Maggio 18, 2025
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Mercati contrastati sui dazi di Trump, ma cresce l’ottimismo. L’azionario cinese è una opportunità

La Fed tiene i tassi invariati ma i colloqui positivi tra Cina e Stati Uniti abbassano i timori di inflazione. Azionario cinese molto promettente (dazi premettendo).

La Federal Reserve, in occasione dell’ultima riunione, ha mantenuto i tassi d’interesse fermi al 4,25%-4,50% e ha avvertito che i crescenti rischi legati a inflazione e disoccupazione, alimentati dalle imprevedibili politiche sui dazi del presidente Trump, stanno offuscando le prospettive economiche degli Stati Uniti. Il presidente Jerome Powell ha riconosciuto la profonda incertezza, dichiarando che la Fed si trova, di fatto, in una fase di stallo, in attesa di chiarire l’impatto delle tensioni commerciali.

Venerdì scorso il presidente Trump aveva scosso i mercati, ipotizzando un dazio dell’80% sulle merci cinesi, a pochi giorni dai cruciali colloqui commerciali in Svizzera del fine settimana appena concluso. In particolare, indicando che un dazio dell’80% sulle merci cinesi “sembra adeguato”, aveva lasciato intravedere una possibile apertura dopo aver precedentemente portato i dazi al 145%, sebbene la proposta restasse elevata e potrebbe continuare a pesare sui rapporti commerciali. L’incontro di Ginevra tra Stati Uniti e Cina pare essere cominciato con il piede giusto, poichè Donald Trump ha annunciato un “reset totale” nelle relazioni commerciali tra i due paesi. In un post pubblicato sulla piattaforma Truth, Trump ha elogiato l’andamento dei negoziati, definendoli “ottimi” e dichiarando che si è trattato di un “totale reset negoziato in modo amichevole, ma costruttivo”.

C’è da dire che di fronte alla imprevedibilità di Trump sulle politiche commerciali imprevedibili di Donald Trump e ad una possibile recessione degli Stati uniti, sempre più investitori internazionali hanno iniziato a guardare maggiormente all’Asia e, in particolare, alla Cina, che si sta consolidando sempre di più come pilastro di stabilità. Eppure, appena un anno fa proprio la Cina sembrava un’economia nella quale investire era considerato incauto, con un mercato azionario zavorrato dalla gravissima crisi del settore immobiliare. Oggi, invece, molte banche internazionali danno un rating buy sull’azionario cinese, innalzando le aspettative sui rendimenti per la fine dell’anno tra il 10% e il 15%. 

I motivi di una simile variazione di scenario sono diversi. Innanzitutto, la Cina gode di una ritrovata credibilità generata dai piani di stimolo economico, monetario e fiscale strumentali al supporto delle banche, del settore immobiliare e dei consumi interni. Il presidente Xi Jinping ha anche annunciato la sua intenzione di voler sostenere il settore privato, facendo sì che le prospettive di crescita del Pil si mantengano robuste (+5,5%) e al di sopra dei target governativi. Inoltre, la Cina è riuscita ad affermarsi prepotentemente come un player di primo piano del settore Tech, soprattutto in segmenti chiave quali l’intelligenza artificiale, le auto elettriche, la robotica, i droni e i pannelli solari, con le aziende locali riconosciute come possibili competitor delle grandi aziende americane degli stessi comparti. Infine, l’azionario cinese appare piuttosto sottostimato, con il P/E ratio dell’indice MSCI China a 12,5 e con una crescita degli utili tra il 7% e l’8%.

Su questo scenario, naturalmente, pesa la questione dei dazi imposti da Trump, ma anche in caso di insuccesso dei colloqui di Ginevra è molto probabile che Pechino aumenterà gli stimoli fiscali a supporto della crescita e le cooperazioni con altre aree del mondo per assicurarsi sbocchi commerciali alternativi e privi di dazi.

Le borse europee venerdì hanno mostrato un deciso entusiasmo per l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito, in particolare per la promessa britannica di ridurre le barriere non tariffarie, ovvero quegli ostacoli normativi che da anni limitano la concorrenza straniera. In cambio di un dazio del 10% sui beni britannici, il governo del Regno Unito si è impegnato a semplificare le procedure doganali e ad allentare le restrizioni su importazioni agricole, industriali ed energetiche. Pur offrendo un vantaggio agli esportatori statunitensi, secondo molti economisti il vero vincitore sarebbe il Regno Unito: minori ostacoli al commercio potrebbero stimolare crescita, investimenti e dinamismo imprenditoriale in un’economia in difficoltà.

Nell’Unione Europea, l’economia tedesca continua ad essere fonte di preoccupazione per via dello stallo in cui è caduta negli ultimi 12 mesi. Il nuovo ministro dell’Economia, Katherina Reiche, ha invocato un cambio di passo deciso verso investimenti infrastrutturali rapidi e una maggiore propensione al rischio, per rilanciare l’economia. Intervenendo al vertice di Tegernsee, Reiche ha presentato una strategia incentrata su investimenti pubblico-privati nei settori dell’energia, dei trasporti e delle reti digitali, sottolineando che il 90% dei fondi dovrà provenire da capitali privati.

