Giugno 13, 2025
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Real Estate in Italia: spazio, qualità e sostenibilità nuove priorità di investitori e famiglie

Il Real Estate DATA HUB fotografa le nuove geografie dell’immobiliare in Italia: criteri ESG, Build To Rent, il ritorno delle province e l’ascesa dei mutui green.

Il mercato immobiliare italiano sta cambiando fisionomia. Modelli abitativi più flessibili, attenzione crescente alla sostenibilità e nuova centralità delle province ridisegnano la mappa del valore, mentre gli investimenti tornano a crescere. La domanda evolve e si ridistribuisce, premiando comfort e ottimizzazione degli spazi. Da qui il crescente appeal delle periferie, che guadagnano terreno rispetto ai capoluoghi, riflettendo maggiore attenzione per la qualità della vita.

Dopo la fase di assestamento del 2023, il 2024 ha segnato una inversione di tendenza, con un volume globale degli investimenti in aumento, che ha quasi toccato i 10 miliardi di euro, pari a un incremento di oltre il 50% rispetto all’anno precedente, con andamenti diversi per i singoli comparti. In particolare, le analisi evidenziano una nuova primavera del direzionale, trainata dal crescente interesse di investitori italiani e internazionali per immobili sostenibili e orientati ai criteri ESG. Forte incremento per il mercato retail che, grazie anche all’ingresso di nuovi operatori, si afferma asset strategico, con particolare vitalità nel Nord-Est, Nord-Ovest e Sud. Significativo anche l’aumento di investimenti per il settore dell’hospitality, focalizzati su resort e branded residence, trend emergente del 2025. Segnali di crescita per il residenziale e sostanziale stabilità per la logistica, che nel 2024 vive una fase di assestamento, con un incremento del 10% dei canoni di locazione per le nuove costruzioni, e una buona ripartenza nel 2025.

Questo il quadro che emerge dall’ultima edizione del Real Estate DATA HUB, il market report semestrale realizzato dal Centro Studi di REMAX Italia, dall’Ufficio Studi di YARD REAAS e dall’Ufficio Studi di 24MAX, che offre un’analisi del mercato immobiliare in Italia nel 2024 e anticipa le prospettive per il 2025. Questa edizione dedica particolare attenzione alle dinamiche di Milano, Roma, Bari e Torino, insieme alle rispettive regioni, analizzando le asset class del living, del lusso, della logistica e data center, direzionale, retail e hospitality.

Residenziale: il nuovo appeal delle periferie
Il 2024 ha visto il mercato residenziale riprendersi progressivamente: dopo un primo semestre in calo, nella seconda metà dell’anno si è registrata una crescita delle compravendite e un aumento medio dei prezzi superiore al 3%. La Lombardia si conferma la regione leader per numero di transazioni, che rappresentano il 35% della totalità. Nel Nord Italia, si segnalano performance in crescita per Liguria, Veneto e Piemonte; al Centro, il Lazio occupa la posizione di vertice, seguito da Emilia-Romagna e Toscana; al Sud, Puglia e Campania si distinguono per un volume di compravendite significativo, mentre tra le isole è la Sicilia a confermarsi come mercato più rilevante.

Milano resta la provincia con il più alto volume di transazioni, seguita da Roma e Torino. A livello nazionale, dall’analisi del DATA HUB si consolida l’attrattività delle aree metropolitane, a fronte però di una progressiva espansione della domanda verso zone periferiche ben collegate. “Non è più solo una questione di metri quadri, ma di servizi, contesto, benessere”, commenta Dario Castiglia (nella foto), CEO & Founder di REMAX Italia.Il mercato sta trovando nuova linfa grazie alla maggiore offerta in aree fino a pochi anni fa considerate secondarie”. Il trilocale è la tipologia più richiesta, in particolare nel Nord Italia (46% delle preferenze), mentre al Sud crescono quadrilocali e soluzioni con più di cinque locali, complice una maggiore accessibilità dei prezzi. “Guardando al 2025, le prospettive per il mercato immobiliare restano positive”, afferma Castiglia. “Le previsioni attuali indicano la possibilità di ulteriori ribassi dei tassi di interesse, un fattore che potrebbe stimolare ulteriormente la domanda, rafforzando la fase di crescita del settore”. 

Tendenze mutui: domina la prima casa, cresce il green e la richiesta dei giovani
Il mercato dei mutui beneficia di un contesto più favorevole, grazie ai tagli dei tassi BCE e a strumenti come il Fondo di Garanzia Prima Casa. Il 97,5% dei richiedenti lo fa per acquistare la prima casa, con un netto predominio del tasso fisso (97,8%). L’analisi per classi di età evidenzia che la fascia compresa tra i 35 e i 44 anni costituisce il 34% dei richiedenti mutuo, seguita dalla fascia dei giovani con età compresa tra i 25 e 34 anni, che rappresentano il 32,4% dei richiedenti. Segnali di un ritorno alla progettualità, soprattutto da parte di giovani famiglie e first-time buyer. Le richieste di mutui green, in crescita costante, superano oggi il 10% del totale, segno di una maggiore attenzione alla sostenibilità e all’efficienza energetica anche nelle scelte di finanziamento.

Retail, direzionale, logistica e ricettivo: nuove priorità per investitori e tenant
Il Real Estate DATA HUB fotografa anche l’andamento degli altri comparti del mercato, confermando l’interesse crescente verso asset resilienti e integrati. Il retail è protagonista indiscusso del 2024, con un volume di investimenti record e una crescita distribuita in modo diffuso sul territorio nazionale. L’ingresso di nuovi operatori e il dinamismo di alcuni segmenti specifici hanno contribuito alla vitalità del comparto, con prospettive positive per il resto del 2025. Nel direzionale si consolida l’interesse per spazi flessibili, ben localizzati e in grado di adattarsi a modelli di lavoro ibridi; in crescita l’attenzione per immobili di nuova generazione allineati ai criteri ESG. La logistica evidenzia nel 2024 una tenuta complessiva nonostante la lieve contrazione della sua quota sul totale investito, e un buon avvio nel 2025.

Il comparto ricettivo si mantiene stabile, sostenuto dall’interesse crescente per l’hospitality di lusso. “Stiamo assistendo al consolidamento di alcuni macro-trend, come la crescente rilevanza dei fattori ESG –evidenziata, ad esempio, dalla diffusione dei finanziamenti green e dall’orientamento delle scelte di investitori e tenant, non solo nel segmento direzionale. Parallelamente, si rafforza il ruolo dei servizi a supporto degli immobili e dei loro occupanti: è il caso del Build To Rent (BTR), asset class che si sta affermando anche nel mercato italiano”, spiega Laura Piantanida (nella foto), Head of Institutional Relations di Yard Reaas SpA.

Agenti e rappresentanti, firmato il nuovo Accordo economico collettivo del settore commercio

Federpromm in rappresentanza delle categorie professionali degli Agenti e Consulenti finanziari sottopone il nuovo testo dell’AEC alla base  per la sua approvazione.

Dopo oltre dieci anni di attesa, il 4 giugno 2025 è stato siglato il nuovo Accordo Economico Collettivo (AEC) per gli agenti e rappresentanti del settore commercio tra le organizzazioni di categoria Confcommercio, Confesercenti, Confcoperative e, dal lato agenti, le organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs, Ugl Terziario, Fnaarc, Usarci, Fiarc.
 
