Marzo 19, 2025
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Autonomi, subordinati o parasubordinati? I consulenti finanziari ancora in cerca di identità lavorativa

Secondo Manlio Marucci, l’attuale allocazione lavorativa del consulente finanziario non autonomo presenta profonde contraddizioni giuridiche. “La situazione attuale? Un cortocircuito”.

Intervista di Massimo Bonaventura

Il tema del contratto unico dei consulenti finanziari tiene banco periodicamente, e ogni volta alimenta uno strano confronto a distanza in cui al crescente “rumore” di alcune figure istituzionali di rappresentanza della categoria si oppone il silenzio “fragoroso” delle organizzazioni datoriali. Tale stato di cose, in tutta evidenza, è anche figlio dello scarso livello di sindacalizzazione degli ex promotori, i quali provengono da una storia passata di alti margini di ricavo – che non richiedevano l’utilità di una tutela sindacale ad ampio raggio – e da una storia più recente di continui tagli al fatturato, solo parzialmente compensati da un aumento delle masse amministrate pro capite.

Il tema è recentemente tornato all’attenzione degli addetti ai lavori, con un discreto vigore, ma il dibattito si trova ancora in una fase interlocutoria e non se ne intravede una fine. Ne abbiamo parlato con il presidente di Federpromm, Manlio Marucci, da lungo tempo attivo sulle tematiche sindacali dei lavoratori autonomi, con particolare focus sui consulenti finanziari.   

Prof. Marucci, dopo 40 anni molti consulenti di lunga data stanno per andare in pensione senza aver mai firmato un contratto unico che li legasse a tutti gli altri colleghi delle varie reti. Secondo lei, cosa ha potuto impedire ciò che, in Italia, è sempre stato lo strumento più elementare di tutela di un lavoratore?
In effetti è una situazione anomala per un settore così delicato e ricco di  esperienze professionali acquisite in tantissimi anni di attività. I consulenti finanziari, grazie al ruolo svolto a tutela del pubblico risparmio, hanno visto la loro figura professionale regredire da un punto di vista economico e delle tutele contrattuali, previdenziali e sindacali di base. Mentre nel settore bancario il peso dei sindacati ha avuto un ruolo centrale nella difesa degli interessi generali del personale, ciò non è stato possibile per la vasta platea dei consulenti finanziari che hanno operato con un mandato di agenzia.

Quali sono le cause di questa assenza di tutele?
La cause e concause di questa situazione hanno radici lontane, e più volte abbiamo cercato di comprendere le ragioni di fondo della scarsa sindacalizzazione della categoria. La riflessione che ne è scaturita è legata soprattutto ad un aspetto psicologico, piuttosto che di identificazione come classe sociale, espressione di una categoria ben identificata. Paradossalmente è una contraddizione che non trova una soluzione: da una parte ci si indentifica come “imprenditore libero, autonomo”, dall’altra si accettano passivamente le condizioni e i valori della società mandante. Un cortocircuito sempre più visibile, soprattutto dopo l’entrata in vigore delle MiFID.

La figura “ibrida” del consulente, un pò autonomo e un po’ dipendente, è stata anche definita come “parasubordinata”. Quanto pesa l’autonomia e quanto la subordinazione?
Con gli attuali schemi di mandato di agenzia, sia pure nell’assoluta libertà dei consulenti sugli orari di lavoro e sulle festività, vi è una subordinazione mascherata del rapporto contrattuale, proprio perchè le condizioni dei vari istituti contrattuali sono già definiti dalle singole società e il consulente finanziario può solo accettarne le condizioni per adesione, senza poter negoziare sia la parte normativa che delle obbligazioni a cui è chiamato per legge ad adempiere. Di solito tratta solo per la parte economica con una lettera di ingaggio ma subordinata a precisi risultati di raccolta e spesso – qualora non si raggiungano gli obiettivi – tali bonus devono essere restituiti. Sono molti i contenziosi aperti, anche di natura legale, per via del mancato raggiungimento dei risultati pattuiti. Tra l’altro, il riferimento alla disciplina del mandato di agenzia al codice civile (artt.1492 e segg.) e all’AEC del settore commercio trova l’applicazione molto difficile nel settore, non potendosi applicare l’ergas omnes.

In uno scenario in cui anche le banche si orientano ogni giorno di più per abbattere la parte di retribuzione fissa sostituendo con quella variabile, in che modo si potrebbe ipotizzare oggi un contratto unico, e con quali componenti strutturali principali?
Un contratto di riferimento unico è possibile solo se vi è una convergenza di interessi comuni tra associazioni datoriali e organizzazioni sindacali, sennò tutto viene ricondotto alle trattative di secondo livello per singola azienda e si soggiace alle strategie portate avanti dai gruppi bancari. Al momento, vedo una profonda resistenza a ricercare gli interessi comuni su cui convergere, e una certa commistione di ruoli e interessi tra le organizzazioni non sindacali dei consulenti e quelle delle banche-reti: una illogica partnership dichiarata che mantiene tutto così com’è e spegne sul nascere il confronto sul contratto unico.  

Lei ha recentemente dichiarato che il consulente finanziario si trova in una posizione scomoda dal momento che “è chiamato, quotidianamente, a decidere se conservare il posto di lavoro”. A cosa si riferisce esattamente?
In effetti è una posizione difficile, poiché vige la logica delle politiche commerciali dettate dalle direzioni centrali dei soggetti abilitati; e se non vengono eseguite con risultati concreti, giocoforza tali pressioni creano condizionamenti non solo psicologici ma anche familiari e di sostenibilità economica.

Come vedrebbe l’abbandono del modello contrattuale di mono-mandato e la possibilità dei consulenti di avere più mandati contemporaneamente dalle stesse case di investimento?
E’ una strada non percorribile, poichè la legge istitutiva della figura del consulente finanziario (già promotore) ne impedisce di fatto il plurimandato, potendo lo stesso consulente operare solo come persona fisica e non giuridica, salvo che si iscriva alla sezione OCF dei consulenti autonomi. Nel qual caso non può collocare prodotti e strumenti finanziari ma solo svolgere attività di consulenza a parcella. Soltanto modificando la normativa primaria del TUF e del TUB si potrebbe creare la figura del professionista con entrambe le possibilità. Su questo fronte Federpromm e UILCA sono molto impegnate.

A prescindere dal confronto sul contratto unico, come potremmo immaginare i consulenti finanziari tra dieci anni?
Cambierà radicalmente la composizione dell’albo, con una prevalenza di consulenti finanziari autonomi su quelli che operano con mandato per le società di collocamento. Un rapporto più equilibrato che consentirà ai clienti una maggiore possibilità di scelta per investire il proprio patrimonio. Tuttavia, prima di allora dovrà modificarsi profondamente la struttura dell’offerta di servizi, oggi ancora troppo imperniata sul modello distributivo delle banche-reti. Inoltre, nel futuro più prossimo inciderà anche l’evoluzione della tecnologia (e in parte anche dell’Ai) sulle attività professionali, sia per le aziende che per i consulenti.

Il Consulente finanziario come “autonomo dipendente”: un ruolo indefinito e senza tutele

Tutti gli agenti obbligati per legge al “monomandato” sono economicamente dipendenti dall’unico soggetto per cui operano. Perché allora non beneficiano di una contrattazione collettiva comune?

di Manlio Marucci

Nel corso degli ultimi anni, in numerose circostanze è stata affrontata la questione legata alla figura professionale dei consulenti finanziari e alla loro posizione giuridico-lavorativa. Gli ex promotori, infatti, sebbene siano asserviti ad una rigida normativa regolamentare nello svolgimento ordinario delle proprie attività, sul versante delle loro tutele contrattuali ancora oggi non godono del riconoscimento del proprio ruolo sociale svolto nell’interesse dei risparmiatori.