 

 

Divide et Impera atto II: la portata strategica della visita di JD Vance in Italia e India

La visita di Vance dell’aprile scorso in Italia e India non è stata un semplice viaggio diplomatico, ma una mossa studiata per riallineare gli equilibri globali.

di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

In tema di dinamiche geopoliche globali, occorre analizzare in profondità lo “strano viaggio” di Vance dell’aprile scorso, in Italia e India.  Tale visita, infatti, incarna la dottrina imperiale anglosassone del “divide et impera“, ed è quindi finalizzata a dividere blocchi rivali e rafforzare l’influenza americana in Europa e in Asia. Un pò come il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo, rispettivamente tra Vance e Trump. Vediamo perchè questa trasferta, passata sottotraccia, è di estremo interesse.
 
Ufficialmente, l’agenda pubblica parlava di “rafforzamento dei legami tra le democrazie più grandi del mondo”, ma alcuni osservatori hanno presto letto nella missione un segnale più profondo, e cioè il tentativo da parte dell’amministrazione Trump di ripristinare una leadership americana efficace attraverso la divisione selettiva di blocchi rivali. Non a caso l’Italia, anello debole dell’UE, e l’India, potenza ambivalente ancora in bilico tra BRICS e Occidente, sono state le uniche due tappe scelte.
 
Italia tra Atlantismo e ambiguità strategica
Storicamente, l’Italia è stata terreno di confronto tra potenze esterne. È ormai assodato che, durante la Guerra Fredda, la CIA finanziò la Democrazia Cristiana contro il PCI per non fare entrare quest’ultimo nel governo già dalle elezioni del 1948; mentre, negli anni successivi, operazioni clandestine come Gladio cercavano di scongiurare l’ascesa della sinistra. Episodi chiave come l’assassinio di Aldo Moro (1978) è iscrivibile nella stessa finalità volta a scongiurare il compromesso storico, mentre lo scontro di Sigonella (1985) con gli Stati Uniti mostrano quanto il controllo dell’Italia fosse ritenuto cruciale. La caduta di Craxi e l’implosione della Prima Repubblica, Mani Pulite etc , sono letti da alcuni come esiti di una riconfigurazione post-Guerra Fredda, e dimostrano ancora una volta che in Italia non si governa senza il placet degli USA.
 
Con Giorgia Meloni, leader sovranista e pragmatica, l’Italia ha assunto un doppio ruolo: partner atlantico  ma interlocutore apparentemente allineato rispetto alle posizioni ufficiali dell’UE. La visita di Vance a Roma ha rafforzato la percezione di questa ambiguità. Nonostante Meloni rappresentasse l’Europa nei colloqui con Trump, è stata poi esclusa dalla delegazione dei “volenterosi” europei convocata da Zelensky: segnale che Bruxelles e Parigi non si fidano pienamente della posizione italiana, vista come troppo legata a Washington. L’Italia oggi è oggi corteggiata dagli USA per rompere le convergenze europee sul piano commerciale e strategico, e Roma tenta di trarre vantaggio da questo ruolo ambivalente.
 
L’India tra equilibri multipolari e sovranità economica
Il caso dell’India è ancor più emblematico. Da un lato, Delhi partecipa al Quad (con USA, Giappone e Australia), firma accordi di difesa (come il BECA con Washington) e rafforza la cooperazione su semiconduttori e cybersicurezza; dall’altro resta legata a Mosca, da cui importa armamenti (come i sistemi S-400) e greggio a basso costo. Nel 2024 la Russia è infatti diventata il primo fornitore di petrolio dell’India (circa 2 milioni di barili al giorno), e l’India ha evitato sanzioni pur mantenendo una narrativa di “neutralità attiva”. Durante la visita di Vance, sono stati raggiunti impegni cruciali: roadmap verso un accordo di libero scambio da 500 miliardi di dollari entro il 2030, collaborazione su difesa e tecnologia, sospensione temporanea dei maxi-dazi statunitensi. Ma è l’approccio bilaterale – fuori dai consessi multilaterali – a colpire: Washington tratta direttamente con Delhi aggirando il WTO o altre sedi ufficiali, mostrando quanto l’India sia considerata una pedina centrale nel contenimento dell’asse alternativo Cina e Russia.
 
La crisi nel Kashmir: prima conseguenza strategica
A pochi giorni dalla visita di Vance, è esplosa una nuova crisi nel Kashmir tra India e Pakistan. Sebbene legata a tensioni storiche, il tempismo lascia spazio a letture strategiche. La Cina, partner del Pakistan, ha difeso Islamabad con mezzi militari e diplomatici: i jet J-10 forniti da Pechino sono stati utilizzati in azioni belliche a difesa del Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC) che attraversa i territori contesi, irritando Delhi (che con i suoi Raphael Francesi,

caccia ancora di 4 generazioni acquistati ad un prezzo altissimo, ha forse capito di non essere proprio pronta ad un confronto armato…). Gli USA, invece, hanno mantenuto un profilo basso, pur ribadendo in dichiarazioni pubbliche l’importanza della de-escalation. La loro attenzione è chiaramente rivolta a consolidare l’intesa con Modi e a spingere l’India verso il fronte anti-cinese. In questo contesto, il conflitto regionale può diventare un banco di prova per la fedeltà indiana e per il nuovo assetto globale. Non a caso Modi ha avuto altri impegni per non partecipare alla parata per la vittoria svoltasi a Mosca.
 
