Sulle perdite delle banche centrali aleggia lo spettro della ricapitalizzazione?
Secondo un nuovo filone del terrorismo mediatico sul ruolo delle banche centrali, le perdite di queste ultime potrebbero portare alla necessità di una loro ricapitalizzazione pagata dai cittadini dei singoli stati. Cosa c’è di vero?
E’ notizia recente che la Banca nazionale svizzera (BNS) abbia riportato perdite particolarmente ingenti che, nel breve periodo, la costringeranno a non inviare più soldi ai Cantoni. Le ha fatto eco la Reserve Bank of Australia (RBA), le cui perdite registrate dagli approcci contabili mark-to-market* potrebbero spingere la RBA verso un patrimonio netto negativo.
Negli ultimi anni, la BCE e le banche centrali nazionali dell’Eurozona hanno generato utili molto elevati che, al netto degli accantonamenti previsti, sono stati girati agli stati membri. Solo nel 2019, ad esempio, la Banca d’Italia aveva registrato un utile di oltre 8,2 miliardi di euro, di cui 7,8 miliardi sono stati distribuiti allo Stato sotto varie forme. Tale distribuzione non è legata al risultato di gestione del singolo anno, ma alla volontà “politica” di distribuire utili, accantonati negli anni precedenti e messi a riserva, ogni qual volta esigenze di bilancio lo richiedano. Infatti, via via che i tassi d’interesse sui titoli di Stato sono diventati negativi, gli utili che la BCE e le altre banche centrali – detentrici di titoli in portafoglio – hanno conseguito si sono gradualmente assottigliati fino a registrare una perdita di esercizio, che in teoria imporrebbe prudenza contabile e la concreta possibilità di sospendere la distribuzione di utili allo stato.
In realtà, le enormi riserve accumulate dalle banche centrali servono proprio a questo, e cioè a fronteggiare le perdite di singoli esercizi, ma prima di questo esse potrebbero anche riportare eventuali perdite agli esercizi successivi, compensandole con gli utili futuri senza intaccare il capitale. Le banche centrali accantonano obbligatoriamente a riserva una parte degli utili per far fronte ad eventuali perdite future. La Banca D’Italia, per esempio, accantona ogni anno il 20% degli utili, che va a rimpinguare il Fondo Rischi Generali e si aggiunge agli ulteriori accantonamenti – conti di rivalutazione – effettuati per creare riserve specifiche in funzione delle attività che le banche svolgono e dei rischi che esse assumono o devono gestire, soprattutto nelle operazioni sui derivati che necessitano di un approccio contabile mark-to-market*. Nel 2019, l’insieme di capitale sociale, riserve, accantonamenti e conto di rivalutazione della Banca D’Italia ammontava a 159,5 miliardi, una somma in grado certamente di far fronte agli eventi negativi che, aggiungendosi alle politiche di tassi negativi, si sarebbero verificati dall’anno successivo ad oggi.
Il problema delle perdite delle banche centrali, infatti, è stato esaminato con maggiore attenzione per via del fatto che il Sistema Europeo delle Banche Centrali, in occasione della pandemia, ha comprato una enorme quantità di obbligazioni governative (e non solo) per via del Quantitative Easing e del PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), e solo di recente ha programmato una vendita graduale di quei titoli di stato che detiene in portafoglio in grande quantità. In particolare, le eventuali perdite della BCE da statuto sono da imputare ai fondi di riserva, che a fine 2020 ammontavano a oltre 90 miliardi di euro. Solo qualora questi fondi fossero insufficienti le perdite potrebbero essere imputate alle banche centrali nazionali in proporzione alla loro quota di partecipazione al capitale (per l’Italia è il 17%). Infine, la tanto temuta procedura di ricapitalizzazione, necessaria solo di fronte ad una serie di perdite annuali tali da attribuire al capitale della BCE un valore negativo, richiederebbe comunque la concertazione con il Consiglio Europeo, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo.
Ebbene, le politiche monetarie “non convenzionali” adottate fin dalla crisi finanziaria del 2008 hanno portato a zero i tassi d’interesse (anche sotto zero) e aumentato enormemente gli utili delle banche centrali grazie alla crescita dei corsi dei titoli di stato acquistati e detenuti in portafoglio. Ma con l’inflazione galoppante per via dello shock di offerta e la conseguente risalita dei tassi in cui siamo ancora dentro, i titoli in portafoglio si sono deprezzati determinando perdite importanti, come quelle stimate dalla Bank of England nei prossimi cinque anni, pari ad almeno 133 miliardi di sterline. In pratica, alcune banche centrali stanno pagando di più sulle loro passività verso gli istituti finanziari di quanto guadagnano sui loro titoli detenuti, aumentando il rischio di perdite. Questo può voler dire che, seguendo l’esempio della Svizzera, le stesse banche centrali potrebbero non versare più un centesimo nelle casse degli stati, e questo è un rischio che, nel breve periodo, non è destinato a produrre effetti diretti sulla finanza personale dei cittadini di quegli stati: solo nel caso in cui le perdite fossero di entità tale da far entrare il patrimonio della banca in area negativa per diversi anni, senza potervi far fronte con l’utilizzo delle riserve ed il rinvio agli esercizi futuri, si potrebbe prospettare una ricapitalizzazione ed un eventuale coinvolgimento dei singoli cittadini tramite un aumento delle imposte dirette o, nei casi peggiori, un prelievo forzoso sui conti correnti.
Pertanto, le “cassandre” non si sprechino in previsioni tragiche, e magari si concentrino un pò sui fondamentali.
* Calcolo giornaliero operato dalla clearing house dei profitti e delle perdite associate alle posizioni aperte su strumenti derivati. La posizione di chi detiene un derivato infatti, varia dopo la stipula del contratto in base al prezzo di mercato dell’attività sottostante. Nel caso di un compratore di un future su un’azione, se il prezzo di mercato di questa si abbassa rispetto al suo strike price, il soggetto registra una perdita teorica quantificata, appunto, dal mark to market. La perdita viene addebitata sul suo margine di garanzia e contemporaneamente accreditata dalla clearing house sul margine del venditore del contratto. Se l’attività sottostante si apprezzasse rispetto allo strike price, si verificherebbe il meccanismo inverso.