Questo accordo rappresenta un passo fondamentale verso una disciplina contrattuale moderna e al passo con l’evoluzione del mercato. Il nuovo AEC introduce importanti novità, tra cui:
  • Ampliamento delle tutele: una visione moderna della categoria, con l’inclusione del canale e-commerce e una maggiore chiarezza nei rapporti tra agente e mandante.
  • Benefici economici: l’ampliamento dei compensi che formano la base imponibile per le indennità, l’abbassamento della soglia per le mandanti di modifica delle provvigioni e della zona, e un significativo aumento della rivalutazione del FIRR spettante all’agente.
Per le figure professionali, quali gli Agenti in Attività finanziaria e consulenti finanziari (tutte figure regolamentate), molti intermediari del settore finanziario e creditizio fanno riferimento a tale AEC e alla disciplina del Codice Civile (ex artt.1742 e segg). Le organizzazioni sindacali firmatarie del rinnovo contrattuale hanno espresso grande soddisfazione per tale accordo sindacale ritenendolo equilibrato e innovativo, rispondente alle esigenze attuali degli agenti di commercio. Federpromm (affiliata alla Uiltucs), in rappresentanza della categorie professionali (AF e CF) ritiene che sia necessario – prima di esprimere il suo consenso – di sottoporre alla consultazione dei propri associati, i contenuti di tutto l’articolato del testo sottoscritto dalle OO.SS e associazioni datoriali.  Si può esprimere il proprio consenso scrivendo a: federpromm@uiltucs.eu

Morireste per questa Europa? Se l’UE vuole la pace, costruisca una civiltà

“Se vuoi la pace, prepara la guerra” è il mantra delle massime istituzioni europee. Il ritorno del mito del riarmo e la fragilità dell’Europa di oggi.

Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

Nel cuore delle istituzioni europee si sente risuonare, come all’inizio del ‘900, una vecchia idea: “Per essere ascoltati nel mondo, dobbiamo riarmarci“. Questo strano principio arriva anche da parte di politici dichiaratamente cattolici: “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra“, ha affermato Ursula von der Leyen presso la Royal Danish Military Academy, lo scorso 18 marzo 2025. Una dichiarazione del tutto simile a quella del 1909 di Sir Edward Grey, Ministro degli Esteri britannico, in occasione dell’intervento alla Camera dei Comuni di quel tempo (“Un’adeguata preparazione militare è la migliore garanzia di pace“). Due frasi, pronunciate a oltre un secolo di distanza, in due epoche diverse eppure identiche nella logica: la pace si ottiene mostrando la forza, il rispetto si conquista con le armi, e la diplomazia è efficace solo se accompagnata da un arsenale temibile.

È la riscrittura moderna del vecchio motto latino: “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, preparati alla guerra). Ma nel XXI secolo, cosa vuol dire “prepararsi alla guerra“? Significa costruire armi (soprattutto nucleari) di nuova generazione, aumentare il budget della difesa, sviluppare intelligenze artificiali belliche, impiegare droni autonomi, militarizzare il cyberspazio. Tutto ciò in un’Europa che, paradossalmente, non ha nemmeno più la forza lavoro per produrre quelle armi, né la volontà collettiva di difendersi realmente. Le aziende non trovano operai specializzati, tecnici, ingegneri, mancano le mani e le menti per costruire: figuriamoci se l’UE dovesse trovare i soldati per combattere. Siamo intrisi dalla cultura del disimpegno, dell’equilibrio vita-lavoro come valore assoluto e come sostituto dell’etica del dovere, della responsabilità civile, dell’identità condivisa.

La vera crisi non è militare, è identitaria. Il problema dell’Europa non è la mancanza di armi, bensì la mancanza di ethos, di una visione comune, di una identità collettiva per cui valga la pena vivere e, se necessario, morire. Senza un fondamento culturale e spirituale, ogni strategia militare è un artificio vuoto. Possiamo avere missili, ma non avremo motivazione, né coraggio, né coesione. Quale identità, quindi? L’Europa è nata da radici greche, romane e cristiane. È il cristianesimo che ha fornito per secoli la bussola morale, la coesione spirituale che ha dato dignità al lavoro, centralità alla persona, senso al sacrificio. Il fallimento storico del “para bellum” lo abbiamo già sperimentato nel decennio antecedente la Prima Guerra Mondiale, allorquando le potenze europee hanno creduto che prepararsi alla guerra avrebbe garantito la pace. Il risultato? 16 milioni di morti, un continente devastato, naturale terreno di coltura dei germi del fascismo e del bolscevismo.

Durante il XX secolo, la cd. Guerra Fredda, il riarmo nucleare garantì una “pace dell’incubo”. La Crisi di Cuba del 1962 portò il mondo a un passo dall’apocalisse. Solo la diplomazia segreta salvò l’umanità — non certo le testate nucleari. Oggi quella logica ritorna. Ma con tecnologie più sofisticate, soglie di attacco più basse e Stati più instabili. In questo contesto nessuno ci dice che nel 2024, la spesa militare europea ha superato quella russa del 58% quando calcolata a parità di potere d’acquisto e secondo la definizione NATO. Anche considerando solo i Paesi dell’UE e della NATO, il vantaggio rimane significativo (+56%), e persiste (+19%) limitandosi alla sola UE.  Tuttavia, l’efficacia di questa spesa è compromessa da una frammentazione strutturale (Fonte: Università Cattolica del Sacro Cuore – Osservatorio CPI, 22 febbraio 2025).

Cosa vuol dire “frammentazione strutturale“? Non c’è un comando unificato, le dottrine operative sono frammentate, gli armamenti non sono pienamente interoperabili e manca una volontà politica e popolare di impiego reale. Armarsi senza tecnologia e spirito di crescita è un’illusione. Lo confermano i due recenti brevi conflitti:
1) nella “guerra” per il Kashmir, il Pakistan ha abbattuto diversi caccia indiani di quarta generazione (inclusi i Rafale francesi) grazie ai J-10C cinesi, che costano un sesto dei Rafale francesi (nb: la Cina sta rilasciando sul mercato caccia di sesta generazione). Una tecnologia emergente e costi molto contenuti che batte quella occidentale, pertanto. I mercati hanno premiato Pechino, mentre Parigi si è chiusa in un imbarazzante silenzio.
2) Non hanno fatto meglio gli USA contro gli Houthi: aerei caduti, difese navali eluse, miliziani resilienti: una superpotenza in difficoltà contro guerriglieri determinati.

L’Europa oggi si trova quindi di fronte a un bivio storico: spendere ulteriori miliardi in armi, in una nuova illusione di “peso geopolitico” che maschera la fragilità interna, oppure investire in cultura, educazione, ethos, spiritualità. La vera difesa di un popolo non è l’acciaio dei cannoni, ma la fibra morale, associata ad una scuola che insegna storia, bellezza, filosofia, ad una società che non ha vergogna delle proprie radici cristiane e ad una politica che forma cittadini, non solo consumatori. Pertanto, il motto da rilanciare oggi non è “Si vis pacem, para bellum“, bensì “Si vis pacem, para civitatem“, ossia “Se vuoi la pace, costruisci una civiltà“, una comunità vera. Lo stesso Papa Francesco aveva affermato che la pace si costruisce “con il lavoro, la giustizia, l’educazione e la cultura del dialogo”. Lo ha detto chiaramente già durante la Giornata Mondiale della Pace nel gennaio 2014: “La pace non è un bene che viene da fuori, è un bene che nasce dal cuore dell’uomo. Si costruisce giorno per giorno, nel lavoro, nella giustizia, nell’educazione e nella cultura del dialogo“.

Di conseguenza, l’Europa non ha bisogno di incrementare la potenza militare, ha bisogno solo di ritrovare se stessa. In tal modo potrà tornare a parlare al mondo non con le armi, ma con la forza silenziosa di una civiltà viva. La forza di un popolo non è nei carri armati, ma nella sua capacità di rispondere alla domanda: “Chi siamo?”. Questo comporta dirottare gli investimenti non negli arsenali – che arricchiscono una industria, quella delle armi, che per essere alimentata ha bisogno di periodici conflitti – ma in educazione e cultura. Non in deterrenza, ma in coesione sociale. Non in propaganda, ma in una rinnovata identità europea fondata su ethos, comunità e radici cristiane. Questa è l’unica vera strategia per contare nel mondo, ed essere nuovamente una civiltà guida per i popoli. Primo fra tutti, quello europeo.

