Il capitalismo nel contesto di guerra e il sogno tradito di un nuovo modello di società partecipata
Proprio nei periodi più difficili dell’umanità, le industrie delle armi e del petrolio mostrano quanto possano essere correlate e dare il meglio di sè solo ai suoi stakeolders, generando exploit di ricchezza nelle mani di pochi.
di Manlio Marucci*
Viviamo un’epoca in cui la mente umana sembra trovare inesauribile soddisfazione in un progresso economico e tecnologico che, seppur appagante per via dell’innegabile benessere che ha generato, è stato talmente enfatizzato da determinare un sensibile inaridimento dei valori culturali e spirituali prima connaturati all’esistenza dell’individuo ed ora ridotti a semplici automatismi di comportamento. Questi ultimi sono frutto della incontrollata – e quasi meccanica – adesione all’avanzare della visione materialistica del progresso, diventato esaltazione logica del possesso di “cose” e riduzione al trinomio esistenza-produzione-progresso.
Sulla base di tali presupposti sono stati commessi, talvolta, degli azzardi scientifici sfociati in rischi estintivi per l’intera umanità. Ne è testimonianza la proliferazione nucleare e la corsa agli armamenti, che sebbene arginate dalla paura di una sovrapposizione di forze tra diverse Nazioni non elimina tuttavia l’ipotesi di un pericolo nei cui confronti non si può restare indifferenti. Infatti, lo scenario di guerra settoriale a cui stiamo assistendo ormai da diversi mesi ha risvolti ancora non ben definiti, ma di certo ha già determinato una demarcazione netta sul piano degli equilibri internazionali tra oriente ed occidente. Vale la pena, pertanto, analizzare il contesto del conflitto cui tutti noi stiamo assistendo impotenti e trovare valide argomentazioni e metodologie di indagine in grado di comprendere le variabili aggregate dei vari sistemi economici – pur diversi sul piano istituzionale – per valutarne il funzionamento all’interno di uno scenario di guerra.
In tale direzione, le analisi condotte su più ampi fronti dalla politica, dell’economia e della finanza sono finora state incapaci di arginare l’escalation del fenomeno militare, il quale rappresenta una grave contraddizione all’interno dell’attuale sistema capitalistico avanzato (neocapitalismo o capitalismo monopolistico). Non v’è dubbio, infatti, che le guerre ed il loro naturale portato di distruzione creino opportunità per tutti i settori industriali coinvolti nel grande affare della c.d. ricostruzione, ma nello stesso tempo esse non diffondono benessere durevole tra le popolazioni dei paesi in cui il conflitto si è svolto, poiché concentrano la ricchezza nelle mani di pochi, senza realizzarne una redistribuzione ottimale. Infatti, l’economia mondiale è costantemente condizionata dal binomio produttivo “guerra e petrolio“, che consente una enorme crescita della ricchezza ad esclusivo vantaggio di una particolare classe industriale, quella dei produttori di armi e dei petrolieri, che non conosce fattori stagionali e/o congiunturali ed è anticiclica per definizione. Anzi, proprio nei periodi più difficili dell’umanità essa dà il meglio di sè ai suoi stakeolders, generando exploit di ricchezza. Prova ne sia che, in questo particolare scenario di guerra Russia-Ucraina-NATO, le maggiori compagnie petrolifere hanno comunicato di aver realizzato utili per 200 miliardi di dollari, un record storico. Parimenti, mentre l'”economia di pace” (quella dei beni di consumo “pacifici”) arranca verso una recessione, l’industria degli armamenti sta realizzando fatturati da capogiro, e presto conosceremo i dati sui loro utili.
Il problema di fondo è che nel contesto della società c.d. globalizzata è condizione necessaria e sufficiente trovare delle soluzioni non sul piano militare, ma sul piano del cambiamento nei rapporti umani e sociali, gli unici che possano a loro volta determinare un quadro di stabilità nei vari campi dell’economia, della finanza, della ricerca e dei vari assetti istituzionali che governano i paesi. Ciò significa affrontare responsabilmente la realtà che ci circonda sul piano storico e politico, non militare, ed analizzare con lucidità i processi di accumulazione del capitale e le varie ideologie economiche a cui si ispirano i vari governanti, al fine di realizzare un riordino generale ed un nuovo modello di società a cui tendere per il rispetto della vita umana e per una soddisfacente condizione di vita socialmente utile a tutti.
Se non si persegue questa linea di condotta, si rischia di riproporre a livello internazionale lo stesso modello “economico-militare” di tipo keynesiano che ha condotto l’umanità verso il Secondo Conflitto Mondiale, la Guerra Fredda e l’esportazione del sistema di risoluzione delle controversie attraverso il finanziamento esterno di guerre locali e regionali per l’accaparramento di materie prime da parte dei paesi egemoni. Prova ne sia che la corsa agli armamenti convenzionali e nucleari, anziché rallentare, è aumentata a dismisura, ed oggi potrebbe avere delle conseguenze sul piano della sopravvivenza della vita umana nel nostro pianeta: la spesa militare complessiva a fine 2022 ha raggiunto i 1.650 trilioni di dollari, una cifra che avrebbe permesso di ridistribuire ricchezza in molti paesi economicamente più fragili, e creare benessere all’intero pianeta, se solo la metà di questa spesa fosse stata rivolta alle energie rinnovabili.
Pertanto, serve gettare le basi per un nuovo ordine mondiale che sia in grado di garantire una vita quotidiana dignitosa per tutti, superando il “travestimento” di interessi puramente nazionali e uscendo dalla logica dell’interesse di parte. Le istituzioni mondiali in cui discutere questi temi esistono, ma sono ancorate a modalità di funzionamento ed equilibri politici che, se andavano bene settanta anni fa, oggi sono superati del tutto. Occorre tornare allo spirito della Società delle Nazioni, ossia della prima organizzazione intergovernativa che, all’indomani della fine del Primo Conflitto Mondiale, aveva come scopo quello di accrescere il benessere e la qualità della vita degli esseri umani, prevenendo le guerre sia attraverso l’esclusiva gestione diplomatica delle controversie sia per mezzo del controllo degli armamenti. Gruppi economici potenti e senza scrupoli, nel corso dell’ultimo secolo, hanno ostacolato in tutti i modi il cammino segnato verso un nuovo modello di Società Partecipata, tramandando di generazione in generazione un futuro di morte e distruzione.
Oggi sappiamo come è andata a finire.
*Presidente Federpromm