L’occasione era già stata offerta, qualche anno fa, dal DDL sulla riforma del lavoro, che aveva numerosi spunti di interesse generale adatti a poter riconoscere anche questa qualifica professionale unitamente ad altri collaboratori quali gli agenti in attività finanziaria e i collaboratori assicurativi. L’aspetto più delicato che riguarda i collaboratori degli intermediari finanziari, creditizi e/o assicurativi, oggi sempre più numerosi, è quello relativo all’irrazionale inquadramento che non risponde agli schemi classici previsti dalla legge 30/2003 (c.d Legge Biagi). Infatti, pur avendo obblighi di esclusiva nei confronti delle società mandanti, questi professionisti sono inquadrati contrattualmente solo con rapporti di natura agenziale.

Nel mondo del lavoro questi profili sono invero frequentissimi, e talvolta dominanti nei contratti più recenti (ne sono un esempio i co.co.co, i co.co.pro e le partite IVA). Il caso specifico dei consulenti finanziari è, però, differente. In primo luogo, il loro perimetro operativo risale al 1985, quando pressoché contemporaneamente entrarono in vigore sia la Legge 3/5/1985 n. 204 per la riforma degli agenti di commercio, sia la delibera Consob n. 1739 del 10 luglio 1985 che regolamentò il settore delle società di distribuzione dei servizi finanziari e che successivamente fu ampliata con la legge del 2 gennaio 1991 (istituzione delle SIM, Società di Intermediazione Finanziaria).

Queste norme, abbinate insieme, determinarono in modo obbligatorio il ruolo agenziale della figura degli ex promotori finanziari (oggi consulenti) e la scelta delle società di imporre il regime del “monomandato“, nel timore che gli stessi promotori potessero utilizzare il brand migliore per distribuire ai clienti, in realtà, prodotti e servizi di minor qualità ma con maggior margine economico. La normativa del 1991 confermò il perimetro contrattuale di tale figura professionale (valida ancora oggi) nelle posizioni degli agenti, dei mandatari e dei dipendenti. Ma questi ultimi sono per natura legati al datore di lavoro, mentre i primi sono vincolati nella loro azione dai limiti del mandato.

Un aspetto molto importante risiede nel fatto che la norma sugli agenti di commercio determina, in teoria, condizioni di autonomia organizzativa e gestionale che, nella realtà, sono andate sempre più riducendosi sia nel settore delle SIM che delle banche, in ragione dei vincoli di vigilanza (Consob, Isvap e Banca d’Italia), dei modelli organizzativi ex-231/01 e delle esigenze di internal audit  e compliance, soprattutto delle imprese inserite in gruppi bancari o assicurativi. Emerge, pertanto, come la figura più tradizionale del consulente “imprenditore di sé stesso” sia ormai scomparsa, poiché è sempre più complesso mantenere l’autonomia indicata dal modello giuridico di base della legge 204/85.

La stragrande maggioranza dei consulenti è inquadrata come agenti, e questa tendenza si sta rafforzando anche con il lavoro ibrido nelle maggiori banche italiane; eppure, i consulenti-agenti non si comportano come tali, assorbiti come sono dalle regole di compliance e dal vincolo di monomandato. Inoltre, nessuna organizzazione rappresentativa ha mai siglato un contratto collettivo del comparto agenziale per queste figure. Possiamo quindi convenire, come è convinzione ormai diffusa, che tutti gli operatori del segmento, obbligati per legge al “monomandato” e inquadrati come agenti, sono “economicamente dipendenti” dall’unico soggetto per cui operano.

Consulente finanziario

Nel settore è palesemente manifesta la condizione di crisi di vocazioni, anche per i giovani che vogliono intraprendere questa professione, ma ciò è dovuto anche alla logica strettamente binomiale del rapporto contrattuale nel mondo finanziario: dipendente o consulente. Il contesto merita sicuramente soluzioni multivariate e ben ponderate, considerando soprattutto la rischiosità della loro posizione, tra impossibilità di diversificare l’attività, carenza di tutele e sbilanciamento pericoloso delle regole contrattuali del lavoro. Eppure, consulenti finanziari, agenti in attività finanziaria, mediatori creditizi, agenti e sub-agenti assicurativi e agenti immobiliari costituiscono un universo di operatori professionali che supera le 350.000 unità, e quindi un numero non dissimile e forse superiore oggi a quello dei dipendenti bancari.

E’ ipotizzabile allora valutare l’ipotesi di una contrattazione collettiva che raggruppi tutte queste figure dell’intermediazione finanziaria, creditizia ed assicurativa, soprattutto per la rispondenza dei profili normativi comuni? La risposta non è semplice, anche per via della difficoltà di aggregare soggetti diversi e per la lunghezza dell’orizzonte nel quale conseguire risultati; tuttavia, i consulenti finanziari hanno consistenza sufficiente per proporsi leader di questo percorso e confrontarsi con banche e associazioni datoriali sulla garanzia di maggiori tutele e su solidi accordi collettivi di settore. 

Rinnovo del contratto di agenti di commercio e consulenti finanziari: chi vuole, dica la sua

Il 7 novembre le organizzazioni datoriali e quelle sindacali del settore riprendono le trattative per il nuovo AEC. Federpromm agli iscritti: inviateci proposte.

In previsione della ripresa del negoziato sindacale per le trattative del rinnovo del contratto per il prossimo 7 novembre 2024, la delegazione Federpromm-Uiltucs si è rivolta agli iscritti per chiedere suggerimenti e proposte in vista dell’incontro con le controparti per il rinnovo dell’Accordo Economico Collettivo di agenti e consulenti finanziari, ancora oggi fortemente discriminati poichè non esiste un riconoscimento a livello strutturale delle rispettive qualifiche e profili professionali, sia sotto il profilo della normativa che sotto quello economico.

Manca, infatti, una declaratoria delle funzioni di tali qualifiche, che Federpromm vuole invece far riconoscere all’interno del contratto, in modo che le aziende che recepiscano tale accordo non possano poi sottrarsi ai vari istituti ed obblighi contrattuali. In particolare, rispetto agli agenti che hanno il vincolo del “monomandato” va trovata la formula migliore affinchè si abbia un compenso economico come corrispettivo dell’esclusiva. Inoltre, rimanendo sul tema del vincolo di mandato, sotto il profilo della previdenza obbligatoria Enasarco si verifica da molti anni una condotta inopportuna (e inadeguata) delle società mandanti, poiché queste assolvono il relativo accantonamento contributivo per i monomandatari pagando la minor quota prevista per i plurimandatari, risparmiando sui costi aziendali ma generando ai danni degli agenti/consulenti gravissime limitazioni sul montante contributivo ai fini della pensione futura.

Chi è interessato a fare proposte utili all’interesse della categoria, potrà inviarle a: federpromm@uiltucs.eu.

La speculazione folle ha radici antiche. Il “meccanismo diabolico” della bolla dei tulipani

La bolla dei tulipani nel 1637 fu la prima grande crisi finanziaria innescata dall’utilizzo di strumenti finanziari con finalità speculative. Ecco cosa accadde veramente.

Se c’è un’epoca dove non ti aspetti di trovare bolle speculative, futures e opzioni è proprio il 16mo secolo, prima ancora della Rivoluzione Industriale. Eppure, dalla seconda metà del 1500 l’evoluta – allora come oggi – società agraria olandese divenne il laboratorio di prova della prima grande bolla che la Storia ricordi ancora oggi. A quel tempo, i bulbi di tulipano iniziarono ad essere esportati dalla Turchia in Europa e l’Olanda – conosciuto universalmente come il “paese dei fiori” – si fece promotore della loro diffusione e, negli ultimi anni del 1500, la loro coltivazione consentiva di mettere in commercio sia le qualità più comuni che le varietà più pregiate e rare, le quali vennero rapidamente considerate come merce di lusso, altamente desiderate presso la borghesia e i ricchi mercanti.

