Famiglie, credito e risparmio: mai vista una congiuntura così difficile. Di chi è la colpa?
Poderosa stretta al credito, mercato immobiliare inaccessibile e propensione all’investimento in picchiata. E’ una congiuntura economica figlia di circostanze eccezionali e dell’improvvisazione di chi avrebbe dovuto gestirle diversamente.
Di Alessio Cardinale
Proveniente da una overdose di liquidità durata più di dieci anni, l’economia mondiale “tossica” è in gravissima crisi di astinenza monetaria, con una guerra geo-mondiale che sullo sfondo arricchisce l’industria delle armi e non accenna a finire, almeno finchè le giacenze di magazzino delle armerie USA e del vassallo Europeo non cominceranno ad alleggerirsi e i danni da ambo le parti saranno considerati non più sostenibili per le proprie economie.
La stretta al credito, che è già cominciata nel 2008 ed ha rivoluzionato un sistema che proveniva da decenni di decentramento decisionale e tassi medi di sofferenza anche del 7-8%, è aumentata senza sosta, anno dopo anno, esautorando dall’autonomia decisionale le filiali bancarie e micro-aree commerciali, e accentrando rigidamente le delibere. Oggi la stretta è diventata poderosa sia per le imprese che per i privati; per questi ultimi, la stretta sui mutui è sotto gli occhi di tutti: coloro che l’anno scorso avrebbero ottenuto un mutuo casa senza problemi, oggi devono superare mille accertamenti, tassi e spese più elevate, e spesso devono abbandonare l’iniziativa, ripiegando sull’affitto che, dal canto suo, mostra tutti i limiti di una cronica carenza di offerta. Infatti, le statistiche sul “rischio inquilino” – il rischio che l’inquilino non paghi o non possa pagare più il canone – e sugli sfratti sono impietose (il 50% degli inquilini con affitto lungo ha difficoltà a pagare), e questo ha convinto i migliaia di proprietari che non hanno deciso di tenere le case sfitte a preferire gli affitti brevi o, addirittura, a trasformare l’immobile in struttura ricettiva (B&B).
L’inasprimento del credito riguarda in misura minore il credito al consumo e i prestiti alle famiglie, dove la forbice dei tassi è molto più ampia, i ricavi molto elevati e le sofferenze meno frequenti. Il rialzo di 25 punti del tasso Bce, per quanto scontato, non ha aiutato, e la previsione di un ulteriore rialzo a Giugno non infonde serenità, anche perché il tasso di inflazione di Aprile è aumentato. Nel corso degli ultimi 15 mesi, la rata media di un mutuo a tasso variabile è aumentata del 52% rispetto all’inizio dello scorso anno, e di fronte la prospettiva di futuri rialzi in tanti stanno preferendo irrazionalmente il tasso fisso: chi si avvicina adesso a richiedere un mutuo, invece, dovrebbe valutare con attenzione il tasso variabile, destinato negli anni a venire ad una riduzione della rata mensile grazie alla discesa di inflazione prima e tassi poi.
In molte città italiane, chi vuole acquistare casa deve fare i conti con la costante diminuzione del potere d’acquisto che l’entrata nella moneta unica ci ha regalato. Il culmine di questo effetto è registrabile a Milano, dove dal 2015 al 2021 i prezzi di vendita e affitto sono saliti tra il 25 e il 30%, mentre i salari sono cresciuti solo del 7%. Ma anche nelle altre maggiori città l’effetto, sebbene inferiore, è simile, con l’eccezione di alcuni centri (Genova, Palermo) dove la svalutazione delle quotazioni immobiliari rende l’acquisto e la rata del mutuo più sostenibile (delibere bancarie permettendo).