Mercati asiatici asset class più interessante tra le azioni globali

Azioni cinesi quotate negli Stati Uniti a rischio delisting a causa della retorica anti-cinese. Interesse per l’azionario Indonesia e per il Giappone, e aumento del peso della Cina nel segmento domestico.

di Marcel Zimmermann, gestore del fondo Lemanik Asian Opportunity di Lemanik

Le prospettive del mercato restano difficili da prevedere a causa della natura erratica dello scenario tariffario statunitense. Riteniamo comunque che i mercati asiatici siano l’asset class più interessante tra le azioni globali e che continueranno a essere sostenuti dall’espansione regionale.

Il 2 aprile, in occasione della “Festa della Liberazione”, il Presidente statunitense Donald Trump ha presentato la sua strategia tariffaria reciproca. Le tariffe annunciate sono state molto più alte delle aspettative del mercato. I mercati globali hanno reagito immediatamente allo shock con un crollo di tutti gli asset statunitensi, comprese le obbligazioni, le azioni e il dollaro Usa. L’oro è salito perché gli investitori si sono spostati su beni rifugio. Le turbolenze del mercato hanno costretto Trump a sospendere l’applicazione dei dazi per 90 giorni. La Cina ha reagito all’aumento dei dazi con contromisure sulle importazioni statunitensi del 125% e ha dichiarato che consulterà l’OMC in merito alla controversia. I mercati globali hanno reagito alla sospensione con un forte contro-rally in tutte le classi di attività, chiudendo parzialmente il sell-off iniziale. I mercati azionari asiatici più colpiti sono stati Taiwan, la Cina e in parte l’Asean. Gli indici coreani e giapponesi hanno resistito meglio.

I dati economici pubblicati nel mese di aprile sono rimasti relativamente stabili, in quanto il front-loading degli ordini di esportazione dall’Asia agli Stati Uniti ha spinto l’attività manifatturiera in Asia. Tuttavia, gli economisti si aspettano che i dazi abbiano un effetto deflazionistico su Asia ed Europa, poiché parte della produzione sarà dirottata fuori dagli Stati Uniti. L’economia americana dovrebbe invece subire una spinta all’inflazione importata, poiché i dazi si aggiungeranno ai prezzi delle importazioni. Di conseguenza, nel corso del mese abbiamo chiuso la nostra esposizione alle azioni cinesi quotate negli Stati Uniti. Esiste il rischio potenziale che gli Stati Uniti delistino le società cinesi che operano negli Usa nell’ambito della loro retorica anti-cinese. Durante il sell-off abbiamo aggiunto posizioni in Indonesia e Giappone e aumentato il peso della Cina nel segmento domestico, come Bio-Tech, Banking e Real Estate.

Azioni, Europa meglio di Stati Uniti. Quanto peserà sui mercati il downgrade di Moody’s sui treasuries?

L’Europa continuerà a performare meglio degli Stati Uniti, mentre il picco di incertezza legato ai dazi sembra essere già passato. I Treasuries e i mercati alla prova del downgrade di Moody’s. 

“Prevediamo che l’Europa continuerà a sovraperformare gli Stati Uniti, sostenuta dall’ampio piano di investimenti annunciato in Germania e dalle valutazioni compresse dei titoli azionari, particolarmente interessanti nello spazio italiano delle mid-small cap, anche grazie al lancio di nuove iniziative istituzionali. Tuttavia, per un rialzo più sostenuto dei mercati globali, sarà necessaria una maggiore chiarezza sulla questione dei dazi e un ritorno a condizioni monetarie più accomodanti da parte della Fed”. È la view di Andrea Scauri, gestore del fondo azionario Lemanik High Growth.

I mercati azionari globali hanno chiuso il mese di aprile sostanzialmente piatti, in un contesto di elevata volatilità. Il 2 aprile ha visto l’introduzione di dazi più severi del previsto: l’aliquota media dei dazi negli Stati Uniti è salita al 30%, equivalente a un aumento delle tasse (ex ante) di quasi 1 trilione di dollari, pari a circa il 3% del Pil – un evento senza precedenti nell’era del dopoguerra. Questa dinamica ha innalzato la probabilità di recessione degli Stati Uniti al 50% dal 10% previsto all’inizio dell’anno, con l’ulteriore rischio di stagflazione. Successivamente, alcuni segnali di distensione commerciale – con l’annuncio di una pausa di 90 giorni sulle tariffe reciproche – hanno favorito un tentativo di stabilizzazione dei mercati, che procede in parallelo con la stagione dei bilanci, destinata a essere un test cruciale per il sentiment degli investitori.

I negoziati sono iniziati, ma richiederanno tempo. Gli Stati Uniti non hanno fretta di ridurre drasticamente le tariffe e il “tasso base” del 10% rappresenta una soglia minima globale al di fuori dell’USMCA. I negoziati potrebbero portare a un allentamento delle tariffe reciproche quando torneranno in vigore a luglio, ma nel frattempo le reazioni dei vari paesi non si sono fatte attendere. In particolare, la Cina (450 miliardi di dollari di esportazioni verso gli Usa) ha reagito in modo aggressivo contro i dazi, il Giappone (150 miliardi di dollari) e la Corea del Sud (130 miliardi di dollari) si sono affrettati ad avviare i negoziati, mentre l’UE (606 miliardi di dollari) ha cercato il dialogo.

Sebbene lo shock da incertezza sia significativo e probabilmente si riverserà gradualmente sull’economia reale, al momento ci sono ancora pochi segnali concreti che le tariffe stiano colpendo duramente l’attività economica. Gli indicatori “hard” sono rimasti relativamente solidi, mentre i “soft data” (indagini e sondaggi) mostrano crescenti segnali di indebolimento, soprattutto nel mercato del lavoro. Il FMI ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita globale (a +2,8% dal +3,3% previsto a gennaio), evidenziando come i dazi rappresentino uno shock negativo sia per l’offerta che per la domanda. Per gli Stati Uniti, la stima del Pil è stata tagliata di 90 punti percentuali a +1,8% con previsioni di inflazione in aumento di quasi un punto percentuale a +3%, mentre per la Cina la stima del Pil 2025 è ora vista al 4% (dal 4,6%).

Negli Stati Uniti, dopo un -19% dai massimi, accompagnato da livelli di volatilità (VIX) simili a quelli della crisi del Covid e della crisi finanziaria del 2008, i principali indici hanno recuperato circa il 10% nelle ultime settimane. Secondo Andrea Scauri, “in tempi in cui è difficile aggiungere rischio, è spesso dove il rischio deve essere aggiunto. In Europa, la narrativa fiscale tedesca diventa ancora più importante rispetto a prima del sell-off, anche in una prospettiva azionaria globale. I titoli preferiti dell’anno in corso, meno esposti ai dazi, come i titoli della difesa o quelli legati alla Germania, offrono ora un punto di ingresso molto più interessante rispetto alle settimane precedenti. Infine, sottolineiamo la nostra non esposizione al settore petrolifero. La recente intenzione dell’OPEC+ di aumentare ulteriormente la produzione ha messo a rischio la remunerazione delle compagnie petrolifere integrate e gli investimenti delle società di servizi petroliferi“.

Su questi scenari, però, potrebbe pesare nel breve periodo il downgrade di Moody’s sui titoli del Tesoro USA. La società di rating Moody’s, infatti, ha abbassato il rating degli Stati Uniti da “AAA” ad “Aa1” per via della preoccupazione per la capacità del governo di ripagare il proprio debito. Il tempismo della decisione, a pochi mesi dall’insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, è quanto meno sospetto, poichè Moody’s aveva già avvertito nel 2023 che il rating tripla A degli Stati Uniti era a rischio, ma non aveva deciso di effettuare il taglio. Adesso, Moody’s ha accompagnato la decisione osservando che “le amministrazioni statunitensi non sono riuscite a invertire la tendenza al rialzo dei deficit e dei costi degli interessi”, in ciò facendo aperto riferimento anche alla precedente amministrazione Biden, generosamente “graziata” dall’agenzia che aveva mantenuto un rating creditizio perfetto per gli Stati Uniti fin dal 1917. Il declassamento, peraltro, è avvenuto lo stesso giorno in cui la legge di bilancio proposta da Trump ha subito una battuta d’arresto al Congresso, con il voto contrario di alcuni repubblicani.

