Reti di consulenza finanziaria: ieri laboratori del talento, oggi vittime di burocrazia
Le reti investono ancora pochissime risorse sui giovanissimi neolaureati desiderosi di avvicinarsi al mondo della consulenza di investimento, limitandosi ai programmi di “sostituzione” dei consulenti over 60.
C’è stato un tempo in cui il termine promozione/consulenza finanziaria faceva rima con talento, e le reti di allora erano vere e proprie palestre dove i giovani più talentuosi venivano tirati su dai manager di prossimità (i supervisori) a suon di riunioni motivazionali, tecniche di relazione e affiancamenti sul campo. Quel mondo oggi non esiste più; ne esiste un altro che è frutto dei fisiologici cambiamenti avvenuti negli anni e che hanno avuto comunque il merito di affermare il ruolo del consulente finanziario nella società civile.
In una fase così avanzata del nostro sistema finanziario, pertanto, sarebbe stato più che normale progettare il futuro attraverso i piani di inserimento dei giovanissimi, soprattutto dei neolaureati, che avrebbero dovuto mantenere l’età media dei consulenti in una fascia più bassa rispetto a quella riscontrabile adesso. Dal 2005 ad oggi, infatti, le banche-reti non hanno più avviato seri piani di investimento di medio-lungo periodo per la formazione di giovanissimi consulenti che, oltre a potenziare l’organico esistente, possano garantire il passaggio generazionale ai consulenti anziani e prossimi alla pensione. L’attività di recruiting, di conseguenza, si è appiattita sostanzialmente su due tipologie di professionisti: il consulente già operativo in altra rete, con esperienza e portafoglio clienti, e il “bancario di belle speranze”, che altri non è che un dipendente di banca che svolge mansioni di private banker e, pertanto, ha un elevato potenziale di relazioni e di masse finanziare da trasferire.
Com’è noto, oggi le caratteristiche di un buon candidato nel settore della consulenza finanziaria devono convergere su alcuni punti fermi, tra i quali:
– una solida formazione e conoscenza del settore finanziario, nonché abilità e competenze tecniche specifiche, come la capacità di analisi finanziaria, la conoscenza dei prodotti finanziari, le tecniche di vendita e di gestione del portafoglio;
– comprovata esperienza nel settore finanziario e familiarità con i prodotti finanziari, le esigenze dei clienti e le migliori pratiche della consulenza finanziaria;
– spirito di adattamento, capacità di apprendimento rapido e attitudine al lavoro di squadra;
– orientamento al cliente, abilità di comunicazione e attitudine alla gestione delle relazioni.
– alto livello di integrità e di etica professionale;
– capacità di gestire il tempo e di lavorare sotto pressione.
Ad eccezione della esperienza e delle tecniche di gestione del portafoglio, quasi tutte le altre caratteristiche sono perfettamente riscontrabili anche nei candidati giovanissimi, su cui le banche-reti, al momento, non intendono investire se non attraverso programmi di “sostituzione” dei consulenti over 60 – inserisco un professionista giovane e gli affido a titolo oneroso il portafoglio di uno che sta andando in pensione – o con rarissimi piani di inserimento di giovanissimi dalla durata breve (massimo due anni e a costi ridotti) al fine di formare gruppi di giovani che, dopo un biennio, hanno la sufficiente esperienza sul campo per gestire la cessione di portafoglio da parte di un collega “older” e assicurare la buona riuscita del processo di “sostituzione” di cui sopra. Pertanto, di investimenti di lungo periodo su giovani neolaureati (mediamente 5 anni, se si parte da zero) non se ne vedono ancora, e questo è certamente frutto dell’assenza di quei bravi formatori/affiancatori, i celebri supervisori, che una volta popolavano le reti e decretavano la crescita di nuovi professionisti della consulenza ed il successo di tanti team locali. Infatti, il taglio pressoché sistematico di questo ruolo è stato deciso per accorciare la “piramide” della gerarchia e risparmiare sui costi della rete, determinando così il disinteresse delle banche verso i giovanissimi.