L’eco di una strategia imperiale
Il viaggio di Vance non ha quindi prodotto solo accordi economici e dichiarazioni congiunte: ha riattivato dinamiche di pressione selettiva e bilanciamento che riecheggiano modelli storici di gestione geopolitica . L’Italia, da ponte fragile tra UE e USA, e l’India, da mediatore tra blocchi rivali, rappresentano per Washington strumenti fondamentali per contenere il rafforzamento dell’asse sino-russo e dell’Europa unita. Le crisi emerse subito dopo – come il conflitto indo-pakistano – sono la cartina al tornasole delle tensioni che questa politica inevitabilmente genera. Ma per gli Stati Uniti sono i passi fondamentali per continuare a plasmare il disordine globale secondo i propri interessi.

La Questione Europea, parte III: la verità è nei dettagli

In politica, il potere gioca su più livelli e ciò che ci viene raccontato è solo lo strato superficiale di qualcosa di più profondo. La verità assoluta sembra quindi irraggiungibile, a meno che non si indaghi sui dettagli.

Di Alessio Cardinale, CEO e direttore editoriale di Patrimoni&Finanza

La verità sui fatti storici e sulle scelte che li hanno determinati non è reperibile dai titoli dei giornali né dai discorsi ufficiali dei protagonisti delle Istituzioni. Essa si annida nei dettagli, nei collegamenti tra gli eventi e nelle dinamiche che pochi hanno la capacità (e la voglia) di approfondire. In più, la ricerca della verità storica è fortemente condizionata da due fattori, e cioè dalla volontà politica di camuffarla e dal tempo: più siamo vicini temporalmente all’accadimento di quei fatti su cui si intende indagare, più è difficile individuare i segreti obiettivi che hanno determinato certe scelte; più ci allontaniamo con il tempo dal momento in cui i fatti si sono verificati, più chiari sono i motivi che hanno spinto i “decisori” di quel tempo a preferire alcune scelte ad altre che erano in teoria più utili e sostenibili.

La verità assoluta è sempre complessa e irraggiungibile, poichè il potere gioca su più livelli e spesso ciò che appare evidente è solo lo strato superficiale di qualcosa di più profondo. Per avvicinarci alla verità, è fondamentale mettere insieme i pezzi, individuare le connessioni che non vengono mai evidenziate dai media e lavorare sui dettagli più piccoli, che sfuggono all’osservazione perché in apparenza insignificanti. La ricerca della verità è, pertanto, un esercizio di riflessione, di attenzione ai dettagli e soprattutto di logica; logica storica, in particolare, che ci viene in aiuto quando tutte le false ipotesi legate alla narrazione ufficiale cadono una ad una e lasciano aperte, al massimo, solo una o due possibilità, spesso complementari e intrecciate tra loro, ma sicuramente plausibili. Sempre più spesso, infatti, sono i risultati storici susseguenti a certe scelte a suggerire la verità dei “perché” (quelle stesse scelte sono state fatte), lasciando coperta spesso la verità dei “chi” (quelle stesse scelte ha fortemente voluto). Così analizzando i fatti, i dettagli trovano miracolosamente una loro collocazione, come in un puzzle dalle tessere mancanti, e tutto nel tempo diventa più chiaro.

Per esempio, in tema di dettagli nessuno ha mai fatto notare l’assurda decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro, preferendo ad esse le monete. Eppure, fino al giorno prima in Italia circolavano banconote da 1.000, 2.000 e 5.000 Lire. Con le “milline” ci pagavi il parcheggiatore abusivo, oppure una pizzetta, un cono gelato, un uovo Kinder, 4 bustine di figurine Panini, le Big Babol, una lattina di Coca-Cola, un Mars, un tubetto di Smarties; con le 2.000 lire cappuccino e cornetto, tra le altre cose; con le 5.000 lire mettevi la miscela nel motorino e ci camminavi una settimana, tanto per dire. Insomma, a livello reale (potere d’acquisto) e cognitivo, l’uso delle banconote di quel valore era legato indissolubilmente all’acquisto di beni di largo consumo per i quali, dopo sole sei settimane dell’ingresso in circolazione delle “monetine”, ci volle esattamente il doppio.

Non c’è dubbio, quindi, che questo “dettaglio” delle monetine, passato del tutto inosservato – anzi, tutti felici a comprare i porta-euro da tasca – sia stato la causa di numerose distorsioni cognitive nei cittadini sul reale valore dell’euro e, soprattutto in Italia, abbia causato un aumento dei prezzi al consumo indotto, per così dire, da queste distorsioni e da chi se n’è approfittato. La domanda vera è: le neonate autorità europee e, soprattutto, i c.d. tecnici che “fabbricano” le decisioni, erano al corrente di questa possibilità e hanno clamorosamente fallito, oppure è sbagliata l’interpretazione a posteriori del dettaglio? Secondo gli economisti più accreditati, il passaggio dalla lira all’euro ha creato diverse distorsioni percettive, e la decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro ha sicuramente giocato un ruolo in questo processo. Infatti, le neuroscienze e la psicologia economica dimostrano che il formato della valuta influenza la percezione del suo valore. In altre parole, le persone tendono a spendere più facilmente le monete rispetto alle banconote perché le prime sono percepite come “spiccioli”, quindi di minor valore. E così, quando l’euro entrò in circolazione nel 2002, molti beni di uso quotidiano (caffè, giornali, pane, ecc.) che prima costavano l’equivalente di 500 o 1000 lire furono arrotondati a 1 euro o più. Questo fenomeno – noto come “inflazione non percepita” – si deve in parte proprio al fatto che 1 e 2 euro erano monete e non banconote, rendendo gli aumenti meno evidenti e più facilmente accettabili dai consumatori.