Tutto questo è un problema? Lo vedremo alla riapertura dei mercati e durante tutta la settimana, per i quali le agenzie di rating hanno un impatto di solito contenuto. Infatti, se qualche fondo è impegnato negli investimenti di bond solo dei tripla A, molti altri diversificano su quelli appena sopra il livello junk, ovvero spazzatura: E gli Stati Uniti sono parecchio sopra quel livello. Inoltre, il debito pubblico degli Stati Uniti è tutt’altro che inaffidabile, e rimane molto in alto nella speciale classifica dei debiti pubblici, avendo per classificazione Moody’s “Credity quality eccellente, con un rischio soltanto marginalmente maggiore rispetto al rating Aaa”. Ancora, i mercati hanno ampiamente scontato un peggioramento della qualità del debito USA, dato che le altre due grandi agenzie di rating avevano cominciato a declassare gli USA già nel 2013.

Pertanto, qualunque reazione speculativa sarà piuttosto contenuta, e certamente non potrà mandare su più di tanto i rendimenti delle obbligazioni USA che si trovano già a livelli piuttosto alti. La fase più critica rispetto ai dazi, inoltre, pare essere superata. Sul tema, Filippo Garbarino (gestore del fondo Lemanik Global Equity Opportunities) sostiene che “generalmente, i dazi aumentano l’inflazione e riducono la crescita economica reale; anche se l’economia Usa è in fase di rallentamento, non ci aspettiamo una recessione tecnica nel breve termine”. I recenti utili aziendali Usa relativi al primo trimestre e le stime dei risultati economici del 2025 sono stati incoraggianti. I dati comunicati da Visa e Mastercard mostrano una notevole resilienza della spesa dei consumatori da inizio anno a oggi e la recente correzione del prezzo del petrolio è positiva per le vendite al dettaglio. Inoltre, gli investimenti previsti per il 2025 non sono stati materialmente rivisti al ribasso dalle aziende Usa, segnale di grande fiducia nella performance del loro business e dell’economia.

Tuttavia, permangono due punti deboli. Il settore manifatturiero, con l’indice ISM che indica ancora una fase di contrazione. Il mercato immobiliare, che rimane stagnante a causa degli elevati tassi sui mutui. “Riteniamo che il minimo dell’S&P 500 in area 4800-4850, raggiunto a inizio aprile, non venga violato”, continua Garbarino. “Ci aspettiamo infatti che il picco di incertezza legato ai dazi sia già passato, dato che il flusso di notizie relativo dovrebbe migliorare nelle prossime settimane. A breve saranno siglati accordi commerciali con alcuni dei partner commerciali principali come Giappone, India e Sud Corea, riducendo significativamente il livello medio dei dazi. Altri indicatori che ci fanno ritenere che il minimo di mercato possa resistere sono il VIX (indice della volatilità), che ha toccato 60 in aprile, così come gli indici di fiducia dei consumatori/investitori che segnalavano un forte pessimismo e che dovrebbero migliorare nei prossimi mesi, supportando i mercati azionari”.

Mercati contrastati sui dazi di Trump, ma cresce l’ottimismo. L’azionario cinese è una opportunità

La Fed tiene i tassi invariati ma i colloqui positivi tra Cina e Stati Uniti abbassano i timori di inflazione. Azionario cinese molto promettente (dazi premettendo).

La Federal Reserve, in occasione dell’ultima riunione, ha mantenuto i tassi d’interesse fermi al 4,25%-4,50% e ha avvertito che i crescenti rischi legati a inflazione e disoccupazione, alimentati dalle imprevedibili politiche sui dazi del presidente Trump, stanno offuscando le prospettive economiche degli Stati Uniti. Il presidente Jerome Powell ha riconosciuto la profonda incertezza, dichiarando che la Fed si trova, di fatto, in una fase di stallo, in attesa di chiarire l’impatto delle tensioni commerciali.

Venerdì scorso il presidente Trump aveva scosso i mercati, ipotizzando un dazio dell’80% sulle merci cinesi, a pochi giorni dai cruciali colloqui commerciali in Svizzera del fine settimana appena concluso. In particolare, indicando che un dazio dell’80% sulle merci cinesi “sembra adeguato”, aveva lasciato intravedere una possibile apertura dopo aver precedentemente portato i dazi al 145%, sebbene la proposta restasse elevata e potrebbe continuare a pesare sui rapporti commerciali. L’incontro di Ginevra tra Stati Uniti e Cina pare essere cominciato con il piede giusto, poichè Donald Trump ha annunciato un “reset totale” nelle relazioni commerciali tra i due paesi. In un post pubblicato sulla piattaforma Truth, Trump ha elogiato l’andamento dei negoziati, definendoli “ottimi” e dichiarando che si è trattato di un “totale reset negoziato in modo amichevole, ma costruttivo”.

C’è da dire che di fronte alla imprevedibilità di Trump sulle politiche commerciali imprevedibili di Donald Trump e ad una possibile recessione degli Stati uniti, sempre più investitori internazionali hanno iniziato a guardare maggiormente all’Asia e, in particolare, alla Cina, che si sta consolidando sempre di più come pilastro di stabilità. Eppure, appena un anno fa proprio la Cina sembrava un’economia nella quale investire era considerato incauto, con un mercato azionario zavorrato dalla gravissima crisi del settore immobiliare. Oggi, invece, molte banche internazionali danno un rating buy sull’azionario cinese, innalzando le aspettative sui rendimenti per la fine dell’anno tra il 10% e il 15%. 

I motivi di una simile variazione di scenario sono diversi. Innanzitutto, la Cina gode di una ritrovata credibilità generata dai piani di stimolo economico, monetario e fiscale strumentali al supporto delle banche, del settore immobiliare e dei consumi interni. Il presidente Xi Jinping ha anche annunciato la sua intenzione di voler sostenere il settore privato, facendo sì che le prospettive di crescita del Pil si mantengano robuste (+5,5%) e al di sopra dei target governativi. Inoltre, la Cina è riuscita ad affermarsi prepotentemente come un player di primo piano del settore Tech, soprattutto in segmenti chiave quali l’intelligenza artificiale, le auto elettriche, la robotica, i droni e i pannelli solari, con le aziende locali riconosciute come possibili competitor delle grandi aziende americane degli stessi comparti. Infine, l’azionario cinese appare piuttosto sottostimato, con il P/E ratio dell’indice MSCI China a 12,5 e con una crescita degli utili tra il 7% e l’8%.

Su questo scenario, naturalmente, pesa la questione dei dazi imposti da Trump, ma anche in caso di insuccesso dei colloqui di Ginevra è molto probabile che Pechino aumenterà gli stimoli fiscali a supporto della crescita e le cooperazioni con altre aree del mondo per assicurarsi sbocchi commerciali alternativi e privi di dazi.

Le borse europee venerdì hanno mostrato un deciso entusiasmo per l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito, in particolare per la promessa britannica di ridurre le barriere non tariffarie, ovvero quegli ostacoli normativi che da anni limitano la concorrenza straniera. In cambio di un dazio del 10% sui beni britannici, il governo del Regno Unito si è impegnato a semplificare le procedure doganali e ad allentare le restrizioni su importazioni agricole, industriali ed energetiche. Pur offrendo un vantaggio agli esportatori statunitensi, secondo molti economisti il vero vincitore sarebbe il Regno Unito: minori ostacoli al commercio potrebbero stimolare crescita, investimenti e dinamismo imprenditoriale in un’economia in difficoltà.

