I millennials e il fenomeno delle “grandi dimissioni”. Valentina: basta illuderci, scappo in Canada
Lasciare il posto fisso per abbracciare un nuovo stile di vita lontano dall’Italia. Ecco perché le “great resignation” di molti under 40 dovrebbero far riflettere. Una testimonianza diretta.
Testo e intervista di Marco d’Avenia
“Non fraintendermi: io voglio lavorare. Voglio una vita faticosa, che sia però faticosa per me, per il raggiungimento di un mio obiettivo. I colleghi pensavano stessi fingendo e facevano mobbing, ma in realtà stavo male. Per questo mi trasferisco in un eco-villaggio in Canada, dove hanno reintrodotto il concetto di baratto”. La voce di Valentina, 30enne lombarda, trema quando ripensa a tutto ciò che ha affrontato e che ancora dovrà affrontare. Valentina aveva un posto stabile ed era in procinto di comprare la sua prima casa, poi qualcosa è scattato e in poche settimane la sua vita è cambiata: tra non molti giorni, lascerà l’Italia e un intero sistema di valori per trasferirsi in Canada.
Valentina, come tanti millennial e molti appartenenti alla Generazione Zeta, è pronta ad abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi ad altre attività, lontane – se possibile – da una logica capitalista di sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. È il fenomeno delle “Grandi dimissioni” (in inglese, “great resignation”): lasciare la propria vita di occidentale privilegiato per mettersi in gioco in altre realtà, non necessariamente ai confini del mondo. Economia circolare, autogestione di uno spazio, sinergia con il prossimo e con la natura e tanta buona volontà, questi sono i nuovi valori che i giovani però non incontrano sul posto di lavoro.
Secondo le tabelle dell’ultima nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, le dimissioni di under 40 in Italia sono aumentate del 26% dall’inizio della pandemia. Solo nei primi 9 mesi del 2022 si sono registrate in Italia 1,6 milioni di dimissioni: un aumento del 22% sullo stesso periodo del 2021. Sebbene una recente ricerca del Politecnico di Milano abbia evidenziato che una fetta consistente di coloro che hanno deciso di abbandonare il proprio posto di lavoro per percorrere altre strade non rifarebbe la stessa scelta, e soltanto l’11% dei dipendenti che hanno intrapreso questa scelta dica di esserne veramente felice, il fenomeno spaventa comunque i governi di quei Paesi che, come il nostro, non se la passano bene dal punto di vista demografico e vedono aumentare sempre di più la percentuale di “patrimonials” (i meglio conosciuti babyboomers) a discapito dei millennial. Ecco perché vale la pena conoscere la storia della nostra protagonista.
Valentina, partiamo dall’inizio: che succede nel bel mezzo del lockdown?
Durante il Covid inizio a cercare lavoro. Invio CV ovunque e alla fine mi prendono a Milano in un’azienda, inserendomi nel settore dell’assistenza ai clienti (parlo sei lingue, italiano compreso). Il lavoro in questa fase iniziale esclusivamente da remoto va bene. L’affitto senza contratto, però, mi preclude una serie di detrazioni fiscali e bonus. A lockdown allentato, inizio a frequentare anche in presenza il mio luogo di lavoro, ma a stipendio invariato. Una condizione per me inaccettabile. In più periodi dell’anno mi trovavo costretta a chiedere soldi ad amici e famigliari: una situazione spiacevole.
Quanto ha pesato il passaggio dallo smart-working al lavoro in presenza?
Molto. Io per un anno e mezzo non ho avuto contatti con i miei colleghi: non li conoscevo. Era l’inizio del 2022. E io avevo anche trovato il monolocale giusto per me, peccato che ci fossero costi d’agenzia insostenibili per me e caparre infinite da versare. Alla fine, affittare questo alloggio mi avrebbe comportato una spesa superiore ai 3 mila euro. Una somma che io non mi potevo permettere.
Poi però arriva il contratto a tempo indeterminato. Che succede a questo punto?
Succede che accetto la proposta, sempre a parità di stipendio, quando ho già maturato la consapevolezza di non poterne più, perché il clima lavorativo a Milano è diventato insostenibile, e la competizione estrema ha reso la città un luogo non più vivibile per me, dove non si riescono più a creare veri rapporti umani.