L’UE era consapevole di questo effetto? È difficile pensare che economisti e tecnocrati di Bruxelles non fossero a conoscenza di queste dinamiche psicologiche dei consumi. Alcuni studi sul comportamento dei consumatori avevano già evidenziato il cosiddetto “effetto soglia“, per cui le persone sono meno sensibili agli aumenti quando il mezzo di pagamento è meno “pesante” psicologicamente. Inoltre, già durante la transizione all’euro, si parlava del rischio che gli esercenti approfittassero dell’arrotondamento per far salire i prezzi, cosa che poi è effettivamente successa in diversi Paesi; ma soprattutto in Italia, dove la lira aveva valori nominali molto più alti e il cambio con l’euro era particolarmente sfavorevole (1 euro = 1936,27 lire).

Tuttavia, non ci fu una vera strategia europea per contenere questi effetti. L’UE , notoriamente “asfissiante” sulle politiche di controllo della finanza dell’Unione, lasciò ai singoli Stati la gestione della transizione, e in Italia mancò un controllo efficace sui prezzi. In Germania e Francia, per esempio, ci furono campagne informative più forti e maggiori controlli sui rincari. Fu errore o scelta deliberata? Qui sta il punto cruciale: se fosse stato un errore, l’UE avrebbe dovuto correggerlo negli anni successivi, magari introducendo banconote da 1 e 2 euro per mitigare l’effetto percettivo. Se fosse stata una scelta deliberata, allora si potrebbe ipotizzare che l’inflazione indotta fosse considerata un effetto collaterale accettabile, o addirittura utile per accelerare l’adattamento all’euro e ridurre il valore reale dei salari senza doverlo fare con riforme impopolari. Difficile avere una prova definitiva, ma il fatto che l’UE non sia mai intervenuta per correggere questa distorsione fa pensare che fosse almeno un effetto previsto, se non proprio desiderato. E questo ce lo dice la logica “storica” usata per arrivare alla verità rivelata da un semplice dettaglio.

C’era una strategia più ampia dietro? In molti sapevano, e il non aver voluto riparare all’errore, anche a posteriori, fa pensare ad una regia dietro, che tramava per indebolire l’Italia, che allora era la sesta potenza mondiale, con una strategia di lungo termine, e il ruolo odierno dell’Italia nello scacchiere internazionale ne sarebbe la prova. Questa verità, che nel 2000 sarebbe apparsa come frutto di complottismo e forse sarebbe stata derisa, oggi rivela tutta la sua forza e le sue solide basi logiche. L’Italia, prima dell’introduzione dell’euro, era una delle principali potenze industriali del mondo, con un settore manifatturiero tra i più forti a livello globale e una capacità produttiva che faceva concorrenza diretta a Germania e Francia. Il declino relativo dell’Italia negli ultimi vent’anni potrebbe quindi non essere stato solo il risultato di errori interni, ma anche di un progetto più ampio.

Tutto questo, però, andrebbe provato con elementi che supportano l’ipotesi. Eccone alcuni:
1. il tasso di conversione della lira fu fissato a 1936,27 lire per un euro, un valore che molti economisti ritenevano sopravvalutato. Questo rese le esportazioni italiane più costose rispetto a quelle tedesche, penalizzando la competitività dell’industria italiana. La Germania, invece, beneficiò di un euro “debole” rispetto al vecchio marco, favorendo il suo surplus commerciale;
2. l’Italia è stata tra i Paesi più penalizzati dalle rigide regole di bilancio dell’UE (Patto di Stabilità e Fiscal Compact), che hanno impedito investimenti pubblici e ridotto la capacità di crescita del Paese. La Germania, nel frattempo, violò gli stessi vincoli nel periodo della riunificazione senza subire conseguenze;

3. molte grandi aziende italiane sono state acquisite da gruppi stranieri (Fiat ha spostato la sede nei Paesi Bassi, Pirelli è passata ai cinesi, Parmalat ai francesi, ecc.). Settori chiave come l’energia e le telecomunicazioni hanno subito pressioni politiche e finanziarie per essere ridimensionati o venduti. L’Italia è passata dall’essere una potenza manifatturiera a un Paese con un’economia sempre più basata su servizi e turismo, con meno peso strategico;
4. la speculazione contro i titoli di Stato italiani (crisi dello spread 2011) ha mostrato quanto facilmente l’Italia potesse essere messa sotto pressione dai mercati, con un’azione che favorì il cambio di governo. I governi tecnici e le riforme imposte dall’esterno hanno ridotto lo spazio di manovra politica, consolidando la dipendenza dell’Italia da Bruxelles e dalla BCE.