Nell’Unione Europea, l’economia tedesca continua ad essere fonte di preoccupazione per via dello stallo in cui è caduta negli ultimi 12 mesi. Il nuovo ministro dell’Economia, Katherina Reiche, ha invocato un cambio di passo deciso verso investimenti infrastrutturali rapidi e una maggiore propensione al rischio, per rilanciare l’economia. Intervenendo al vertice di Tegernsee, Reiche ha presentato una strategia incentrata su investimenti pubblico-privati nei settori dell’energia, dei trasporti e delle reti digitali, sottolineando che il 90% dei fondi dovrà provenire da capitali privati.

 

 

Divide et Impera atto II: la portata strategica della visita di JD Vance in Italia e India

La visita di Vance dell’aprile scorso in Italia e India non è stata un semplice viaggio diplomatico, ma una mossa studiata per riallineare gli equilibri globali.

di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

In tema di dinamiche geopoliche globali, occorre analizzare in profondità lo “strano viaggio” di Vance dell’aprile scorso, in Italia e India.  Tale visita, infatti, incarna la dottrina imperiale anglosassone del “divide et impera“, ed è quindi finalizzata a dividere blocchi rivali e rafforzare l’influenza americana in Europa e in Asia. Un pò come il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo, rispettivamente tra Vance e Trump. Vediamo perchè questa trasferta, passata sottotraccia, è di estremo interesse.
 
Ufficialmente, l’agenda pubblica parlava di “rafforzamento dei legami tra le democrazie più grandi del mondo”, ma alcuni osservatori hanno presto letto nella missione un segnale più profondo, e cioè il tentativo da parte dell’amministrazione Trump di ripristinare una leadership americana efficace attraverso la divisione selettiva di blocchi rivali. Non a caso l’Italia, anello debole dell’UE, e l’India, potenza ambivalente ancora in bilico tra BRICS e Occidente, sono state le uniche due tappe scelte.
 
Italia tra Atlantismo e ambiguità strategica
Storicamente, l’Italia è stata terreno di confronto tra potenze esterne. È ormai assodato che, durante la Guerra Fredda, la CIA finanziò la Democrazia Cristiana contro il PCI per non fare entrare quest’ultimo nel governo già dalle elezioni del 1948; mentre, negli anni successivi, operazioni clandestine come Gladio cercavano di scongiurare l’ascesa della sinistra. Episodi chiave come l’assassinio di Aldo Moro (1978) è iscrivibile nella stessa finalità volta a scongiurare il compromesso storico, mentre lo scontro di Sigonella (1985) con gli Stati Uniti mostrano quanto il controllo dell’Italia fosse ritenuto cruciale. La caduta di Craxi e l’implosione della Prima Repubblica, Mani Pulite etc , sono letti da alcuni come esiti di una riconfigurazione post-Guerra Fredda, e dimostrano ancora una volta che in Italia non si governa senza il placet degli USA.
 
Con Giorgia Meloni, leader sovranista e pragmatica, l’Italia ha assunto un doppio ruolo: partner atlantico  ma interlocutore apparentemente allineato rispetto alle posizioni ufficiali dell’UE. La visita di Vance a Roma ha rafforzato la percezione di questa ambiguità. Nonostante Meloni rappresentasse l’Europa nei colloqui con Trump, è stata poi esclusa dalla delegazione dei “volenterosi” europei convocata da Zelensky: segnale che Bruxelles e Parigi non si fidano pienamente della posizione italiana, vista come troppo legata a Washington. L’Italia oggi è oggi corteggiata dagli USA per rompere le convergenze europee sul piano commerciale e strategico, e Roma tenta di trarre vantaggio da questo ruolo ambivalente.
 
L’India tra equilibri multipolari e sovranità economica
Il caso dell’India è ancor più emblematico. Da un lato, Delhi partecipa al Quad (con USA, Giappone e Australia), firma accordi di difesa (come il BECA con Washington) e rafforza la cooperazione su semiconduttori e cybersicurezza; dall’altro resta legata a Mosca, da cui importa armamenti (come i sistemi S-400) e greggio a basso costo. Nel 2024 la Russia è infatti diventata il primo fornitore di petrolio dell’India (circa 2 milioni di barili al giorno), e l’India ha evitato sanzioni pur mantenendo una narrativa di “neutralità attiva”. Durante la visita di Vance, sono stati raggiunti impegni cruciali: roadmap verso un accordo di libero scambio da 500 miliardi di dollari entro il 2030, collaborazione su difesa e tecnologia, sospensione temporanea dei maxi-dazi statunitensi. Ma è l’approccio bilaterale – fuori dai consessi multilaterali – a colpire: Washington tratta direttamente con Delhi aggirando il WTO o altre sedi ufficiali, mostrando quanto l’India sia considerata una pedina centrale nel contenimento dell’asse alternativo Cina e Russia.
 
La crisi nel Kashmir: prima conseguenza strategica
A pochi giorni dalla visita di Vance, è esplosa una nuova crisi nel Kashmir tra India e Pakistan. Sebbene legata a tensioni storiche, il tempismo lascia spazio a letture strategiche. La Cina, partner del Pakistan, ha difeso Islamabad con mezzi militari e diplomatici: i jet J-10 forniti da Pechino sono stati utilizzati in azioni belliche a difesa del Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC) che attraversa i territori contesi, irritando Delhi (che con i suoi Raphael Francesi,

caccia ancora di 4 generazioni acquistati ad un prezzo altissimo, ha forse capito di non essere proprio pronta ad un confronto armato…). Gli USA, invece, hanno mantenuto un profilo basso, pur ribadendo in dichiarazioni pubbliche l’importanza della de-escalation. La loro attenzione è chiaramente rivolta a consolidare l’intesa con Modi e a spingere l’India verso il fronte anti-cinese. In questo contesto, il conflitto regionale può diventare un banco di prova per la fedeltà indiana e per il nuovo assetto globale. Non a caso Modi ha avuto altri impegni per non partecipare alla parata per la vittoria svoltasi a Mosca.
 
L’eco di una strategia imperiale
Il viaggio di Vance non ha quindi prodotto solo accordi economici e dichiarazioni congiunte: ha riattivato dinamiche di pressione selettiva e bilanciamento che riecheggiano modelli storici di gestione geopolitica . L’Italia, da ponte fragile tra UE e USA, e l’India, da mediatore tra blocchi rivali, rappresentano per Washington strumenti fondamentali per contenere il rafforzamento dell’asse sino-russo e dell’Europa unita. Le crisi emerse subito dopo – come il conflitto indo-pakistano – sono la cartina al tornasole delle tensioni che questa politica inevitabilmente genera. Ma per gli Stati Uniti sono i passi fondamentali per continuare a plasmare il disordine globale secondo i propri interessi.

US economy, il modello di crescita basato su un eccesso di debito è destinato a fallire

Gli Stati Uniti stanno cercando di ripetere con il mondo intero la stessa operazione che fecero con il Giappone negli anni Novanta, ma Cina ed Europa non sono disposti ad accettarlo.

Di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy

Abbiamo probabilmente toccato il “picco” della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ma pensare che il contesto internazionale possa tornare come prima è una pura illusione. Le ampie oscillazioni sugli indici dei mercati azionari segnalano che la psicologia di consenso è propensa a credere che il sistema possa passare facilmente da uno scenario a un altro senza danni. È abbastanza probabile che si cerchi di ridimensionare la tensione creata ma la direzione intrapresa è ormai irreversibile e il contesto è cambiato.

Infatti, occorre considerare che i tempi con i quali si svolgono le trattative commerciali durano mesi – se non anni – e le soluzioni non saranno quindi così facili come si tende a far credere. Nel frattempo, gli equilibri sui quali si è costruito il commercio globale e la globalizzazione dal 2000 in poi si stanno inesorabilmente sgretolando. Leggendo il documento “Foreign Trade Barriers“, pubblicato dall’amministrazione Usa, si comprende il punto di vista americano ma anche la complessità della trattativa e le difficoltà prospettiche. Appare abbastanza evidente che la parte più difficile da risolvere è quella che riguarda la Cina e l’Europa, mentre appare più facile un accordo con Messico, Canada e Giappone. È quindi probabile che i dazi possano essere in parte ridotti ma non verranno più rimossi completamente per molti anni.