E così, la domanda di nuovi fiori superò ben presto la loro offerta, a causa del lento ciclo riproduttivo dei tulipani, cosicché i prezzi delle specie più ricercate salirono di prezzo notevolmente, tanto da considerare il bulbo del tulipano di tipo pregiato come un solido investimento per la coltivazione di fiori futuri ad alto rendimento. Si trattava, evidentemente, di una embrionale forma di “future organico” sul tulipano, le cui contrattazioni avvenivano in aste tenute in luoghi pubblici o in privato (in collegi di coltivatori e commercianti riuniti nelle locande) delle maggiori città olandesi.

L’espansione commerciale dell’Olanda – grazie al suo dominio delle vie marittime verso le Indie orientali – ed il conseguente accrescimento della ricchezza finanziaria privata favorirono la crescita silenziosa della bolla, e quando anche fioristi e commercianti delle classi meno ricche iniziarono a partecipare in modo sistematico alle transazioni su bulbi di tulipano (anche delle specie più comuni), aumentando la schiera di investitori – fino a quel momento riservata agli intenditori e appassionati appartenenti alle classi più agiate – la bolla diventò tale. Un po’ come ai tempi nostri, dove si è trasmesso l’adagio (dai più sempre inosservato) secondo il quale “…se anche il tuo salumiere parla di azioni e mercati finanziari, è il momento di vendere…”. Sarà utile notare, relativamente ai “bulbi-futures”, che la loro diffusione tra la nobiltà olandese cominciò nel 1590, ma il commercio massivo e il rialzo esponenziale dei prezzi è databile dal 1635 in poi. Di conseguenza, la bolla dei tulipani ebbe ben 45 anni per svilupparsi indisturbata, nel più totale silenzio, e questo spiega le dimensioni della rovina che lasciò dietro di sé.

Ma facciamo un passo indietro, quando ancora la crisi non era alle porte, per capirne il meccanismo “diabolico”. Ben presto, a causa della esplosione della “mania dei tulipani”, si radicò la consuetudine di prenotare in anticipo presso i contadini-coltivatori i bulbi ancora “in terra”, attraverso l’utilizzo di contratti con prezzi fissati ex-ante da onorare a scadenza. Questo stratagemma consentiva l’estensione del periodo di compravendite dai pochi mesi estivi successivi al dissotterramento dei bulbi a tutto l’anno. Ma quest’ultimo passaggio, solo in apparenza ininfluente, segnava anche un confine ben preciso tra “commercio speculativo” e “bolla speculativa”, poichè consentiva un allungamento “artificiale” del periodo di tempo in cui poter negoziare i “diritti sul bulbo”, cioè i futures sui tulipani, pagando subito solo un acconto del prezzo finale e corrispondendo il saldo alla consegna del bulbo fiorito.

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E’ proprio qui che accade il secondo (tragico) passaggio: dato che la consegna materiale avveniva a distanza di mesi, furono oggetto di negoziazione gli stessi contratti a termine già stipulati, creando così una “catena di Sant’Antonio” d’impegni che legava insieme tutti i partecipanti, con il rischio che l’inadempimento dell’ultimo acquirente avrebbe creato un effetto-domino sui precedenti acquirenti-debitori. I collegi di commercianti – una sorta di borsini locali che gestivano le contrattazioni nei vari centri abitati – non controllavano né che gli acquirenti disponessero di denaro sufficiente a saldare i debiti contratti, né che i venditori possedessero i bulbi di tulipano che s’impegnavano a cedere.

In tal modo, i prezzi assunsero rapidamente un andamento al rialzo del tutto slegato dalla realtà – come accaduto puntualmente nelle crisi finanziarie dei secoli successivi – e molti arrivarono a vendere proprietà immobiliari per poter acquistare i diritti sui bulbi più grandi e pregiati, ognuno dei quali valeva – a gennaio del 1637 – quanto “8 maiali grassi, 4 buoi grassi, 12 pecore grasse, 24 tonnellate di grano, 48 tonnellate di segale e 2 botti di vino…”. In occasione dell’ultima asta di Alkmaar (5 febbraio 1637), centinaia di lotti di bulbi furono venduti per un ammontare monetario di 90.000 fiorini (l’equivalente di circa 5 milioni di euro), e ciascun bulbo veniva venduto ad un prezzo medio pari al reddito di oltre un anno e mezzo di un lavoratore.

Il c.d. panic selling giunse nei giorni immediatamente successivi, quando ad Haarlem un’asta di bulbi andò deserta, e ciò fece precipitare i prezzi di mercato in tutto il paese. Il mercato dei tulipani crollò del tutto e le negoziazioni s’interruppero all’improvviso, e chi aveva acquistato i bulbi attraverso i contratti futures si ritrovò vincolato contrattualmente a pagarli una cifra notevolmente più elevata rispetto ai prezzi reali del momento, a vantaggio dei contadini, che possedevano i bulbi e che avevano il diritto di percepire prezzi elevatissimi per dei bulbi che ormai non valevano quasi più nulla.

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Questa crisi ebbe l’effetto più grave in assoluto, poiché con il crollo di febbraio il mercato di negoziazione di contratti su tulipani smise semplicemente di esistere, poiché l’impossibilità di trovare acquirenti innescò una corsa dei fioristi a vendere a qualsiasi prezzo. La lobby dei fioristi, troppo gravemente colpita, “truccò le carte” durante il gioco, e indusse la giustizia delle provincie olandesi a decretare la trasformazione dei contratti a termine (i futures) in contratti di opzione, autorizzando così i detentori dei contratti a non onorare l’impegno nei confronti dei contadini o coltivatori e pagando solo una penalità pari al 3,5% del prezzo pattuito. A pensarci bene, nel 2008 la speculazione delle banche sui mutui subprime rischiò di avere un effetto simile, portando i mercati finanziari molto vicini a cessare la propria esistenza. Si salvarono per un pelo, allora, ma i risultati rovinosi per certi versi li stiamo vivendo ancora adesso.

Sales Summit, i venditori fanno rete. Silvio Cardinali: fattore umano insostituibile nel B2B

Tra qualche giorno il Mug di Bologna ospiterà la prima edizione del Sales Summit, evento unico in cui i migliori venditori mettono in rete le competenze. Intervista al prof. Silvio Cardinali.

Tra qualche giorno, non appena sarà cessata l’allerta meteo per domani 19 settembre (data inizialmente prevista per l’inizio dell’evento e sospesa per motivi di sicurezza) Bologna ospiterà la prima edizione del Sales Summit (Mug – Magazzini Generativi, Via Emilia Levante, 9/F), un evento dedicato al confronto tra i professionisti della vendita che vogliono elevare le proprie competenze, scoprire nuove strategie di vendita e ampliare la propria rete di contatti. Il Summit è stato realizzato grazie alla collaborazione di SaleScience, Cdo Sales Community Lab e AAAgents, che corona un percorso iniziato nel Forum Commerciale (nato nel 2010 all’interno della Compagnia delle Opere) e che segna un decennio di crescita e innovazione per una solida community di imprenditori locali e nazionali che ha diffuso conoscenza e competenze nel settore vendite, ponendo le basi per il primo Sales Summit di quest’anno.

L’evento si concentrerà su due temi cruciali per il settore vendite: da una parte l’innovazione di processi e tecnologie, dall’altra il benessere in azienda dei dipendenti. I biglietti sono già in vendita sul sito salesummit.net, dove è possibile vedere il programma completo dell’evento, che può essere seguito anche in streaming. Ne abbiamo parlato con Silvio Cardinali, Professore Associato in Marketing e Sales Management presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche, nonché ispiratore del Summit e relatore.