Questi dettagli, tuttavia, non spiegano il movente: perché indebolire l’Italia? E’ presto detto. Se l’Italia avesse mantenuto la sua forza economica e industriale, avrebbe potuto essere un terzo polo nell’UE, capace di bilanciare il dominio franco-tedesco. Invece, con un’economia più fragile e più dipendente dall’UE, la sua influenza geopolitica si è ridotta drasticamente. In sintesi, sembra una strategia di lungo termine, in cui diversi Paesi europei hanno tratto vantaggio dall’indebolimento italiano:
– la Germania ha consolidato il suo dominio industriale;
– la Francia ha rafforzato la sua presenza economica in Italia;
– le istituzioni europee hanno trovato più facile imporre politiche eccessivamente severe imponendo la rigida visione dei Paesi c.d. frugali contro il meridione d’Europa e, soprattutto, contro un’Italia militarmente ancora nelle mani degli Stati Uniti ma industrialmente forte, pronta a fare da possibile contrappeso. Adesso, però, abbiamo superato il punto di non ritorno: l’Italia non ha alcun margine per ribaltare questa situazione, e non esistono forze interne ed esterne (USA) capaci di consentire al nostro Paese di reagire ad una dipendenza irreversibile dall’UE e dai mercati finanziari.
Questa è l’ultima verità di oggi, ed è la peggiore di tutte.

US economy, il modello di crescita basato su un eccesso di debito è destinato a fallire

Gli Stati Uniti stanno cercando di ripetere con il mondo intero la stessa operazione che fecero con il Giappone negli anni Novanta, ma Cina ed Europa non sono disposti ad accettarlo.

Di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy

Abbiamo probabilmente toccato il “picco” della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ma pensare che il contesto internazionale possa tornare come prima è una pura illusione. Le ampie oscillazioni sugli indici dei mercati azionari segnalano che la psicologia di consenso è propensa a credere che il sistema possa passare facilmente da uno scenario a un altro senza danni. È abbastanza probabile che si cerchi di ridimensionare la tensione creata ma la direzione intrapresa è ormai irreversibile e il contesto è cambiato.

Infatti, occorre considerare che i tempi con i quali si svolgono le trattative commerciali durano mesi – se non anni – e le soluzioni non saranno quindi così facili come si tende a far credere. Nel frattempo, gli equilibri sui quali si è costruito il commercio globale e la globalizzazione dal 2000 in poi si stanno inesorabilmente sgretolando. Leggendo il documento “Foreign Trade Barriers“, pubblicato dall’amministrazione Usa, si comprende il punto di vista americano ma anche la complessità della trattativa e le difficoltà prospettiche. Appare abbastanza evidente che la parte più difficile da risolvere è quella che riguarda la Cina e l’Europa, mentre appare più facile un accordo con Messico, Canada e Giappone. È quindi probabile che i dazi possano essere in parte ridotti ma non verranno più rimossi completamente per molti anni.

Un New Deal al contrario. I mercati finanziari tendono a far credere che lo scenario di fondo non sia cambiato, che questi eventi siano solo transitori e che tutto tornerà come prima. Nella realtà siamo di fronte al più importante cambiamento strutturale globale di natura geopolitica, commerciale, economica e finanziaria dai tempi del New Deal. Il problema è che questo è un New Deal al contrario, dove l’economia Usa non ha più lo spazio fiscale per fare le politiche Keynesiane sostenute in questi anni, ma non ha neppure l’intenzione di ridurre il debito, che serve a sostenere le bolle speculative finanziarie. I mercati continuano infatti a sperare che nessuna politica fiscale restrittiva sia attuabile. Si cerca quindi di contenere una potenziale crisi da debito introducendo una tassa sui consumi interni, sperando che possa fornire le risorse finanziarie per mantenere questo insostenibile status quo.

I dazi commerciali sono sostanzialmente una forma di tassazione sui consumi globali, ma in particolare su quelli americani, dato che i consumi Usa sono circa il 25% del Pil mondiale. Poiché gli Stati Uniti hanno basato la crescita degli ultimi vent’anni sui consumi interni a leva (finanziati), la domanda globale è stata trainata da questo modello esasperato di “consumi finanziati dal debito“, che a lungo andare ha generato squilibri globali insostenibili. Gli Stati Uniti, per correggere tali squilibri, dovrebbero aumentare le imposte sui redditi, sul capitale e sulla Corporate America (che non paga tasse), procurando una riduzione della domanda interna e quindi una contrazione delle importazioni e del deficit estero, ma accettando anche una recessione come conseguenza. Pertanto, agli Stati Uniti non rimane che tassare i consumi esteri (derivanti dalle importazioni), facendo credere che tali imposte siano pagate da chi esporta verso gli Stati Uniti con pratiche commerciali “scorrette”.

Il risultato che si otterrà è comunque una recessione o un forte rallentamento globale, ma in questo caso si cerca di trovare una causa esterna, un nemico da accusare, un capro espiatorio esterno (Cina o Europa) per quanto riguarda la crisi economica e interno (Fed) per quanto riguarda il rischio di una eventuale crisi finanziaria. Nel 2019 gli Stati Uniti avevano già in corso un altro 2008 ma, grazie al Covid, gli interventi fiscali e monetari lo hanno nascosto ma solo rinviato. La crisi del mercato interbancario del 2018 aveva fatto emergere tutto il credito speculativo nel settore del Commercial Real Estate, lo stesso settore che ha poi procurato i fallimenti bancari di due anni fa. Problemi subito contenuti con alcuni salvataggi ma mai risolti e in costante peggioramento. Attualmente circa 450 banche americane sono in crisi strutturale e la Fed fornisce costanti linee di credito per puntellare la situazione. Sebbene sia abbastanza evidente che nel frattempo tutto è peggiorato nel credito al Commercial Real Estate (4,5Tr di dollari), a tale settore si è ora aggiunto anche il Credito al Consumo (5,5 Tr di dollari), dove i tassi di insolvenza sono già ora ai livelli pre 2008 nonostante la piena occupazione. Non oso immaginare cosa potrebbe accadere in caso di aumento della disoccupazione.