Un New Deal al contrario. I mercati finanziari tendono a far credere che lo scenario di fondo non sia cambiato, che questi eventi siano solo transitori e che tutto tornerà come prima. Nella realtà siamo di fronte al più importante cambiamento strutturale globale di natura geopolitica, commerciale, economica e finanziaria dai tempi del New Deal. Il problema è che questo è un New Deal al contrario, dove l’economia Usa non ha più lo spazio fiscale per fare le politiche Keynesiane sostenute in questi anni, ma non ha neppure l’intenzione di ridurre il debito, che serve a sostenere le bolle speculative finanziarie. I mercati continuano infatti a sperare che nessuna politica fiscale restrittiva sia attuabile. Si cerca quindi di contenere una potenziale crisi da debito introducendo una tassa sui consumi interni, sperando che possa fornire le risorse finanziarie per mantenere questo insostenibile status quo.

I dazi commerciali sono sostanzialmente una forma di tassazione sui consumi globali, ma in particolare su quelli americani, dato che i consumi Usa sono circa il 25% del Pil mondiale. Poiché gli Stati Uniti hanno basato la crescita degli ultimi vent’anni sui consumi interni a leva (finanziati), la domanda globale è stata trainata da questo modello esasperato di “consumi finanziati dal debito“, che a lungo andare ha generato squilibri globali insostenibili. Gli Stati Uniti, per correggere tali squilibri, dovrebbero aumentare le imposte sui redditi, sul capitale e sulla Corporate America (che non paga tasse), procurando una riduzione della domanda interna e quindi una contrazione delle importazioni e del deficit estero, ma accettando anche una recessione come conseguenza. Pertanto, agli Stati Uniti non rimane che tassare i consumi esteri (derivanti dalle importazioni), facendo credere che tali imposte siano pagate da chi esporta verso gli Stati Uniti con pratiche commerciali “scorrette”.

Il risultato che si otterrà è comunque una recessione o un forte rallentamento globale, ma in questo caso si cerca di trovare una causa esterna, un nemico da accusare, un capro espiatorio esterno (Cina o Europa) per quanto riguarda la crisi economica e interno (Fed) per quanto riguarda il rischio di una eventuale crisi finanziaria. Nel 2019 gli Stati Uniti avevano già in corso un altro 2008 ma, grazie al Covid, gli interventi fiscali e monetari lo hanno nascosto ma solo rinviato. La crisi del mercato interbancario del 2018 aveva fatto emergere tutto il credito speculativo nel settore del Commercial Real Estate, lo stesso settore che ha poi procurato i fallimenti bancari di due anni fa. Problemi subito contenuti con alcuni salvataggi ma mai risolti e in costante peggioramento. Attualmente circa 450 banche americane sono in crisi strutturale e la Fed fornisce costanti linee di credito per puntellare la situazione. Sebbene sia abbastanza evidente che nel frattempo tutto è peggiorato nel credito al Commercial Real Estate (4,5Tr di dollari), a tale settore si è ora aggiunto anche il Credito al Consumo (5,5 Tr di dollari), dove i tassi di insolvenza sono già ora ai livelli pre 2008 nonostante la piena occupazione. Non oso immaginare cosa potrebbe accadere in caso di aumento della disoccupazione.

L’amministrazione Trump crede di poter reggere una temporanea recessione procurata dalla guerra commerciale ed essere in grado di risollevare l’economia nella seconda metà del mandato presidenziale, ma l’incertezza globale procurata dal cambio di scenario in atto non sarà di breve periodo, e questo inciderà per lungo tempo sull’economia internazionale. Un eventuale riposizionamento produttivo di quanto è stato localizzato in Cina non è una operazione che può completarsi in poco tempo, sempre che sia fattibile e in ogni caso i costi di tale operazione sarebbero colossali. Una eventuale recessione procurerà seri problemi al credito speculativo di cui è infarcito lo Shadow Banking System USA (12 Tr di dollari), accentuando le insolvenze, la contrazione del credito all’economia e procurando un peggioramento della crisi bancaria in corso.

Ricordo che le grandi banche americane hanno rifiutato di applicare Basilea III per non far emergere le perdite immobilizzate nei bilanci, bilanci che “battono le stime” sempre più ridimensionate, ma che non sono credibili agli analisti più attenti. Credo che prima o poi la Fed di Powell verrà chiamata a testimoniare davanti al Congresso per non aver vigilato sui rischi finanziari di sistema e per essere stata formalmente sempre indipendente dalla politica ma poco indipendente da Wall Street. Infatti un ulteriore problema è che la Federal Reserve, da anni, serve ormai solo a fornire bail out a Wall Street e si è allineata al puntellamento di un sistema finanziario sempre esposto al massimo rischio, abbandonando di fatto il ruolo di vigilanza sui rischi finanziari. Lo scontro politico sulla Fed è appena iniziato. Ritenere quindi che in soli due anni si possa ristrutturare la Global Value Chain, risolvere gli strutturali problemi del debito pubblico e privato Usa, sanare lo Shadow Banking System americano, risolvere il contenzioso commerciale globale, procurare un aggiustamento del deficit estero americano senza una recessione e ripartire come se nulla fosse successo è pura fantasia.

Gli Stati Uniti credono di imporre al mondo quello che hanno imposto al Giappone negli anni Novanta. Nel frattempo Europa e Cina, nel mondo virtuale dei mercati finanziari, dovrebbero adottare il modello americano e diventare i trascinatori del ciclo mondiale, salvare gli Stati Uniti sottoscrivendo i Century Bonds, accettare una significativa svalutazione del dollaro ma continuare a canalizzare i flussi di capitale sugli asset finanziari americani. Tutto questo per salvaguardare il modello economico Usa basato su consumi finanziati dall’estero, esasperata finanza speculativa e paradiso fiscale per le grandi società quotate, che chiedono la protezione geopolitica americana per continuare a non pagare le tasse sui profitti prodotti all’estero.

Difficile che la Cina voglia fare la fine del Giappone. Tutto quello che sta accadendo in questi mesi è infatti la fotocopia di quanto è già successo all’inizio degli anni 90, quando il Giappone era il principale esportatore mondiale e ci volevano 250 yen per acquistare un dollaro. Gli Stati Uniti iniziarono una guerra commerciale con il Giappone e lo costrinsero a spostare parte della produzione industriale in America e a rivalutare lo yen. Lo scoppio della bolla speculativa giapponese procurò una Balance Sheet Recession e una crisi economica. Nel corso degli anni 90 lo yen subì una rivalutazione del 150% contro dollaro e gli Stati Uniti obbligarono il Giappone a delocalizzare in Usa una significativa parte della produzione industriale per evitare i dazi. L’economia giapponese entrò in una fase di stagnazione strutturale e il governo giapponese, per contrastare la stagnazione, iniziò una politica fiscale espansiva costante supportata dal QE di Boj e da tassi d’interesse vicini allo zero. Tale politica fiscale spinse il debito pubblico al 240% del Pil senza mai stimolare veramente la crescita economica. La politica monetaria espansiva, la compressione dei tassi e il controllo del cambio contro dollaro, favorirono l’avvio di un gigantesco carry trade strutturale verso gli asset americani. Il sistema finanziario giapponese divenne il principale sottoscrittore di debito Usa e tutta la liquidità iniettata da Boj tramite il QE prese la direzione degli Stati Uniti.