Professore, dal 2020 ad oggi i processi di vendita hanno vissuto una vera e propria rivoluzione grazie ad una tecnologia delle informazioni sempre più accessibile a chi sovrintendente alle decisioni di spesa (capofamiglia, responsabile acquisti nelle aziende etc). Acquirenti più preparati determinano venditori più competenti e, di conseguenza, strategie commerciali in continua evoluzione: che risposta hanno dato le reti di vendita in termini di adattamento al cambiamento?
Solo negli ultimi anni, con l’affermarsi di nuovi modelli di acquisto e con l’evoluzione digitale, si è attivato un profondo processo di trasformazione che molti hanno definito Sales Transformation. Per le reti, che per quasi tutto il 900 erano state gestite allo stesso modo, è stato un salto notevole e per molti anche uno shock. Ma questa evoluzione ha spinto a ripensare i modelli con cui venivano e vengono gestite le attività commerciali e le reti di vendita. E così, la divisione commerciale si evolve da una funzione operativa – fai quello che ti viene detto – a strategica, in cui i “commerciali” danno il proprio contributo, non solo operativo, al percorso strategico di un’impresa. Inoltre, si passa da una divisione isolata, quella dei “commerciali esterni”, ad una fortemente integrata con produzione, magazzino e soprattutto con la funzione marketing. Ancora, cresce il ruolo di “intelligence” della funzione commerciale, e ciò significa considerare la conoscenza del mercato che proviene dalle vendite come una risorsa competitiva “in entrata”, in grado cioè di raccogliere costantemente informazioni dal mercato. 

Che peso ha avuto e avrà la trasformazione digitale?
la trasformazione digitale non è solo guidata dalle innovazioni tecnologiche (come l’intelligenza artificiale), ma anche da un nuovo buyer digitalmente evoluto che spinge, da un lato, ad una revisione delle modalità di contatto verso una prospettiva multicanale e, dell’altro, ad una modifica delle sales operation, delegando le attività operative e ripetitive a “macchine” e quelle a valore aggiunto ad una nuova generazione di professionisti delle vendite. Un esempio significativo è l’adozione sempre più diffusa di strumenti come il CRM (ndr: Customer Relationship Management, software e applicazioni che aiutano le aziende a gestire, analizzare e ottimizzare le interazioni con clienti e prospect), che consente di monitorare il ciclo di vendita, le diverse interazioni, ma soprattutto di comprendere e prevedere le esigenze degli acquirenti.

Come è cambiato l’approccio delle reti commerciali alla vendita? 
Un primo cambiamento è dal lato del recruiting, che oggi deve fare i conti con l’aumento della specializzazione dei profili commerciali, che adesso hanno identità professionali più diversificate, come ad esempio gli agenti on field, venditori inside, business developer, etc. Purtroppo, si tratta di profili che hanno diversi livelli di “scarsità” e pochi percorsi formativi in uscita. Inoltre, si soffre di una notevole “crisi di talenti”, figlia di una certa difficoltà ad attrarre le nuove generazioni verso la professione del venditore. Un altro importante cambiamento è relativo al rapporto con la tecnologia, una volta temuta da molti gestori di reti a causa dell’idea che “sostituirà me e i miei collaboratori e devo rifiutarla”. Invece, ora ci si rende conto che la tecnologia non è solo sostitutiva, ma soprattutto abilitante. Tuttavia, è necessario ricordare che il percorso verso la digitalizzazione non è né immediato né semplice. Secondo le stime di HBR del 2022, l’87% delle imprese aveva sperimentato un fallimento dei progetti di digital transformation. I casi di successo ci raccontano che la trasformazione va pianificata, che la tecnologia deve essere infusa nei processi (technology infusion) e non solo resa disponibile alla rete. La rete ne deve comprendere il valore nelle tasks quotidiane, deve migliorare la sua giornata lavorativa.

Quale sarà l’impatto dell’IA sulle strategie e sui processi di vendita, e soprattutto quali saranno, se ce ne sono, i limiti di applicazione dell’IA sulla attività del personale addetto alle vendite? 
In parte sarà, in parte è già stato, la maggior parte degli strumenti che utilizziamo quotidianamente sono integrati con l’IA. Dal lato dei manager, l’IA consentirà un maggior successo nelle strategie di vendita, offrendo la capacità di prevedere le esigenze future ma soprattutto un supporto decisionale critico per i manager e i responsabili di vendita, permettendo di prendere decisioni più informate e in tempo reale, basate su evidenze concrete ed aggiornate. Dal lato dei venditori, l’IA può potenziarli specialmente nei contesti in cui la relazione personale e la capacità di leggere le dinamiche umane sono fondamentali per il successo delle vendite.

Quali sono vantaggi e svantaggi dell’IA nella funzione di vendita?
L’aiuto dell’IA va in due grandi direzioni. La prima è quella che chiamiamo Automation: realizzare in maniera efficiente ed economica attività routinarie, dall’invio di una mail allo sviluppo di cadenze di contatto o alla gestione integrata dei vari touch point (mail, telefono, social ecc); la seconda è quella che chiamiamo Augmentation: attività tipica delle AI generativa come il supporto nella redazione di un testo commerciale, la predizione delle personalità di un cliente, fornendo i suggerimenti per un migliore contatto oppure stimare le intenzioni di acquisto per focalizzare l’attenzione sui clienti che realmente sono interessati (questi vengono chiamati dati di intento o INTENT DATA). Nonostante questi vantaggi, l’adozione dell’IA nei processi di vendita presenta alcuni limiti significativi, come le barriere legate ai costi di implementazione, la complessità tecnica per le piccole e medie imprese e la necessità di un cambiamento culturale all’interno dell’organizzazione, che spesso si scontra con resistenze da parte del personale, preoccupato per il potenziale impatto sull’occupazione e sulla natura del proprio ruolo. Inoltre va posta una particolare attenzione agli impatti ed ai risvolti di natura etica che – malgrado ci si stia lavorando anche a livello internazionale – è un tema ancora largamente inesplorato e non regolamentato.

Teme che il ricorso alla tecnologia possa determinare una riduzione notevole delle risorse umane nelle reti vendita? E se sì, in che misura? 
L’aspettativa è che IA sostituirà una parte importante delle tasks di un venditore, c’è chi parla di un 30%. Sostituirà pertanto quasi totalmente alcune attività che il personale commerciale non dovrà più fare perché quella sua task non crea più valore per il cliente, per l’impresa e magari non è più economicamente sostenibile. L’IA, infatti, può automatizzare una serie di attività ripetitive e operative, come l’inserimento dei dati e la gestione dei contatti, permettendo ai venditori di focalizzarsi su aspetti relazionali e strategici della vendita. La conseguenza sarà che dovrà fare altro – di solito attività a più alto valore cognitivo – e dovrà imparare ad interagire e saper gestire nuovi strumenti, in alternativa rischia di essere estromesso da nuove opportunità professionali. Infatti, la riduzione del personale sarà più evidente nelle vendite standardizzate, dove l’IA può sostituire parte dell’interazione umana, ad esempio, tramite chatbot nelle vendite online B2C. Tuttavia, nelle vendite complesse, come il B2B, la componente umana resta essenziale per creare fiducia e gestire trattative delicate. Quindi, piuttosto che eliminare i venditori, la tecnologia trasformerà le loro competenze, potenziandone il ruolo di consulenti strategici.

