca centrale svizzera ha aumentato a sorpresa i tassi d’interesse dello 0,5% nonostante livelli d’inflazione a una sola cifra. Solo la Banca centrale europea sembra paralizzata e continua ad aderire alla sua politica di tassi d’interesse bassi. “L’istituto di Francoforte non potrà esimersi dall’intraprendere un nuovo corso. La banca centrale d’oltreoceano è troppo influente perché la Bce possa opporsi
alla sua politica monetaria, rischiare una svalutazione dell’euro e, nella peggiore delle ipotesi, alimentare ulteriormente l’inflazione”, conclude Schmidt. “Il mercato prevede quindi almeno cinque rialzi dei tassi, per un totale di ben l’1,25%. Riteniamo addirittura che ciò non sarà sufficiente e che nel corso del prossimo anno la Banca centrale europea dovrà portare il tasso di riferimento ben oltre la soglia dell’1,5%, in direzione del 2%, al fine di contrastare un ulteriore deprezzamento dell’euro. Vediamo pertanto il potenziale di un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine (calo dei prezzi delle obbligazioni) e abbiamo posizionato i nostri portafogli di conseguenza vendendo futures sui tassi d’interesse in euro”.