Per capire meglio il problema dei costi, analizziamo quali potrebbero essere le azioni più idonee – e più costose, senza dubbio – che il settore della consulenza finanziaria dovrebbe effettuare per attirare i giovani neolaureati più talentuosi.
1. Inserire i giovani neolaureati in un ambiente di lavoro dinamico e collaborativo, che permetta di esprimere la loro creatività e di imparare continuamente: costo indiretto medio-alto (linea di management capace di trasmettere tale spirito).
2. Investire nella formazione continua e nella crescita professionale: costo diretto medio-basso con direct learning online (meno efficace), medio con lezioni in presenza (molto efficaci).
3. Utilizzare tecnologie innovative: costo indiretto medio-alto.
4. Programmi di formazione interna, di mentorship e di apprendimento on-the-job: costo diretto medio-alto.
5. Stage e corsi di formazione in università e scuole di business: costo diretto medio-alto.
6. Investimenti in tecnologie di apprendimento, come le piattaforme di e-learning, i simulatori di mercato e i software di analisi finanziaria: costo indiretto medio-alto.
7. Programmi di sviluppo della leadership e di collaborazione con altre organizzazioni del settore, gruppi di studio, comunità online etc.: costo indiretto medio-basso.
Quanto costerebbe, pertanto, investire su un giovane e talentuoso neolaureato? A conti fatti, in un quinquennio non costerebbe meno di 75.000 euro a candidato, soprattutto per via dei minimi provvigionali da garantire a fondo perduto per l’intero periodo, parzialmente recuperabili grazie alla raccolta (modesta) dei primi due, salvo exploit inattesi che consentano il rientro totale dell’investimento nel primo biennio. Discorso a parte meritano i dipendenti di banca più giovani e promettenti, che decidendo di diventare consulenti finanziari portano con loro una dote di clienti e sono in grado di realizzare una copertura finanziaria dell’investimento nel breve periodo. Questa tipologia di candidati può essere motivata da alcuni vantaggi specifici, come la flessibilità degli orari di lavoro, le opportunità di crescita professionale e di sviluppo di competenze trasversali, la remunerazione potenzialmente più elevata, l’ambiente di lavoro collaborativo e dinamico, il confronto e lo scambio di idee tra colleghi ed altro ancora; tutti elementi di grande interesse, che compensano il sensibile appiattimento della professione verso le procedure burocratiche che, dopo le due MiFID, hanno costretto i consulenti a dedicare molte ore di lavoro settimanali a mansioni amministrative un tempo neanche immaginabili.
Pertanto, la spasmodica attenzione verso i candidati bancari e la contemporanea scarsità di programmi di inserimento dei giovanissimi rappresentano un chiaro effetto della peggiore burocrazia piombata sulle banche-reti e sui consulenti – entrambi vittime sacrificali sull’altare della “grandeur finanziaria” europea – dal 2008 ad oggi, in nome della c.d. Compliance. Gli obblighi di adeguamento alle nuove normative, costate alle banche nel loro insieme più di due miliardi di euro, sono stati capaci di “omologare” tendenzialmente la professione di consulente abilitato ai servizi fuori sede a quella di un normale dipendente di banca sommerso dagli adempimenti amministrativi. Quest’ultimo aspetto, a ben vedere, è quello più pericoloso per il futuro della professione di consulente finanziario, poiché la burocrazia tradizionalmente comprime la creatività ed il talento, imprigionandoli all’interno di procedure e “protocolli” che domani potrebbero far prevalere il nascente fenomeno della “Consulenza Difensiva” (come accade negli ospedali con la “Medicina difensiva”) sulle capacità di ascolto e attenzione all’investitore, nonché sulla abilità del consulente di saper adattare il portafoglio di investimenti alla storia individuale e familiare del cliente. (mb)