Che tipo di risultati si aspetta da questa edizione del Sales Summit di Bologna, sia sotto l’aspetto accademico che sotto il profilo di applicazione nelle attività produttive delle reti?
Il summit è una grande opportunità di confronto e mi aspetto un impatto verso due direzioni. Il primo è quello di incentivare l’interazione fra il mondo accademico (poco attivo in questo ambito commerciale) e le imprese, che invece manifestano esigenze emergenti in termini di stimoli per nuova conoscenza e nuovi modelli gestionali. Da questo punto di vista l’Università Politecnica delle Marche è fra le più riconosciute per l’attenzione e la rilevanza internazionale fin da quando alla fine degli anni ‘80 l’attuale rettore – prof. Gian Luca Gregori – ha attivato un filone di studi sull’argomento. Il secondo è relativo al tema, quello del benessere delle reti commerciali, che vorremmo inserire nell’agenda delle imprese italiane. Lo studio presentato da Salesience.it rappresenta il primo in Italia su questo ambito.

Clienti over 60 e “disagio tecnologico”, indispensabile il ruolo del consulente finanziario

L’utilizzo “forzoso” della tecnologia nei servizi finanziari, secondo Manlio Marucci, crea negli investitori over 60 il bisogno di essere affiancati nell’utilizzo del digitale. Per questo i consulenti finanziari sono insostituibili.

Intervista di Massimo Bonaventura

Già da dieci anni le banche stanno vivendo una inesorabile trasformazione grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e agli strumenti di gestione dei servizi offerti dal mondo digitale. Questi fattori hanno portato alla progressiva perdita di centralità delle filiali fisiche – che chiudono al ritmo di 1.000 ogni anno negli ultimi cinque anni – e alle necessarie modifiche nella gestione della relazione con la clientela, che si va abituando, non senza disagio, a svolgere le operazioni a distanza.

Tutti questi cambiamenti hanno un impatto significativo anche sui profili e le competenze che le aziende del settore ricercano, ma soprattutto sul trattamento economico e sugli orari di lavoro, per i quali la parola d’ordine è “flessibilità”. Questo fattore, che ben si sposa con le professioni emergenti e maggiormente richieste oggi dal mondo bancario (analisti e specialisti antiriciclaggio e anti frode, compliance, anti-money laundering e anti fraud specialist), trova più difficile adattamento nelle figure del gestore clientela privata, corporate e wealth, che si sono profondamente evolute rispetto al passato ed oggi devono essere dotate di competenze trasversali che consentano di agire in un contesto profondamente mutato e con categorie di clientela anche molto diverse tra loro per fasce d’età, esperienza, competenza e abitudini.

In ogni caso, la pressione per ridurre i costi e aumentare l’efficienza sta portando le banche a spingere sull’accelerazione digitale, e sono moltissimi ormai i clienti bancari che stanno abbandonando i tradizionali servizi bancari in filiale per ricorrere a quelli online e mobili. Questo ha generato l’emersione di nuove figure professionali che stanno gradualmente sostituendo quelle tradizionali. Un esempio su tutti è rappresentato dagli addetti alle attività di sportello bancario, che oggi fanno anche attività di consulenza ma sono sempre più insidiate dai consulenti presenti nei call center, che invece gestiscono le relazioni con i clienti a distanza sollecitando la loro attenzione sui vari servizi e prodotti che tradizionalmente erano distribuiti tramite le filiali fisiche. All’interno di questo scenario, la figura “ibrida” e flessibile per eccellenza del consulente finanziario, che a dispetto delle previsioni più nere riesce a conservare il proprio spazio professionale e potrebbe acquisire nuovi ruoli. Ne abbiamo parlato con Manlio Marucci, presidente di Federpromm.

Prof. Marucci, nel mondo delle banche avanza sempre più il lavoro flessibile, che mette in crisi sia il tradizionale modello organizzativo del credito che quello della consulenza. I principali gruppi bancari guardano al lavoro flessibile esclusivamente come strumento per migliorare il clima aziendale, poiché esso concilierebbe le esigenze familiari con la richiesta di maggior produttività. Secondo lei questa strategia è valida, oppure pecca di superficialità?
Se si vuole correttamente inquadrare il problema, questo va visto nel contesto generale macroeconomico, finanziario, sociale e culturale delle varie attività che producono ricchezza e surplus di capitale. Indubbiamente, le attività legate a settori strategici, come la funzione delle banche e delle reti di consulenza finanziaria, che sono fondamentali nel gestire ed indirizzare il risparmio delle famiglie, hanno modelli organizzativi aziendali che cercano di sfruttare al meglio le risorse umane. Ad eccezione dei consulenti – che sono lavoratori autonomi – il voler adottare a queste aziende il lavoro flessibile risponde ad una logica precisa, quella di ridurre i costi di gestione del personale, indipendentemente dai benefici indiretti che possono essere legati a migliorare le condizioni dei lavoratori in termini di tempo libero per la famiglia.

Questa logica porta con sé effetti collaterali positivi di qualche tipo?
Sicuramente favorisce nuovi modelli di consumo, sempre utili per favorire lo sviluppo economico generale. Su questo vi sono ampie ricerche della psicologia sociale e del lavoro che, a partire dagli anni trenta del secolo scorso (condotte dal sociologo Elton Mayo della scuola di Chicago), hanno messo in evidenza come sia importante la relazione dei gruppi di lavoro con i fattori psicologici, comportamentali, ambientali e produttivi. Si tratta di un processo inarrestabile, che riguarda tutti i settori determinati anche dalle nuove forme di lavoro imposte dalla tecnica e dai nuovi modelli della scienza applicata. Suggerisco una lettura anticipatoria sui tempi attuali nell’ormai classico pamplhet di H.Marcuse, “Saggio sulla liberazione“, edito da Einaudi nel 1969.

Oggi il PIL dei paesi occidentali è saldamente in mano ai c.d. babyboomers per due terzi. Eppure, questa categoria socioeconomica si distingue per un utilizzo meno ossessivo o persino accessorio della tecnologia. Questa massiccia digitalizzazione mette a disagio una larga fascia di clienti over-65 e over-70, poco avvezzi all’uso degli smartphone per le operazioni di banca: che posto hanno le loro aspettative in termini di maggiore qualità dei servizi, in uno scenario così difficile?
L’accelerazione verso l’uso generalizzato della tecnologia digitale nei servizi finanziari è sicuramente un arma a doppio taglio. Mentre avanza infatti la richiesta e la domanda di avere maggiore assistenza da parte dei clienti, e quindi avere una maggiore capacità di analisi e confronto sui prodotti e servizi offerti dai vari soggetti abilitati per attenuare i margini di rischio degli investimenti, dall’altra si sollecitano gli stessi clienti ad affidarsi alla digitalizzazione massiccia e ai nuovi sistemi di autonomia nello svolgimento delle operazioni bancarie, dalla più semplice a quella più sofisticata.

Come può essere conciliato questo dualismo, che sembra destinato a durare ancora diversi anni?
Credo sia opportuno conciliare tale dualismo attraverso l’indispensabile figura del consulente finanziario, che conosce il vasto panorama degli strumenti finanziari e riesce a dare significato al rapporto fiduciario tra banca e cliente, “superando” il disagio che decine di milioni di investitori over 60 provano per via del “necessario” ricorso alla tecnologia. Insomma, il consulente diventa sempre più un relè importante nella dinamica del rapporto con la clientela, laddove sono mancate proposte incoraggianti che sappiano affrontare la stratificazione sociale le varie differenze esistenti per fasce di età, per sesso, per grado di istruzione, per professioni svolte, per livello di alfabetizzazione maturata. In sostanza manca – al di là di una regolamentazione ben strutturata sulla trasparenza ed obblighi imposti agli intermediari – una strategia di carattere generale che sappia raccogliere le istanze delle categorie che rientrano nella classificazione degli over 60.  

