E’ tempo di aumentare il peso delle obbligazioni decennali in portafoglio. Ce lo dice l’America
Riuscirà l’indice S&P500 a performare in misura pari a cinque volte rispetto al Treasury decennale, come nel decennio appena trascorso (e quindi il 19,4% annuo)? Chi può, faccia adesso la propria mossa.
Fino a tutto il 2021, e cioè fino a quando i tassi di interesse sono stati vicini allo zero o addirittura negativi, la motivazione per aumentare l’asset azionario all’interno dei portafogli era scontata e rendeva il lavoro degli asset manager decisamente meno complicato; dopo un anno di rialzi dei tassi da parte delle banche centrali, tuttavia, si è tornati a rivalutare la componente obbligazionaria/monetaria, ma ciò ha nuovamente attribuito maggiore “complicazione” all’asset allocation.
In ogni caso, oggi soffia un vento favorevole per le obbligazioni, in particolare per una strategia buy-and-hold con i bond governativi. In USA, per esempio, il recente acquisto di Treasury e l’utilizzo di rendimenti correnti nettamente più elevati offre un’opportunità mai vista negli ultimi anni. Secondo alcuni analisti, infatti, ai corsi attuali sarà possibile ottenere due terzi dell’apprezzamento a lungo termine del mercato azionario sopportando il solo “rischio di credito” tipico delle obbligazioni, che non è minimamente paragonabile al più elevato “rischio di capitale” insito nelle azioni. Naturalmente, decidere come o se aumentare i pesi nelle obbligazioni richiede un’analisi accurata e ponderata, ma un rendimento del Treasury decennale al 3,88% (al 23 febbraio) è troppo attraente per non valutarne gli effetti benefici in un portafoglio con orizzonte temporale di pari durata (o almeno quinquennale).
Ma decidere quanto patrimonio detenere in titoli del Tesoro richiede di valutare qualcosa di più dei semplici rendimenti, dovendo, dovendosi prendere in considerazione l’orizzonte temporale, la tolleranza al rischio e altre variabili che sono valide anche per il settore obbligazionario. È poi importante formulare alcune ipotesi su come si svilupperanno i rendimenti azionari all’interno di un orizzonte temporale dettato dalla scadenza obbligazionaria media del portafoglio. Relativamente al mercato USA, per esempio, ci verrebbe in aiuto il confronto tra l’andamento decennale del mercato azionario statunitense (misurato attraverso l’indice S&P 500) e la detenzione di un Treasury a 10 anni. Quest’ultimo, acquistato un decennio fa, aveva un rendimento annuo appena inferiore al 2%, ed ha quindi performato il 2% fino ad oggi, mentre l’S&P500 ha guadagnato il 10,2% annuo nell’ultimo decennio.
Ebbene, oggi l’attuale rendimento del Treasury a 10 anni è pari al 3,88% (al 23 febbraio), e questo dato rappresenta la previsione affidabile del rendimento atteso per un Treasury Note a 10 anni per il prossimo decennio. Risulta evidente, quindi, che si tratti di un rendimento atteso pari al doppio di quello su cui gli investitori obbligazionari potevano contare dieci anni fa; questo dato, da solo, dovrebbe far capire quanto sia importante adesso valutare positivamente un aumento di peso dell’asset obbligazionario in qualunque portafoglio che, per scelta dell’investitore, non debba essere esclusivamente azionario.
E’ chiaro che dagli asset azionari ci si aspetta un premio al rischio, che si traduce in una maggiore performance delle azioni rispetto alle obbligazioni. Tuttavia, il punto è questo: riuscirà l’indice S&P500 a performare in misura pari a cinque volte rispetto al Treasury decennale, come nel decennio appena trascorso (e quindi 5 volte il 3,88%, ossia il 19,4% annuo)? Chi può dirlo, tutto è possibile, ma è oggettivamente più complicato pensare che ciò possa accadere, ed è più saggio attendersi nei prossimi dieci anni un rendimento dello S&P500 in linea con quello dei dieci anni trascorsi. Ciò rilancia prepotentemente il valore di quel 3,88% del Treasury decennale, e probabilmente ci suggerisce che la tendenza del rendimento del Treasury a riallinearsi verso il 2% – quest’ultimo fortemente voluto dalla FED – potrebbe riservare gradite over-performance proprio del comparto obbligazionario governativo, e ciò potrebbe accadere non appena l’inflazione si abbasserà ai livelli considerati sostenibili dalla banca centrale americana.
Medesimo ragionamento, sia pure con i dovuti distinguo, si può fare in relazione all’Europa, dove non sarebbe difficile effettuare un confronto tra indice azionario principale e andamento dei vari bond decennali, ma l’analisi sconta la presenza delle diverse emissioni di ciascun governo dell’Unione, per cui lo studio risulta necessariamente più complicato. Il risultato, però, è del tutto simile in termini di raffronto tra diversi mercati (azionario e obbligazionario) e relative conclusioni. L’unica differenza rispetto agli Stati Uniti è che le azioni europee appaiono a sconto del 18% rispetto alle omologhe USA, per cui gli asset manager del vecchio continente mostrano al momento di voler privilegiare gli asset azionari, ma questa tendenza durerà poco, fino al completo “assorbimento” del differenziale di prezzo delle azioni.
Una volta finito il rally, gli equilibri si ricomporranno. Chi può, faccia adesso la propria mossa.