Armi, gas e petrolio, il trinomio perfetto che illude (e inganna) il mondo
La storia economica del mondo si evolve da sempre attraverso ere di produzione di materie prime fondamentali e fasi di conflitto internazionale che nascono dal loro sfruttamento e producono in ogni tempo effetti collaterali per l’economia mondiale.
Appena un anno fa, i banchieri centrali facevano a gara nel dichiarare quotidianamente che l’inflazione più alta del solito – a quel tempo si viaggiava attorno al 3,5% – era un fenomeno temporaneo, destinato a rientrare con l’attenuarsi delle restrizioni causate dalla pandemia. A distanza di pochi mesi, ci troviamo nel bel mezzo di una guerra di logoramento che, grazie all’attivismo militare – in casa d’altri – dell’amministrazione Biden, potrebbe durare anche degli anni. Inoltre, combattiamo con armi spuntate un tasso di inflazione triplo rispetto a quello dell’anno scorso. Infine, sia il mercato azionario che quello obbligazionario sono crollati miseramente sotto il peso di una politica monetaria mondiale che, nell’intento di combattere gli effetti economici potenzialmente disastrosi della pandemia, ha dovuto prolungare la fase espansiva in modo “innaturale”, al punto che al primo segnale di rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali quella che doveva essere una ordinaria correzione si è presto trasformata in un crollo verticale, con un “effetto reset” rapido e doloroso. In più, lo spettro di una recessione globale si fa sempre più visibile.
Papa Francesco, che sta finalmente cercando di dare una parvenza di legalità alla ricchissima finanza vaticana mettendola al riparo da rischi incontrollabili e accentrandone la gestione, ha definito la guerra come una “follia” e la corsa agli armamenti come una “piaga”, poiché destinando più risorse alle armi proprio in questo momento, si tolgono risorse finanziarie da altri ambiti sociali importanti, determinando un grave malcontento nella popolazione in relazione al costo degli alimenti e di altri beni di prima necessità.
Oggettivamente, il Papa non ha tutti i torti, e i profitti che in questo momento i produttori di armi (Italia compresa) stanno realizzando copiosamente rappresentano un grandissimo ostacolo al trionfo della diplomazia internazionale ed al cessate il fuoco.
Nel frattempo, le sanzioni che avrebbero dovuto convincere la Russia a ritirare le proprie truppe dall’Ucraina non stanno avendo l’effetto sperato, e l’economia russa sta resistendo molto meglio delle attese, mentre in Italia il governo che verrà dovrà fare i conti con i risultati di un sondaggio secondo il quale il 94% degli italiani si oppone all’invio di armi in Ucraina. Ci vuol poco a concludere che nell’attuale crisi finanziaria europea e italiana la responsabilità dell’amministrazione Biden sia elevata, e ad essa si è aggiunta quella di una Unione Europea che ha rivelato tutta l’inadeguatezza del modello pseudo-federativo di “moneta unica” di fronte alle grandi questioni internazionali ed al conseguente bisogno di una propria forza politica continentale, che non abbia ancora bisogno, come nel Secondo Dopoguerra, di ricorrere all’aiuto (o al ricatto economico e militare) delle potenze d’Oltreoceano.
Intendiamoci: quella che si sta combattendo è una guerra per il predominio sulle materie prime per eccellenza – gas e petrolio, ma non solo – e gli effetti li stiamo pagando noi attraverso un aumento a tratti inspiegabile delle bollette energetiche, cresciute in modo troppo elevato rispetto agli eventi che ne avrebbero determinato la crescita. Ed infatti, solo da qualche settimana si è scoperto che l’aumento esponenziale del prezzo del gas non è avvenuto a causa della interruzione dei gasdotti russi, ma per via delle speculazioni sull’indice Title Transfer Facility (TTF), ossia il mercato olandese dove vengono scambiati volumi fisici di gas per l’intero continente europeo.
Il prezzo che si forma al TTF è oggi l’indice a cui tutti i contratti di fornitura sono legati, ma risulta esposto ad alcuni fattori che ne determinano l’estrema inaffidabilità e la facilità con cui può essere manipolato dagli speculatori.
Innanzitutto, i volumi scambiati sono troppo sottili rispetto ai volumi di gas consumati in Europa tutti i giorni. Con quantitativi minimi, pertanto, per gli speculatori è possibile influenzare tutti i mercati d’Europa. Inoltre, sul mercato TTF non c’è un sistema di sospensione delle contrattazioni in presenza di alta volatilità, e il prezzo può oscillare anche del 50% in una stessa giornata. Infine, sul TTF l’offerta è limitata ai gasdotti di Norvegia, Russia e Nord Africa, mentre l’Europa, essendo un consumatore netto, può solo comprare. Ciò significa che il meccanismo della domanda e dell’offerta non funziona, perché non esiste offerta addizionale che possa far scendere i prezzi quando diventano troppo alti, e se si elimina il gas russo i prezzi possono salire all’infinito.