Secondo lei, quanto delle trasformazioni imposte dall’alto dalla MiFID e dalla MiFID II alle reti di consulenza è stato “capito” dagli utenti? Sono in grado di notare delle differenze rispetto al periodo precedente?
Non vi è una conoscenza diretta se non per gli addetti ai lavori e per i clienti classificati come “clienti professionali”. Lo dimostra il fatto dell’ultima pubblicazione del “Rapporto sulla relazione consulente-cliente” diffusa al mercato da parte della Consob, in collaborazione con l’Università Roma Tre. Una indagine che completa le precedenti ricerche sul tema a cui si rimanda per avere un quadro delle distonie informative e conoscitive al fine di accrescere la qualità e il dialogo tra consulente e cliente.  

Relativamente ai consulenti, perchè si continua a parlare di ulteriori tagli ai margini di ricavo dei professionisti del risparmio, nonostante i tagli già avvenuti dal 2008 e i maggiori costi imposti alle banche-reti dalle due MiFID sono stati abbondantemente assorbiti dai conti economici delle società mandanti?
E’ la famosa querelle che si trascina da qualche anno, dopo l’applicazione rigida degli adempimenti regolamentari imposti dalla comunità europea e conseguentemente dal recepimento nel contesto italiano di tati direttive. L’obbligo di trasparenza sui costi complessivi in capo ai servizi di investimento ha generato l’abbattimento dei margini nelle retrocessioni per i consulenti finanziari che, essendo l’anello debole della catena distributiva, ne hanno pagato le conseguenze, subendo una riduzione sensibile dei margini di guadagno. Sul tema ebbi modo di intervenire con un mio articolo a cui rinvio per una illustrazione più analitica, che è ancora attualissima.

Un master universitario per la gestione integrata dei patrimoni. Aperto anche agli iscritti OCF

Il Master online in Consulenza Finanziaria e Patrimoniale è accessibile anche a tutti i consulenti iscritti all’OCF. “Prepararci al cambiamento, prima che il cambiamento ci colga impreparati”.

Il Consorzio Universitario Humanitas e l’Università San Raffaele di Roma, con la collaborazione di Federpromm e Patrimoni&Finanza, hanno indetto il primo Master Universitario unico per la figura professionale del “Consulente Finanziario e Patrimoniale” per l’anno accademico 2024-2025. 

L’insegnamento della consulenza finanziaria e la figura professionale del “Consulente Patrimoniale” richiedono uno specifico percorso formativo attraverso il quale fornire la necessaria visione d’insieme di una professione sempre più richiesta per affiancare le famiglie nella gestione del patrimonio.

La consulenza limitata ai soli valori mobiliari limita fortemente il livello di comprensione delle esigenze personali, familiari, aziendali, culturali e sociali presenti nella società moderna, e spesso nega al consulente finanziario – così come alle altre professioni impegnate su tematiche patrimoniali – le migliori sinergie di lavoro; in particolare nel segmento delle famiglie ben patrimonializzate, professionalmente di grande interesse ma seguite da singole individualità, non legate tra loro da alcuna forma di collaborazione, e dai canali bancari tradizionali. Pertanto, anche gli altri professionisti che intervengono a vario titolo sui temi del patrimonio – tra gli altri: avvocati, commercialisti, notai, assicuratori e agenti immobiliari – non hanno l’opportunità di avere una visione d’insieme della Consulenza Patrimoniale Integrata, l’unica capace di farli uscire dal proprio “isolamento professionale” e di aprire per loro nuovi mercati, grazie al lavoro in team con i consulenti finanziari.

In tal senso, quella del Consulente Finanziario e Patrimoniale è l’unica figura di leadership capace di “mettere in rete” la competenza di ciascuna di queste categorie professionali, trasformandole in “generatori di opportunità”. “Aver accumulato individualmente specifiche esperienze didattiche e professionali in materia di Consulenza Patrimoniale Integrata – affermano Manlio Marucci* e Alessio Cardinale**, coordinatori didattici del Master – ci ha permesso di promuovere all’interno del Consorzio Universitario Humanitas e dell’Università San Raffaele di Roma il Master Universitario di primo livello “Consulente Finanziario e Patrimoniale“, anticipando così la domanda formativa che nei prossimi anni arriverà da parte degli iscritti ad alcune categorie professionali in fase di profonda e rapida trasformazione, come quella del consulente finanziario“.

Formazione

Il Master, presieduto dal prof. Francesco Saverio Marucci,  promuove l’insegnamento di discipline specialistiche fondamentali, tra le quali:
– Pianificazione Finanziaria e Patrimoniale,
– Finanza Comportamentale,
– Educazione Finanziaria,
– Rischi patrimoniali e gestionali,
– Strumenti di protezione patrimoniale dall’aggressione di terzi,
– Trasmissione del patrimonio inter vivos e mortis causa,
– Investimento, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare,
– Gestione del patrimonio in strumenti di investimento alternativi.

Tutti i partecipanti al Master frequenteranno un calendario di lezioni fruibili in diretta su piattaforma Zoom (modalità FAD asincrona/sincrona), dalla durata complessiva di 1.500 ore tra lezioni, project work, prove di verifica, studio individuale, tirocinio (online e/o presenza) ed esercitazioni con prova finale. Alla fine del percorso di formazione, il Consorzio Universitario Humanitas e l’Università San Raffaele di Roma rilasceranno a ciascun partecipante un diploma di master universitario di primo livello

Per qualunque richiesta di informazione e contatto, potrete collegarvi alla pagina dedicata del Consorzio Universitario Humanitas. Da lì potrete iscrivervi e scaricare il programma del Master.

* Docente, Presidente Federpromm – Wealt Management, Giornalista 
** Wealth Management, Consulente Finanziario e Patrimoniale, Direttore ed editore
di Patrimoni &Finanza 

Otto anni di strategie per l’educazione finanziaria: grandi kermesse, risultati impercettibili

Senza l’introduzione dell’educazione finanziaria come materia curriculare nelle scuole primarie e secondarie, gli italiani continueranno ad essere “finanziariamente ineducati” di generazione in generazione.

Con il decreto-legge del 23 dicembre 2016, n. 237, convertito nella legge del 17 febbraio 2017, n. 15 (“Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio”), quasi otto anni fa prendeva il via la strategia nazionale per l’educazione finanziaria. Si trattava, nelle intenzioni di chi l’aveva concepita, di una iniziativa che, negli anni successivi, avrebbe dovuto contribuire a colmare il divario culturale che divide l’Italia – come in altri ambiti – dai paesi più virtuosi.

In particolare, tutti gli studi effettuati sul tema specifico restituivano uno scenario in cui gli utenti italiani erano poco avvezzi, da adulti, all’autonomia nelle scelte di investimento poiché i programmi scolastici delle scuole primarie e superiori, fin dai loro tempi, avevano scartato sistematicamente qualunque approccio verso l’educazione finanziaria. In più, negli ultimi trent’anni anche insegnamenti fondamentali come l’educazione civica erano stati declassati ad argomenti complementari di altre materie ritenute a torto più importanti o eliminati del tutto dai programmi; per cui, figuriamoci se i giovanissimi studenti italiani potevano essere annoiati da simili argomenti così scabrosi come la Finanza. E mentre oggi si farnetica di “educazione sentimentale” nelle scuole – ultimo grido del politicamente corretto che sta ammorbando la vita di tutti – in Cina, per fare esempio un po’ esotico di virtuosità scolastico, i primi rudimenti di economia e finanza vengono impartiti dall’età di otto anni, ed in molti paesi di lingua anglosassone a partire dai dieci.

Ma veniamo al punto: quali sono i risultati di questa campagna culturale governativa che avrebbe dovuto fare dell’educazione finanziaria uno degli insegnamenti più innovativi e “rinnovativi” da introdurre nelle scuole? Scarsi, quasi impercettibili. Dal di fuori, gli addetti ai lavori hanno la sensazione che ci si stia dando un gran da fare, ma se parliamo di finanza ai diretti interessati, ossia i risparmiatori, 99 su 100 di loro spalancano ancora la bocca e non sanno come argomentare.