L’economia Usa vive quindi di QE “importato” dall’estero da oltre trent’anni e dal 2008 è stata supportata anche dal QE della Fed. Quando nel 2014 la Bce ha introdotto i tassi negativi, il meccanismo del carry trade si è allargato all’Europa, e buona parte della liquidità iniettata da Bce è servita a finanziare l’acquisto di asset americani. I tassi negativi di Boj e Bce hanno favorito quindi la colossale bolla speculativa sugli asset finanziari americani e hanno finanziato l’esplosione del leverage privato e del debito pubblico. In sostanza gli Stati Uniti stanno chiedendo al mondo di fare quello che ha fatto il Giappone trent’anni fa. Ma l’attuale cedimento di dollaro ed equity Usa è la conferma dell’inizio di un deflusso dei capitali forniti da investitori europei e giapponesi. Se questo dovesse continuare, il governo americano sarebbe pronto a introdurre un blocco all’uscita dei capitali, operazione peraltro prevista nel piano economico dettagliato di Stephen Miran, il capo dei consulenti economici della Casa Bianca.

E’ iniziata una crisi strutturale dell’attuale ordine economico mondiale. È abbastanza evidente che siamo all’inizio di una crisi strutturale dell’ordine mondiale, perché nessuno è disposto ad accettare la “Japanisation” del proprio sistema. È quindi probabile che il tentativo americano di “salvare” il proprio modello economico sia destinato a fallire, e questo porterà gli Usa ad una crisi economica, sociale e finanziaria. Non ci vorrà molto tempo per assistere a tali accadimenti, dato che l’attuale amministrazione Usa ha bisogno di ottenere risultati immediati dallo scontro diretto e non ha molto tempo a disposizione per correggere gli attuali squilibri interni. Il meccanismo è quindi in accelerazione e nulla sarà più come prima. L’asset allocation del Global Strategy Fund si posiziona quindi per navigare nella più difficile e tormentata fase di ristrutturazione del sistema globale, che procurerà alta volatilità, disordine sui mercati valutari e compressione delle valutazioni dei mercati azionari. Il mondo occidentale entra in questa nuova era con gli asset finanziari posizionati sui massimi e quindi estremamente vulnerabili ai contrasti geoeconomici appena iniziati.

I mercati emergenti e la Cina hanno già pagato il conto della supremazia finanziaria americana e possono quindi emergere dal disordine in arrivo come l’area di futura ripartenza del ciclo. Rimaniamo comunque particolarmente negativi sulle prospettive del dollaro e sulle capacità di ripresa duratura dei mercati azionari, l’Oro continuerà il rialzo per i motivi strutturali analizzati e i tassi sono destinati a scendere ovunque per cercare di contrastare un rischio recessivo sempre più concreto. I dati macroeconomici continueranno a essere manipolati per non far emergere la reale situazione di crisi in cui il sistema si trova da tempo, in ogni caso, l’andamento dei profitti delle società quotate non potrà nascondere la realtà.

Ordine mondiale cercasi

Molti economisti pensano che il capitalismo USA si diriga definitivamente verso modelli di stato corporativo, autoritario e repressivo all’interno, militare e aggressivo con i paesi esteri.

di Manlio Marucci, presidente di Federpromm, docente e scrittore

Non c’è pace da quando Donald Trump è diventato Presidente del Paese più capitalistico del mondo, e a fibrillare quotidianamente è l’intero pianeta, americani compresi. Nulla è più come prima, e non passa giorno in cui l’inquilino della Casa Bianca non dia colpi di piccone all’ordine mondiale così come lo abbiamo conosciuto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La missione del Tycoon è chiarissima: recuperare con la forza e il ricatto valutario/economico l’imponente deficit commerciale, superiore a 3 trilioni di dollari, che gli USA hanno nei confronti dei partner commerciali (UE e Cina in primis). E per farlo, Trump non ha mostrato alcuna difficoltà ad agire contro gli interessi di molti capitani di industria statunitensi – anche quelli che lo hanno sostenuto nella corsa alla presidenza – “colpevoli” di aver decentrato la produzione nei Paesi emergenti dove, grazie al basso costo del lavoro, hanno tutti trasferito intere filiere produttive. I dazi, in questo senso, sono lo strumento più efficace con cui Trump intende far rientrare le produzioni (più investimenti e relativa occupazione) in suolo americano e riequilibrare così una situazione critica, fornendo come è nel suo stile soluzioni semplicistiche a problemi complessi.

Nonostante i rapporti non idilliaci con l’intero pianeta per, l’amministrazione Trump il nemico più temibile resta la Cina, con cui già dal 2018 è in atto una guerra commerciale. Il gigante asiatico da tempo non è più il Paese di contadini recentemente descritto da Vance, ma un colosso economico che esporta non più solo beni a basso costo, ma tecnologia così all’avanguardia da superare persino quella statunitense. L’offensiva del Presidente, quindi, è diretta verso le “multinazionali del globalismo”, quelle in costante lotta con la fazione che punta tutto sulla re-industrializzazione del Paese, trasformatosi nel tempo da produttore di beni in erogatore di servizi, con tutte le conseguenze in termini di impoverimento del ceto medio che sta sparendo ovunque.

La manovra protezionistica punta a reperire risorse per ridurre la pressione fiscale, anche sui più ricchi, tassando il Mondo per detassare gli americani. In tutto ciò, il convitato di pietra è il debito americano, ben 36 trilioni di dollari, detenuto in larga parte da investitori stranieri, Cina compresa. Un fardello che zavorra l’azione aggressiva di Trump rendendolo ostaggio dei mercati che nel “liberation day” gli hanno imposto una pausa, pena il crollo del dollaro e l’aumento degli interessi sul debito.

Una massima del Taoismo insegna che nel trionfo inizia il disastro, e quando questo accade ci si deve porre diversi interrogativi. In particolare, siamo in una fase economica destinata ad esaurirsi, oppure si prospetta una crescente instabilità del sistema monetario internazionale che precede la recessione e l’aumento dell’inflazione? Le possibili risposte a questa domanda, in ogni caso, portano a concludere che ignorare le catene globali del valore (gli Usa importano componenti per poi esportare prodotti finiti), non tenere conto della struttura dell’economia (alcuni Paesi sono esportatori netti per la loro impostazione produttiva), ma soprattutto chiudere gli occhi sulla natura bidirezionale del commercio, applicando dazi del 20%, è irresponsabile e creerà inflazione anche per i consumatori americani.

Il male principale del capitalismo monopolistico, di cui poco si parla, è la tendenza alla sovraccumulazione. Molti economisti americani, anche a sinistra, pensano infatti che il capitalismo Usa si diriga verso un’edizione americana di Stato corporativo, autoritario e repressivo all’interno, militaristico e aggressivo all’esterno. Trump intende davvero assumersi questa responsabilità o è inconsciamente consapevole della complessità dei meccanismi del commercio globale? In attesa di una risposta, molti paperoni americani stanno spostando la residenza in Svizzera, le università insorgono rivendicando autonomia dalla politica, e perfino la sonnacchiosa Europa si appresta a varare una politica monetaria basata sull’euro digitale per smarcarsi dal monopolio del circuito dei pagamenti delle società americane, Visa e Mastercard. La Cina, poi, rinsalda i rapporti con il sud est asiatico, in particolare con il Vietnam, altra vittima eccellente dei dazi trumpiani. Un quadro caotico dove l’ordine mondiale, targato Occidente, basato sul consenso sociale e sul rispetto della persona viene messo a rischio senza che nessuno abbia ben chiaro cosa lo potrebbe sostituire.

Conviene alla Cina far saltare il banco del debito USA?

Tecnicamente la Cina avrebbe la capacità di far saltare il debito americano, sebbene detiene “solo” circa 800 miliardi di dollari in Treasury. Eppure, difficilmente lo farà.

Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

Mentre i mercati tremano, il dollaro si indebolisce e i rendimenti dei Treasury USA a lungo termine si impennano, i mercati mondiali guardano con preoccupazione la situazione e cercano la risposta ad una domanda fondamentale: può – e soprattutto conviene – davvero alla Cina far saltare il banco del debito americano? Oppure, come già avvenuto in due momenti cruciali della storia recente, gli Stati Uniti e la Cina ed il resto dei paesi sviluppati troveranno un compromesso strategico, con Pechino e gli altri che finanziano di nuovo l’espansione americana, e Washington che garantisce accesso al proprio mercato insieme ad una ritrovata stabilità nel commercio internazionale?