Relativamente al petrolio, il livello di dipendenza energetica dell’Europa dai paesi produttori non è seconda a quella del gas, ma mai come in questo caso il prezzo al barile così elevato ha messo d’accordo tutti gli stati che lo producono. Infatti, il costo di estrazione e raffinazione è diverso da un paese all’altro, e varia dai 9 dollari a barile dell’Arabia Saudita ai 23 dollari al barile del petrolio americano prodotto da Scisto (c.d. Shale Oil), per arrivare ai 44 dollari del petrolio inglese.
E’ evidente che, con un prezzo medio che ha superato per lunghi mesi i 100 dollari al barile (al momento oscilla tra 88 e 84 dollari), i produttori di petrolio non hanno un grande interesse a che il prezzo si abbassi, ed è proprio questa diversità di obiettivi a determinare oggi lo scollamento tra le azioni dei governanti americano e europei, intese ad armare l’Ucraina, e l’opinione prevalente dei cittadini americani ed europei che respingono fermamente l’idea del conflitto armato come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Per gli stessi motivi, sono tanti gli ostacoli che stanno impedendo di trovare un accordo all’introduzione di un price cap (tetto al prezzo) sul gas per contenere gli effetti della speculazione sulle bollette energetiche delle famiglie, poiché ogni paese produttore è guidato, esattamente come per il petrolio, dall’interesse a mantenere prezzi alti di fronte alla necessità di quei paesi che, essendone importatori netti, hanno la necessità di rimpiazzare il gas russo a qualunque prezzo. Infatti, dopo la chiusura del gasdotto russo Nord Stream 1 il primo fornitore dell’UE è diventata la Norvegia, che è un paese Nato ma non è membro dell’Unione Europea. Ebbene, il premier norvegese Jonas Gahr Store ha apertamente dichiarato a Ursula von der Leyen di non essere convinto che un tetto al prezzo del gas risolverebbe i problemi di approvvigionamento dell’Europa. Non vorremmo essere eccessivamente maliziosi, ma la perplessità del premier norvegese sembra parecchio influenzata dal fatto che nei primi sette mesi dell’anno l’export di gas norvegese sia aumentato del 303% rispetto allo stesso periodo del 2021. Idem per l’Olanda, paese che ospita la famigerata “borsa” del gas, il quale si è detto “incerto” sulla validità del tetto al prezzo. Anche in questo caso, si fa fatica a non attribuire la titubanza del paese (famoso per i coffee shop e per la sua “frugalità politica”) all’aumento dei prezzi del gas, visto che ha miracolosamente raddoppiato il proprio surplus commerciale grazie alle esportazioni di questa preziosa materia prima.
Oltreoceano, anche gli USA stanno guadagnando parecchio da questa situazione internazionale, poiché sono diventati i primi esportatori di GNL, e all’Unione europea è stato destinato il 45% delle esportazioni statunitensi. Emblematiche, in tal senso, le parole di Emma Marcegaglia, che ha detto: “la situazione è tale che gli imprenditori americani pagano oggi l’elettricità sette volte meno di quanto facciano gli italiani. E questo nonostante il fatto che i promotori delle sanzioni siano seduti dall’altra parte dell’oceano. Di fatto le sanzioni sono diventate uno strumento di concorrenza sleale per i produttori italiani”.
In definitiva, la storia economica del mondo si è sempre voluta attraverso cicli secolari di produzione di materie prime fondamentali e fasi di conflitto internazionale che nascono dal loro sfruttamento e producono in ogni tempo effetti collaterali per l’economia mondiale. Ciò che stiamo vivendo oggi è, appunto, uno degli effetti collaterali del trinomio perfetto – ma diabolico – petrolio/gas/armi, e i sacrifici a cui pare stiamo ineluttabilmente andando incontro altro non sono che il prezzo economico della guerra scaricato sui cittadini europei, che in questo modo ne diventano effettivi finanziatori. E per far pagare loro questo tributo, è sufficiente inviargli una semplice fattura nella cassetta della posta.
“Ci dobbiamo solo adattare”, dicono, “… meglio così che vedere le bombe vere piovere sulle nostre città …”, aggiungono. Gentilmente, lo dicano anche agli ucraini.