Banche USA, pronta ad esplodere la bomba delle perdite sulle carte di credito
A distanza di quindici anni dalla grande crisi del 2007, la prassi delle banche di non contabilizzare le perdite per non interrompere il meccanismo di cartolarizzazione di crediti in deterioramento si sta ripetendo.
Di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy
Allarmanti i dati che riguardano il credito al consumo negli Stati Uniti, secondo quanto emerge dallo studio pubblicato da BankRegData, uno dei Think Tank leaders specializzati nell’analisi del sistema bancario USA. La pubblicazione, intitolata The Artificial Consumer, descrive che dalla primavera del 2020 alla fine del 2022 non sono state contabilizzate perdite sulle carte di credito e prestiti auto per oltre 260 mld di Dollari. Questo meccanismo di mancata comunicazione delle insolvenze ha permesso di mantenere artificialmente alto il rating dei consumatori insolventi, ha quindi inficiato il rating delle cartolarizzazioni di ABS e ha procurato un’anomala compressione delle insolvenze.
Viene subito da pensare alla pratica utilizzata nel 2007 sui MBS, dove le insolvenze sui mutui non venivano rilevate per non interrompere il meccanismo di cartolarizzazione di crediti in deterioramento. Tutti sappiamo come poi sono andate le cose. È paradossale che a distanza di 15 anni la prassi sia ancora ripetibile. L’importo di 260 mld di dollari si riferisce solo a prestiti tramite carte di credito e prestiti auto, che a fine 2022 ammontavano complessivamente a circa 3 trilioni di dollari, evidenziando quindi, già allora, un tasso di insolvenza dell’8% circa contro una percentuale ufficialmente dichiarata dell’1%. Se qualcuno continua a credere che la forza anomala dell’economia americana sia basata su fondamentali inossidabili è meglio che non si faccia troppe domande: gli Stati Uniti sono già entrati in una crisi finanziaria.
A questo punto, i contendenti alle elezioni di Novembre faranno a gara per promettere ulteriori politiche fiscali espansive per cercare di risollevare il sistema. Mentre nei prossimi mesi potremmo assistere ad un rialzo dei Treasuries per il cedimento dell’economia, per la caduta dei consumi, e per aspettative di ribasso dei tassi, c’è il rischio che tale recupero dei mercati obbligazionari possa finire in concomitanza con l’arrivo delle elezioni. Escludendo per il momento uno scenario di crisi finanziaria innescata dai problemi già evidenziati, è altamente probabile che, davanti alle difficoltà di crescita, qualsiasi amministrazione vincerà le elezioni cercherà di reflazionare l’economia. È quindi certo che gli Stati Uniti avvieranno una ulteriore espansione del debito pubblico che procurerà un rialzo delle aspettative d’inflazione e dei tassi già a partire dalla seconda metà del 2024, quando però la Fed avrà probabilmente già iniziato a ridurre i tassi.
Le implicazioni per gli asset finanziari saranno significative. La miscela esplosiva determinata da aspettative di politiche fiscali ulteriormente espansive, mentre la Fed procede a far scendere i tassi, avrà decise ripercussioni sui mercati obbligazionari. I bond riprenderanno a scendere come nel 2022 e la Fed si ritroverà di nuovo “dietro la curva“, dato che non abbiamo certo banchieri centrali che possono definirsi dei falchi ortodossi nella lotta all’inflazione. L’aumento dei tassi procurato dalle politiche fiscali reflazionistiche e la strategia di “rimanere dietro la curva“, per non contrastare politiche di rilancio della crescita, procureranno ulteriori danni al credito speculativo in una economia altamente a leva.
Le politiche reflattive inizieranno a incidere in modo significativo sulla tenuta del dollaro. Per difendere dall’inflazione attesa gli investitori sui bond e sul dollaro si dovrebbe avviare subito politiche monetarie restrittive, ma la situazione macro del momento non sarà nella condizione di reggerle, spingendo la Fed a rimanere “dietro la curva“. Bond e dollaro verranno venduti dagli investitori internazionali, mentre i tassi di insolvenza sul credito speculativo saliranno ulteriormente, procurando a quel punto una crisi finanziaria. L’economia americana ha sfruttato tutti i margini di manovra possibili per rimandare la crisi ma l’ipotesi di una collisione tra politica fiscale e politica monetaria è ora altamente probabile. Gli Stati Uniti non hanno mai fatto politiche fiscali di riduzione del debito, piuttosto hanno sempre scelto l’inflazione. Questo scenario potrebbe essere sovvertito dal fatto che la crisi finanziaria già iniziata, ed evidenziata dai bilanci bancari, scappi di mano prima delle elezioni.