Per rispondere, bisogna tornare indietro nel tempo e fare riferimento a due episodi storicamente recenti.

1971: Nixon e la fine del Gold Standard (quando un repubblicano diventa “keynesiano”). Richard Nixon, presidente repubblicano ma pragmatico, affrontò una crisi inflattiva e valutaria epocale. Il dollaro era sotto attacco, le riserve d’oro si assottigliavano e gli Stati Uniti erano ancora impantanati nella guerra del Vietnam. Il 15 agosto 1971, Nixon annunciò la fine della convertibilità del dollaro in oro, decretando la morte del sistema di Bretton Woods. In quel momento, adottò politiche apertamente interventiste:
– controllo dei prezzi e dei salari (per contenere l’inflazione),
– spesa pubblica elevata, anche in disavanzo
– abbandono di ogni ancoraggio aureo, con l’obiettivo di sostenere la domanda interna e la competitività esterna.

Nixon stesso ammise apertamente la sua “svolta Keynesiana”, con la famosa dichiarazione “Now I am a Keynesian in economics“. Il risultato? Gli USA, liberi dal vincolo dell’oro, poterono stampare dollari per rilanciare l’economia. E il mondo, pur riluttante, non avendo alternative e forza per fare in modo diverso, fu costretto ad accettare il dollaro come moneta di riserva globale. Nessuno volle — o poté — far saltare il banco, anche se la guerra del Kippur finirà poi per mettere in ginocchio l’Europa dal punto di vista energetico, quindi anche economico (ma questa è un’altra storia).

2008–2010: Obama, il Quantitative Easing e il G2 con la Cina. Dopo il crollo di Lehman Brothers, il rischio era il collasso sistemico del sistema finanziario globale. L’amministrazione Obama, con l’appoggio della Fed, lanciò una politica fortemente espansiva, adottando stimoli fiscali massicci, tassi di interesse a zero e il Quantitative Easing su scala senza precedenti. In parallelo, si rafforzò il dialogo strategico USA-Cina, il cosiddetto “G2”. La Cina, allora secondo creditore estero degli Stati Uniti, continuò a comprare T-Bond, permettendo agli USA di finanziare il proprio debito a costi contenuti. In cambio, Washington non ostacolò le esportazioni cinesi, garantendo accesso al mercato e stabilità del dollaro. Un equilibrio simbiotico, ma instabile. Eppure, ancora una volta, il banco non saltò.

2025, lo scenario attuale: rendimenti in rialzo, sfiducia in aumento. Oggi il debito americano ha superato i 36.000 miliardi di dollari. Il term premium a 10 anni è tornato positivo. I rendimenti del treasury trentennale si avvicinano al 5,1%. E il dollaro sta perdendo terreno in modo importante rispetto a valute rifugio come il franco svizzero, lo yen e l’euro. I segnali sono chiari: gli investitori vogliono essere pagati di più per detenere debito americano e si sta verificando un disaccoppiamento tra dollaro e fiducia globale, mentre la Fed è bloccata tra l’inflazione da dazi e la necessità di sostenere la liquidità per dare energia all’economia USA che Trump vuole fare crescere anche attraverso la svalutazione del dollaro e rendere più competitive le esportazioni.

E la Cina? Possiede ancora circa 800 miliardi di dollari in T-Bond. Ha ridotto la sua esposizione in titoli del tesoro USA, ma non ha ancora mollato del tutto. Sa che un crollo del dollaro colpirebbe anche il valore delle sue riserve e il suo export. Va inoltre ricordato che la Cina ha più volte dichiarato l’intenzione di costruire un sistema alternativo al dollaro, attraverso l’internazionalizzazione dello yuan, la promozione di piattaforme di pagamento indipendenti e accordi bilaterali in valute locali. Tuttavia, è altrettanto evidente che Pechino (insieme ai BRICS) non sia ancora in grado di costruire un sistema pienamente autonomo e globalmente competitivo rispetto a quello guidato dagli Stati Uniti.

Detto questo, tecnicamente la Cina avrebbe comunque la capacità di far saltare il banco, nonostante detenga “solo” circa 800 miliardi di dollari in Treasury. La storia offre esempi significativi: a volte, sono bastati detentori marginali di debito per provocare crisi sistemiche. È il caso degli Stati Uniti con il debito dell’Europa orientale negli anni 70-’80, o dell’Europa (in particolare Germania e Francia) con la ripicca sul debito dei Paesi dell’America Latina. Nel caso dell’Est Europa, molti Paesi avevano contratto debito in valuta estera per finanziare sviluppo e apertura. Gli USA, poco esposti, rifiutarono strategicamente il rifinanziamento, e l’Europa seguì, causando una crisi a catena.

In America Latina, dopo un decennio di prestiti facili, il rialzo dei tassi USA e il ritiro del credito europeo provocarono default a catena: Messico, Brasile, Argentina. In entrambi i casi, le scelte furono politiche, e la leva del credito fu usata come strumento strategico. Questi precedenti dimostrano come anche una posizione non dominante sul piano quantitativo possa generare effetti sistemici devastanti, se usata in modo mirato. Da qui, l’impasse: o si trova un accordo, o si entra in uno scenario di rottura sistemica svantaggioso per tutti. In casi estremi come questo, lo spettro delle “bombe” non è solo una metafora economica.

E se a guidare fosse Trump? Ipotesi su un equilibrio instabile. Nel 2025, lo scenario si è fatto ancora più complesso con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Un presidente apertamente liberista a parole, ma interventista nei fatti, che ha più volte definito i suoi predecessori “incapaci” per aver concesso alla Cina un ruolo dominante nel sistema commerciale e finanziario globale. Cosa sta facendo Trump, in sintesi?
– Contenimento selettivo della spesa pubblica. Trump ha rilanciato il Department of Government Efficiency (DOGE) con l’obiettivo di digitalizzare e snellire la macchina statale, affidandolo a Elon Musk. Il taglio della spesa è selettivo, ancora più simbolico che strutturale.
– Dazi come strumento di pressione finanziaria. Trump vuole costringere gli esportatori a reinvestire in debito USA, imponendo dazi che funzionano da leva fiscale indiretta. Una forma di ricatto geopolitico: “se volete esportare in America, comprate i nostri T-Bond“.
– Crescita interna senza fondamentali pronti. Trump punta a rilanciare la manifattura USA, tuttavia mancano lavoratori qualificati e le catene di fornitura globali non sono rientrate, per cui il rischio è quello di voler crescere senza basi strutturali, aumentando debito e pressioni inflattive.

L’unica possibilità oggi è che si trovi un accordo sostenibile, che sia strategico e vantaggioso per tutti. È anche  probabile che la Cina non si limiti a discutere solo di economia e finanza. Potrebbe infatti mettere sul piatto dossier geopolitici di peso, come la questione di Taiwan, e proporre un’intesa sulla crisi in Ucraina, sfruttando i legami crescenti con la Russia all’interno del blocco dei BRICS. In questo scenario, gli equilibri globali non si ridisegnano solo sulle borse e sulle valute, ma anche sulle sfere di influenza politica e militare. 

L’ipotesi più probabile è che la trattativa economica del cosiddetto G2 diventi il baricentro di un nuovo ordine mondiale (dal quale l’Europa cerca di non rimanere esclusa…). La storia insegna che gli Stati Uniti hanno superato crisi di fiducia e di debito solo grazie a compromessi strategici, soprattutto con la Cina. Nel 1971, con Nixon. Nel 2010, con Obama. Oggi, con Trump, la situazione è più incerta, per cui se gli Stati Uniti vogliono restare l’economia trainante del mondo, devono trovare un nuovo equilibrio con la Cina. Se non lo faranno, il futuro del dollaro come pilastro del sistema globale potrebbe davvero essere in discussione. E a quel punto, conviene davvero alla Cina far saltare il banco?