L’amministrazione Trump crede di poter reggere una temporanea recessione procurata dalla guerra commerciale ed essere in grado di risollevare l’economia nella seconda metà del mandato presidenziale, ma l’incertezza globale procurata dal cambio di scenario in atto non sarà di breve periodo, e questo inciderà per lungo tempo sull’economia internazionale. Un eventuale riposizionamento produttivo di quanto è stato localizzato in Cina non è una operazione che può completarsi in poco tempo, sempre che sia fattibile e in ogni caso i costi di tale operazione sarebbero colossali. Una eventuale recessione procurerà seri problemi al credito speculativo di cui è infarcito lo Shadow Banking System USA (12 Tr di dollari), accentuando le insolvenze, la contrazione del credito all’economia e procurando un peggioramento della crisi bancaria in corso.

Ricordo che le grandi banche americane hanno rifiutato di applicare Basilea III per non far emergere le perdite immobilizzate nei bilanci, bilanci che “battono le stime” sempre più ridimensionate, ma che non sono credibili agli analisti più attenti. Credo che prima o poi la Fed di Powell verrà chiamata a testimoniare davanti al Congresso per non aver vigilato sui rischi finanziari di sistema e per essere stata formalmente sempre indipendente dalla politica ma poco indipendente da Wall Street. Infatti un ulteriore problema è che la Federal Reserve, da anni, serve ormai solo a fornire bail out a Wall Street e si è allineata al puntellamento di un sistema finanziario sempre esposto al massimo rischio, abbandonando di fatto il ruolo di vigilanza sui rischi finanziari. Lo scontro politico sulla Fed è appena iniziato. Ritenere quindi che in soli due anni si possa ristrutturare la Global Value Chain, risolvere gli strutturali problemi del debito pubblico e privato Usa, sanare lo Shadow Banking System americano, risolvere il contenzioso commerciale globale, procurare un aggiustamento del deficit estero americano senza una recessione e ripartire come se nulla fosse successo è pura fantasia.

Gli Stati Uniti credono di imporre al mondo quello che hanno imposto al Giappone negli anni Novanta. Nel frattempo Europa e Cina, nel mondo virtuale dei mercati finanziari, dovrebbero adottare il modello americano e diventare i trascinatori del ciclo mondiale, salvare gli Stati Uniti sottoscrivendo i Century Bonds, accettare una significativa svalutazione del dollaro ma continuare a canalizzare i flussi di capitale sugli asset finanziari americani. Tutto questo per salvaguardare il modello economico Usa basato su consumi finanziati dall’estero, esasperata finanza speculativa e paradiso fiscale per le grandi società quotate, che chiedono la protezione geopolitica americana per continuare a non pagare le tasse sui profitti prodotti all’estero.

Difficile che la Cina voglia fare la fine del Giappone. Tutto quello che sta accadendo in questi mesi è infatti la fotocopia di quanto è già successo all’inizio degli anni 90, quando il Giappone era il principale esportatore mondiale e ci volevano 250 yen per acquistare un dollaro. Gli Stati Uniti iniziarono una guerra commerciale con il Giappone e lo costrinsero a spostare parte della produzione industriale in America e a rivalutare lo yen. Lo scoppio della bolla speculativa giapponese procurò una Balance Sheet Recession e una crisi economica. Nel corso degli anni 90 lo yen subì una rivalutazione del 150% contro dollaro e gli Stati Uniti obbligarono il Giappone a delocalizzare in Usa una significativa parte della produzione industriale per evitare i dazi. L’economia giapponese entrò in una fase di stagnazione strutturale e il governo giapponese, per contrastare la stagnazione, iniziò una politica fiscale espansiva costante supportata dal QE di Boj e da tassi d’interesse vicini allo zero. Tale politica fiscale spinse il debito pubblico al 240% del Pil senza mai stimolare veramente la crescita economica. La politica monetaria espansiva, la compressione dei tassi e il controllo del cambio contro dollaro, favorirono l’avvio di un gigantesco carry trade strutturale verso gli asset americani. Il sistema finanziario giapponese divenne il principale sottoscrittore di debito Usa e tutta la liquidità iniettata da Boj tramite il QE prese la direzione degli Stati Uniti.

L’economia Usa vive quindi di QE “importato” dall’estero da oltre trent’anni e dal 2008 è stata supportata anche dal QE della Fed. Quando nel 2014 la Bce ha introdotto i tassi negativi, il meccanismo del carry trade si è allargato all’Europa, e buona parte della liquidità iniettata da Bce è servita a finanziare l’acquisto di asset americani. I tassi negativi di Boj e Bce hanno favorito quindi la colossale bolla speculativa sugli asset finanziari americani e hanno finanziato l’esplosione del leverage privato e del debito pubblico. In sostanza gli Stati Uniti stanno chiedendo al mondo di fare quello che ha fatto il Giappone trent’anni fa. Ma l’attuale cedimento di dollaro ed equity Usa è la conferma dell’inizio di un deflusso dei capitali forniti da investitori europei e giapponesi. Se questo dovesse continuare, il governo americano sarebbe pronto a introdurre un blocco all’uscita dei capitali, operazione peraltro prevista nel piano economico dettagliato di Stephen Miran, il capo dei consulenti economici della Casa Bianca.