Questo non deve sorprenderci più di tanto, poiché una sola kermesse nazionale (il “Mese dell’educazione finanziaria“, solitamente ad Ottobre di ogni anno), per quanto lodevole e piena di buone intenzioni, è un po’ come il festival di Sanremo: una volta terminato, se ne parla per qualche giorno e poi ne rimane solo il ricordo, in attesa della edizione successiva, mentre i protagonisti della competizione canora organizzano i propri impegni nelle lucrose tournee estive e nelle comparsate televisive invernali. Occorrerebbe maggiore continuità, una “spinta culturale” che l’attuale assetto delle iniziative non riesce a dare.

Dopo quasi otto anni, pertanto, ci troviamo praticamente punto e accapo, con un livello di analfabetismo finanziario ancora molto elevato, una finanza sempre più incomprensibile per l’utenza comune, presso la quale però si pretende di diffondere quanto di più tecnologico si sia prodotto negli ultimi quindici anni: home banking, robo-advisor, fintech e piattaforme web. Per chi ha un’età superiore a 60 anni, complice anche la “desertificazione bancaria” (chiusura degli sportelli bancari nelle città e nei piccoli centri) in corso, tutto è diventato improvvisamente incomprensibile, con un abbrivio da record negli ultimi due anni.

Viene spontaneo chiedersi se il sistema bancario si sia mai chiesto se sono proprio questi i fattori per cui, di fronte alla comprensibile ritrosia al cambiamento rapido di chi detiene la maggior parte degli asset mobiliari (i c.d. babyboomers o patrimonials), il denaro che gli italiani detengono nei conti correnti sia ancora così elevato, nonostante l’inflazione degli ultimi due anni e mezzo. La risposta è no: il sistema non se lo chiede, ed anzi sembra mandare a dire, a questi milioni di over-60, che è dotato di grande pazienza, ed aspetta che siano i loro figli – i millennials, tecnologicamente molto più avanzati – a prendere le redini dei valori mobiliari di famiglia. In fondo, aspettare una decina d’anni è sempre meglio che investire miliardi di euro in cultura finanziaria per educare chi sta passando il testimone.

E-book sulla Finanza Elementare.

Eppure, notevoli sarebbero stati, in questi otto anni, i benefici “indiretti” dell’educazione finanziaria curriculare nelle scuole, nella misura in cui anche gli stessi figli avrebbero potuto trasmettere ai genitori, in un processo di comunicazione dal basso verso l’alto, una maggiore attenzione ai temi della finanza. Come? E’ semplice, attraverso i normali compiti di cura: aiutare i propri figli nei compiti a casa sul tema della finanza avrebbe potuto trasmettere anche agli adulti molti concetti e fenomeni economici che, nella maggior parte dei casi, si conoscono ma non si sanno spiegare per via del tasso di “ineducazione finanziaria”.

Inoltre, nulla di concreto – salvo l’iniziativa di pochi lodevoli volenterosi organizzati in associazione – si è fatto per dare dignità al ruolo di educatore finanziario più prossimo alle famiglie svolto da sempre dai consulenti finanziari, i quali avrebbero potuto colmare giusto a partire dalle scuole un vuoto culturale molto grande in un lasso di tempo molto breve, affiancandosi ai docenti in lezioni programmate a cui gli alunni (anche delle medie inferiori) avrebbero potuto partecipare con il giusto coinvolgimento delle famiglie.

“…l’arrivo della MiFID II, con il suo carico di migliaia di norme ai più incomprensibili, rischia di rivelarsi sterile, confermando una legge scolpita nella Storia: a nulla vale aumentare e perfezionare i sistemi di controllo sull’attività degli intermediari se poi, parallelamente, non si fa nulla per aumentare la competenza degli utenti”. Ci scoccia dire che avevamo ragione, almeno fino ad oggi. Anche perchè, date le circostanze tutt’altro che promettenti, darsi delle arie in questo caso lascerebbe l’amaro in bocca.

La pianificazione della Longevity e le relazioni affettive: legati e forme testamentarie

Per il consulente patrimoniale il supporto ai clienti nella programmazione del “dopo di noi” rientra sempre più spesso nel proprio ruolo di impulso alla soluzione di aspetti delicati della sfera familiare.

La pianificazione della Longevity potrebbe riservare una particolare attenzione a quelle relazioni affettive che, pur non essendo legati da vincoli di parentela e non trovando così immediata previsione nella legge, sono ugualmente importanti – a volte più importanti di tante relazioni strettamente parentali – poiché generati da una stabile convivenza o da fraterna amicizia. Non sono rare, infatti, le disposizioni testamentarie che prevedono lasciti (c.d. legati) a favore di persone estranee alla famiglia di origine ma che si sono distinte nel lungo periodo per amore, affetto o amicizia incondizionata verso il testatore.

In estrema sintesi, un legato testamentario esprime la volontà di un individuo di assegnare, per mezzo del testamento, alcuni beni o denaro o altre utilità economiche (es. crediti verso terzi, rendite alimentari a tempo determinato/indeterminato) a specifici soggetti. Con un legato, il testatore può destinare gioielli, proprietà immobiliari, singole opere d’arte o intere collezioni, somme di denaro e persino intere aziende a individui che intende favorire in maniera particolare. la differenza tra l’eredità in senso stretto e il legato risiede nel fatto che la prima prevede il trasferimento dell’intero patrimonio (o frazione di esso) agli eredi, i quali assumono sia i diritti che gli obblighi del de cuius, ivi compresi i debiti; mentre il secondo consente di assegnare beni o altri diritti senza che il beneficiario del legato sia tenuto a farsi carico dei debiti afferenti l’asse ereditario.

Il legato, in pratica, ha notevole similitudine con una polizza vita con designazione dei beneficiari, i quali ricevono il denaro “superando” di norma (anche se non puntualmente) le regole e le lungaggini della successione. Del resto, come per le polizze, quando un legato concerne la proprietà di un bene individuato con precisione o un diritto reale, il trasferimento di tali beni al beneficiario (c.d. legatario) avviene automaticamente all’atto della morte del testatore. Il legatario, quindi, diventa immediatamente proprietario dei beni assegnati anche se non è a conoscenza dell’esistenza del legato stesso, e ha diritto di entrarne in possesso a meno che non rinunci espressamente per via di eventuali svantaggi o oneri associati a quei beni (es. ristrutturazione urgente di un immobile oggetto del legato per evitare danni a terzi).

Se il testatore ha redatto il testamento in modo attento, l’esistenza del legato non potrà ledere i diritti degli eredi in nessun modo. Può accadere, tuttavia, che la previsione di un legato e soprattutto il suo valore economico possano rivelarsi lesivi della quota di legittima riservata ai legittimari (coniuge, figli e, in mancanza dei secondi, i nipoti in linea retta). In questi casi, il legato potrebbe essere impugnato dai legittimari con l’azione di riduzione, volta a riportare la quota di legittima al suo valore di legge e a ridurre il legato dell’equivalente differenza.

Ma se il legato testamentario rappresenta comunque un meno frequente e tipico dei patrimoni più ingenti, maggiore attenzione va dedicata alla pianificazione della Longevity per tutte quelle famiglie che sono state in qualche modo disgregate da separazioni e divorzi – in netto aumento anche in età già matura – e che, all’atto della morte del testatore, presentano caratteristiche disomogenee e nuovi nuclei familiari, che spesso non sono formalizzati attraverso un matrimonio ma da una stabile convivenza. Infatti, chi divorzia in età matura ragionevolmente potrebbe non sopravvivere al nuovo convivente, e questi potrebbe non ricevere alcuna tutela alla sua morte. Inoltre, particolare attenzione alla pianificazione deve essere prestata da qualunque professionista – e dal diretto interessato – a coloro che vivono la separazione ma non sono ancora approdati al divorzio, poiché in quel caso proprio il divorzio diventa il primo passo fondamentale per eliminare l’ex coniuge dal novero dei legittimari e programmare la Longevity con maggiore serenità.