Sul fronte dei risparmi, la pandemia e la guerra, in compagnia dell’aumento dei tassi di interesse, hanno reso i mercati azionario e obbligazionario più “schizofrenici”, aumentando l’incertezza e la voglia di lasciare il denaro in conto corrente. Eppure, l’inflazione erode le giacenze liquide dell’8,3% annuo in questa epoca di alta inflazione, e nonostante ciò i dati di Banca d’Italia di Febbraio registrano 1.384 miliardi di euro di liquidità “inerme” che, dopo anni di tassi negativi e un costo implicito dello 0,40%, viene remunerata mediamente all’1%, sebbene poi impiegata al 4%, con una forbice del +3% che dà nuovo ossigeno al conto economico delle banche. Queste ultime, peraltro, sono tornate a promuovere forme di “parcheggio” della liquidità più remunerative per i risparmiatori, grazie ai rendimenti dal 3 al 5% delle obbligazioni e dei fondi monetari/obbligazionari, oppure grazie ai classici depositi vincolati (a 3, 6 o più frequentemente a 12 mesi), che rendono per un anno il 3% lordo, ma chi spinge a bloccare la liquidità a tre anni ricava fino al 4%, e anche il 4,5% a cinque anni; se nel frattempo i tassi dovessero scendere, però, il loro prezzo non salirebbe come nei BTP, che non sono vincolati e scontano una ritenuta fiscale agevolata.
Queste redivive opportunità, anziché creare concorrenza interna agli strumenti di investimento di lungo periodo (azioni e fondi/ETF azionari), hanno determinato nel primo trimestre 2023 una raccolta di OICR negativa di 9 miliardi, ma il comparto azionario ha segnato flussi per 5,4 miliardi. Pertanto, ai fondi obbligazionari sono stati preferiti i Btp, che rendono il 4,2% con i decennali e pagano una imposta sul capital gain del 12,5% anziché del 26% di fondi comuni, azioni, bond e conti di deposito. Inoltre, la possibilità di acquistare oggi un BTP decennale a 85-86 rende l’investimento prospetticamente molto conveniente per via della possibile plusvalenza in conto capitale da realizzare realisticamente nell’arco di un triennio, allorquando gli effetti della minore inflazione e di un ribasso dei tassi di interesse avrà riportato la quotazione del BTP scadenza 2023 ad una quotazione di 100 e oltre, in costanza di cedola di interessi. Tutto questo, naturalmente, salvo improvvise “imboscate” delle agenzie di rating, diventate severissimi censori del debito pubblico mondiale – e di quello italiano in particolare – dopo essere state complici del crollo dell’economia mondiale nel 2008, e salvo che il quantitative tightening totale che inizia a luglio – meno 25 miliardi al mese di titoli pubblici detenuti dalla BCE – non mantenga i prezzi dei BTP, per un tempo maggiore di un triennio, alle attuali quotazioni sensibilmente sotto la pari.
In definitiva, si tratta di una congiuntura economica figlia di circostanze eccezionali che, in assenza di inflazione, sono diventate per lungo tempo “ordinarie”, e figlia anche dell’improvvisazione della BCE che, di fronte ai prezzi al consumo in ascesa, avrebbe dovuto gestirle in altro modo, anticipando di almeno sei mesi il ciclo di rialzi dei tassi di interesse senza seguire, da autentico principiante, l’iniziale ritardo della FED. Infatti, le caratteristiche dell’indice dei prezzi al consumo (compresi petrolio, energia e alimentari) statunitense sono sensibilmente diverse da quelle europee, che rispetto agli USA scontano una cronica carenza di fonti energetiche tradizionali (petrolio e gas) e, quindi, costringono la BCE ad essere maggiormente attendista. La banca centrale americana, invece, da sempre manovra con maggiore virulenza i tassi – che oggi sono al 5.25%, contro il 3.75% di quelli europei – e così facendo ha recuperato il ritardo causato da un iniziale tentennamento e sta raggiungendo i risultati programmati.
Queste due differenze, a tutti ben note, sarebbero state sufficienti al board BCE per agire con un migliore tempismo, ed evitare all’Europa – e all’Italia – di girare a vuoto come una ruota sul carrello sollevatore di una officina meccanica. Dal momento che la modestissima Lagarde resterà in carica per altri quattro anni, non c’è da stare tranquilli.