E’ iniziata una crisi strutturale dell’attuale ordine economico mondiale. È abbastanza evidente che siamo all’inizio di una crisi strutturale dell’ordine mondiale, perché nessuno è disposto ad accettare la “Japanisation” del proprio sistema. È quindi probabile che il tentativo americano di “salvare” il proprio modello economico sia destinato a fallire, e questo porterà gli Usa ad una crisi economica, sociale e finanziaria. Non ci vorrà molto tempo per assistere a tali accadimenti, dato che l’attuale amministrazione Usa ha bisogno di ottenere risultati immediati dallo scontro diretto e non ha molto tempo a disposizione per correggere gli attuali squilibri interni. Il meccanismo è quindi in accelerazione e nulla sarà più come prima. L’asset allocation del Global Strategy Fund si posiziona quindi per navigare nella più difficile e tormentata fase di ristrutturazione del sistema globale, che procurerà alta volatilità, disordine sui mercati valutari e compressione delle valutazioni dei mercati azionari. Il mondo occidentale entra in questa nuova era con gli asset finanziari posizionati sui massimi e quindi estremamente vulnerabili ai contrasti geoeconomici appena iniziati.

I mercati emergenti e la Cina hanno già pagato il conto della supremazia finanziaria americana e possono quindi emergere dal disordine in arrivo come l’area di futura ripartenza del ciclo. Rimaniamo comunque particolarmente negativi sulle prospettive del dollaro e sulle capacità di ripresa duratura dei mercati azionari, l’Oro continuerà il rialzo per i motivi strutturali analizzati e i tassi sono destinati a scendere ovunque per cercare di contrastare un rischio recessivo sempre più concreto. I dati macroeconomici continueranno a essere manipolati per non far emergere la reale situazione di crisi in cui il sistema si trova da tempo, in ogni caso, l’andamento dei profitti delle società quotate non potrà nascondere la realtà.

Ordine mondiale cercasi

Molti economisti pensano che il capitalismo USA si diriga definitivamente verso modelli di stato corporativo, autoritario e repressivo all’interno, militare e aggressivo con i paesi esteri.

di Manlio Marucci, presidente di Federpromm, docente e scrittore

Non c’è pace da quando Donald Trump è diventato Presidente del Paese più capitalistico del mondo, e a fibrillare quotidianamente è l’intero pianeta, americani compresi. Nulla è più come prima, e non passa giorno in cui l’inquilino della Casa Bianca non dia colpi di piccone all’ordine mondiale così come lo abbiamo conosciuto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La missione del Tycoon è chiarissima: recuperare con la forza e il ricatto valutario/economico l’imponente deficit commerciale, superiore a 3 trilioni di dollari, che gli USA hanno nei confronti dei partner commerciali (UE e Cina in primis). E per farlo, Trump non ha mostrato alcuna difficoltà ad agire contro gli interessi di molti capitani di industria statunitensi – anche quelli che lo hanno sostenuto nella corsa alla presidenza – “colpevoli” di aver decentrato la produzione nei Paesi emergenti dove, grazie al basso costo del lavoro, hanno tutti trasferito intere filiere produttive. I dazi, in questo senso, sono lo strumento più efficace con cui Trump intende far rientrare le produzioni (più investimenti e relativa occupazione) in suolo americano e riequilibrare così una situazione critica, fornendo come è nel suo stile soluzioni semplicistiche a problemi complessi.

Nonostante i rapporti non idilliaci con l’intero pianeta per, l’amministrazione Trump il nemico più temibile resta la Cina, con cui già dal 2018 è in atto una guerra commerciale. Il gigante asiatico da tempo non è più il Paese di contadini recentemente descritto da Vance, ma un colosso economico che esporta non più solo beni a basso costo, ma tecnologia così all’avanguardia da superare persino quella statunitense. L’offensiva del Presidente, quindi, è diretta verso le “multinazionali del globalismo”, quelle in costante lotta con la fazione che punta tutto sulla re-industrializzazione del Paese, trasformatosi nel tempo da produttore di beni in erogatore di servizi, con tutte le conseguenze in termini di impoverimento del ceto medio che sta sparendo ovunque.

La manovra protezionistica punta a reperire risorse per ridurre la pressione fiscale, anche sui più ricchi, tassando il Mondo per detassare gli americani. In tutto ciò, il convitato di pietra è il debito americano, ben 36 trilioni di dollari, detenuto in larga parte da investitori stranieri, Cina compresa. Un fardello che zavorra l’azione aggressiva di Trump rendendolo ostaggio dei mercati che nel “liberation day” gli hanno imposto una pausa, pena il crollo del dollaro e l’aumento degli interessi sul debito.

Una massima del Taoismo insegna che nel trionfo inizia il disastro, e quando questo accade ci si deve porre diversi interrogativi. In particolare, siamo in una fase economica destinata ad esaurirsi, oppure si prospetta una crescente instabilità del sistema monetario internazionale che precede la recessione e l’aumento dell’inflazione? Le possibili risposte a questa domanda, in ogni caso, portano a concludere che ignorare le catene globali del valore (gli Usa importano componenti per poi esportare prodotti finiti), non tenere conto della struttura dell’economia (alcuni Paesi sono esportatori netti per la loro impostazione produttiva), ma soprattutto chiudere gli occhi sulla natura bidirezionale del commercio, applicando dazi del 20%, è irresponsabile e creerà inflazione anche per i consumatori americani.