Il convivente superstite, alla morte del proprio compagno non ancora divorziato, potrebbe rimanere nella di lui casa di proprietà per poco tempo (due o tre anni al massimo). Ma c’è di più: anche in caso di divorzio il convivente non ha alcun diritto successorio, nemmeno nel caso la convivenza sia di lunghissima data e fosse padre o madre di un figlio sopraggiunto. Pertanto, la prima cosa da fare per proteggere i nuovi affetti è un testamento, che si potrà cancellare o modificare in qualsiasi momento e sarà l’unico modo per poter disporre una parte delle proprie sostanze a favore anche di persone non legittimarie facendo leva sulla cosiddetta quota disponibile, ossia la percentuale del proprio patrimonio, variabile a seconda del numero di eredi necessari (da un quarto a metà della massa ereditaria), che può essere destinata a chiunque non faccia parte della propria linea parentale, come un convivente.

La redazione di un testamento, nonostante consenta di risolvere parecchi problemi a chi resta dopo di noi, è una precauzione ancora troppo poco utilizzata in Italia, con percentuali bassissime. E se è vero che al testamento è associata la “complicanza” di dover richiedere il supporto di un professionista (notaio, avvocato), tutti dovrebbero sapere che esiste anche il Testamento olografo, e cioè quello scritto e tenuto privatamente, alla portata di tutti. E’ sufficiente – ma non sicuro nè efficace, dato l’alto rischio di occultamento o manomissione –  scrivere questo tipo di testamento a mano, datarlo e firmarlo. Il Testamento pubblico, invece, viene scritto dal testatore presso un notaio alla presenza di due testimoni, registrato e inviato all’Archivio Notarile.

Altra cosa è il Testamento segreto, che viene scritto privatamente (anche al computer) e firmato dal testatore, ma viene sigillato e consegnato a un notaio. Tale forma testamentaria –usata molto raramente – è diversa dal testamento olografo, poiché dà al testatore la garanzia che il suo testamento non verrà mai smarrito, distrutto o falsificato da terzi soggetti. In più, dal momento che deve essere consegnato ad un notaio in presenza di due testimoni, esso è l’unico in grado di garantire la totale segretezza delle disposizioni testamentarie, in quanto né il notaio né i testimoni vengono a conoscenza delle stesse, diversamente da ciò che accade per il testamento pubblico. Il testamento segreto può essere consegnato al notaio già sigillato, ma le numerose formalità di questa particolare modalità testamentaria quasi impongono l’ausilio del notaio anche per l’apposizione del sigillo e soprattutto per la redazione del verbale di consegna, sottoscritto sia dal testatore che dai due testimoni.

In definitiva, per il consulente patrimoniale il supporto ai clienti nella programmazione del “dopo di noi” rientra sempre più spesso nel proprio ruolo di impulso alla soluzione di aspetti delicati della sfera familiare. Dialogare con il capofamiglia su questi temi non può che aumentare il grado di fiducia e di reputazione professionale che, oggettivamente, la gestione dei soli valori mobiliari non potrà mai dare. Per farlo, serve ampliare il proprio universo di conoscenze e competenze mediante il confronto costante con gli altri professionisti del patrimonio (avvocati e commercialisti, in primis), in modo tale da non delegare semplicemente la gestione del “cliente inviato” ad altri soggetti e sedersi attorno allo stesso tavolo per delineare le migliori strategia di tutela e pianificazione del patrimonio.

Mercati, vola l’asset dei servizi di consulenza ESG

Supererà i 48 miliardi di dollari di valore entro il 2028 (+27%) il mercato globale dei servizi di consulenza per le organizzazioni in ambito ESG e di sostenibilità.

Secondo quanto svelato da un rapporto di Verdantix, la domanda delle aziende per i servizi di consulenza ESG e di sostenibilità è cresciuta notevolmente negli ultimi due anni sulla spinta di diversi fattori. Hanno influito le normative internazionali in materia di rendicontazione delle prestazioni in ambito ESG (in senso restrittivo e di maggior trasparenza) e la pressione sempre più forte esercitata da consumatori e investitori oltre al rischio crescente d’incorrere in contenziosi con danni alla reputazione aziendale.

Grazie a questi due fattori, il mercato globale dei servizi di consulenza per le organizzazioni in ambito ESG e di sostenibilità entro il 2028 arriverà a superare i 48 miliardi di dollari di valutazione, con un tasso annuo di crescita composto del 27%. L’analisi rileva che il mercato è cresciuto notevolmente negli ultimi due anni, in termini di domanda della clientela aziendale e numero di società di consulenza attive, facendo registrare nel corso del 2023 un fatturato complessivo di 14 miliardi di dollari. In particolare, a spingere il trend di crescita ha contribuito molto la più stringente regolamentazione delle prestazioni in ambito ESG, che ha costretto le organizzazioni ad adattarsi ai nuovi requisiti di conformità onde evitare di dover subire gli effetti negativi derivanti da eventuali rischi di contenziosi e cause miliardarie per il c.d. greenwashing. Inoltre, anche la crescente pressione esercitata sulle aziende da parte di consumatori, opinione pubblica e investitori, che obbliga le aziende a dimostrare l’impegno costante e reale nei confronti dell’ambiente e della responsabilità sociale, ha contribuito a consolidare il trend di crescita.

Ci sono poi le ricadute sul lato finanziario con gli investitori istituzionali e i gestori patrimoniali di fondi sostenibili, che incorporano sempre più spesso i criteri ESG nelle decisioni d’investimento, e anche i membri dei consigli d’amministrazione analizzano più attentamente l’impatto reale delle prestazioni ESG dell’organizzazione. La consulenza in materia di ambiente e sostenibilità svolge dunque un ruolo sempre più centrale nell’affrontare le crescenti sfide globali e i consulenti in questo campo devono essere al corrente delle costanti evoluzioni delle normative ESG nazionali e internazionali, oltre a saper analizzare, sfruttare e valorizzare i dati generati in questo campo, consigliando in modo ottimale le decisioni operative e di investimento che le aziende devono prendere.

Una delle chiavi che contribuiscono a dare valore alla consulenza aziendale in ambito ESG è rappresentata da un approccio scientifico, basato su un’attenta analisi dei dati anche grazie al supporto degli innovativi supporti digitali. L’Italia è pioniera in questo campo grazie ad aziende come ARB SB (Verona), leader nella realizzazione di progetti e strategie di sviluppo sostenibile in grado di rispettare appieno i criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) e i 17 principi delle Nazioni Unite contenuti nell’Agenda 2030 (SDGs).

Uno dei problemi più attuali che si trovano a dover affrontare le società attive nel mercato dei servizi di consulenza in ambito ESG riguarda la mancanza di un parametro univoco, internazionalmente riconosciuto, di valutazione e misurazione del livello di sostenibilità di un’azienda, basato sull’unione degli strumenti analitici, senza che siano presi in considerazione separatamente. Da qui la nascita di SI Rating, l’algoritmo sviluppato da ARB SB in collaborazione con SASB, Sustainability accounting standard board, organizzazione senza scopo di lucro, riferimento mondiale per l’analisi dei rischi finanziari ESG che permette alle aziende, di ogni settore e dimensione, di poter misurare, monitorare e comunicare le performance di sostenibilità e ESG, individuando rischi e opportunità.