La tua scelta è stata il frutto di un processo graduale, oppure c’è stato un momento preciso in cui hai detto: “Ora mi trasferisco in Canada”?
Entrambe le cose. Quando nell’estate del 2022 mi sono resa conto che la situazione per me era insostenibile, ho comprato un’utilitaria per cercare un altro lavoro. Lo trovo, ma era uno stipendio di appena 200 euro in più rispetto a quello che già avevo. Una differenza che in un mese avrebbe a stento coperto il costo del carburante. A quel punto, ho cercato anche di sfruttare il mio contratto a tempo indeterminato per accendere un mutuo, ma si prospettava un pagamento dilazionato in 30 anni per un monolocale, che avrei finito di acquistare a sessant’anni. Da lì, ho capito di essere in un vicolo cieco.
… e invece, un episodio particolare lo ricordi?
La verità è che un momento in effetti c’è stato. Era l’Epifania, ero in treno e stavo tornando in ufficio; sempre nello stesso treno, che percorre sempre la stessa tratta. Vedo questo signore di 60-65 anni seduto al suo posto con una valigetta ventiquattrore, e di fronte a lui un ragazzo con la sua stessa valigetta. E in quel momento mi sono detta: “Ma davvero è questo il futuro, una vita con treno e valigetta al seguito? La mia vita non sarebbe stata mai questa.
Come hai scoperto della tua comune in Canada?
Un giorno, all’improvviso, mi sono ricordata di una piattaforma che consente di lavorare in giro per il mondo esclusivamente in cambio di vitto e alloggio. Già dal 2019 io avevo in mente il Canada come meta di un mio eventuale viaggio.
Perché proprio il Canada?
Per i cambiamenti climatici. Provo una profonda angoscia per quello che stiamo facendo al nostro pianeta e il Canada è un territorio ricco di acqua dolce, una risorsa vitale che nell’Italia settentrionale si sta facendo sempre più scarsa. È un Paese che educa a un ottimo rapporto tra animali e uomo: un posto perfetto per me. Andrò in British Columbia, nel Canada sud-occidentale. Mi hanno detto che lì la gente è molto accogliente e cordiale.
Quanto ha influito questa componente ambientalista nella tua scelta?
Moltissimo. Lavoravo per un’azienda che supporta la fast fashion e con essa valori e abitudini che non mi appartengono, come lo spreco indiscriminato di plastica monouso. Ho provato anche a segnalare questi problemi ai miei capi, ma sono stata ignorata. Ho una visione molto pessimistica per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Mi viene l’ansia. E ci sono tanti miei coetanei che la pensano come me. Avendo amici sparsi per il mondo e conoscendo molte lingue, posso approfondire la cronaca estera. L’Indonesia sarà costretta a spostare la sua capitale perché Giacarta sta sprofondando. Si stanno perdendo di vista le cose davvero importanti: il cibo, l’acqua, l’aria che respiriamo. I soldi non potranno mai far tornare indietro tutto questo.
Ora cosa succederà?
Partirò a giorni, e penso che questa nuova vita possa piacermi. Farò esperienza del concetto di economia circolare. Un sistema in cui non si possono evitare i conflitti: per far sì che funzioni, tutti devono rispettarsi. Perché senza benessere emotivo individuale non può esistere quello della collettività. Alla base di tutto deve esserci la sinergia tra le persone.
Adesso che sei con le valigie in mano, cosa vorresti dire ai tuoi ex datori di lavoro?
Il lavoro non può essere il fine ultimo della vita. Siamo cresciuti con una serie di bugie: se ti impegni, allora otterrai ciò che desideri; se ti piace quello che fai, non lavorerai neanche un giorno. Nulla di tutto ciò è vero, e l’ho sperimentato sulla mia pelle. La nostra generazione è stata presa in giro, è stata tradita. E ora vi dico: basta illuderci, non siamo dei robot. Non voglio sprecare la mia vita per arricchire qualcun altro, voglio solo coltivare me stessa, e crescere come una pianta rigogliosa.