Il male principale del capitalismo monopolistico, di cui poco si parla, è la tendenza alla sovraccumulazione. Molti economisti americani, anche a sinistra, pensano infatti che il capitalismo Usa si diriga verso un’edizione americana di Stato corporativo, autoritario e repressivo all’interno, militaristico e aggressivo all’esterno. Trump intende davvero assumersi questa responsabilità o è inconsciamente consapevole della complessità dei meccanismi del commercio globale? In attesa di una risposta, molti paperoni americani stanno spostando la residenza in Svizzera, le università insorgono rivendicando autonomia dalla politica, e perfino la sonnacchiosa Europa si appresta a varare una politica monetaria basata sull’euro digitale per smarcarsi dal monopolio del circuito dei pagamenti delle società americane, Visa e Mastercard. La Cina, poi, rinsalda i rapporti con il sud est asiatico, in particolare con il Vietnam, altra vittima eccellente dei dazi trumpiani. Un quadro caotico dove l’ordine mondiale, targato Occidente, basato sul consenso sociale e sul rispetto della persona viene messo a rischio senza che nessuno abbia ben chiaro cosa lo potrebbe sostituire.

La Questione Europea, parte II: la morte di Papa Francesco un “miracolo” di involontaria diplomazia

La morte di Papa Francesco ha sconvolto i piani dei riottosi leader europei, costretti dalle circostanze a fare da ancelle al confronto tra Trump e Zelensky sotto l’egida dell’Italia di Giorgia Meloni.

Di Alessio Cardinale

Mai come negli ultimi 6 mesi la vera natura dell’Unione Europea è stata messa a nudo, con il suo carico di fragilità internazionale mostrato di fronte ad eventi peraltro ampiamente previsti. L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, infatti, per Von Der Leyen & co. è stato tutto fuorchè la classica sorpresa che non ti aspetti, così come le intenzioni del “Tycoon” – che in italiano vuol dire “magnate”, per chi usa i termini anglofoni senza conoscerne il significato – in merito alla politica commerciale da adottare nei confronti degli odiati concorrenti europei.

Qualunque vera federazione di stati, di fronte all’avanzare degli scenari internazionali più temuti, avrebbe reagito in anticipo, programmato misure economiche adeguate, adottato strumenti di contenimento delle emergenze eventualmente generate dagli effetti di quegli stessi scenari. Insomma, si sarebbe mossa in modo unitario ed efficace per scoraggiare sul nascere le intenzioni apertamente dichiarate da Trump oppure per avere maggior potere contrattuale quando ci si sarebbe potuti sedere al tavolo delle trattative sui dazi commerciali. Invece, niente di niente. L’Unione Europea si è mostrata immobile ed in balia delle iniziative arbitrarie dei singoli stati aderenti: chi andava di qua e chi di là, in modo scomposto e senza una strategia comune. In tal senso, il ruolo di mediatore internazionale conquistato sul campo dall’Italia di Giorgia Meloni – e osteggiato con malcelato disappunto dalla Von Der Leyen e da Macron, tedeschi e olandesi non pervenuti – è il naturale risultato dell’immobilismo europeo di fronte al ritmo velocissimo dei cambiamenti messi in atto da Trump.    

Tutto questo è potuto accadere perché l’attuale struttura dell’Unione Europea, non essendo una vera federazione di stati ma un semplice accordo monetario spacciato venticinque anni fa come “Unione”, è progettata per mantenere le divisioni tra gli stati membri, invece di superarle. È un attore troppo debole per essere un attore politico indipendente, avendo imposto regole economiche rigide (Patto di Stabilità e cocciutissime politiche di austerità) che hanno creato malcontento in diversi paesi, alimentando sentimenti anti-europei. Non ha promosso con la stessa forza un’identità culturale comune, lasciando che i cittadini vedessero Bruxelles più come un “amministratore di regole” che come un progetto politico condiviso. Ha permesso che le grandi potenze europee (come Germania e Francia) dettassero la linea, creando squilibri tra paesi più forti e paesi più deboli, senza un vero meccanismo di solidarietà.

Il risultato è che i cittadini non si sentono parte di una comunità unica, e questo non cambierà finché chi comanda (Germania, Francia e Olanda) trarrà vantaggio da questa fragilità politica. La percezione della sostanziale divisione tra stati aderenti è diffusa dalla base al vertice, e colpisce quindi anche le varie leadership nazionali. Ne abbiamo avuto un esempio chiarissimo quando, nelle scorse due settimane, i principali governi europei si sono confrontati (a distanza) con l’ipotesi di un vertice a Roma tra il presidente Trump, i leaders della Ue e i capi di governo dei ventisette sulla questione dei dazi e della guerra in Ucraina. In mezzo, la morte di Papa Francesco che ha stemperato non poco gli animi e ha sconvolto i piani dei riottosi leader europei, costretti dalle circostanze a fare da ancelle al confronto tra Trump e Zelensky, sia pure in una cornice politica atipica ma sotto l’egida della Meloni. Un vero e proprio “miracolo” di involontaria diplomazia, grazie al quale il tentativo di ridimensionare il ruolo di mediatore di Giorgia Meloni tra Washington e l’UE è andato a vuoto, così come gli alibi che l’Europa, con il suo immobilismo forzato dalla sua stessa natura, aveva fino a quel momento fornito al presidente americano ancora voglioso di scontro con con gli altri leader.

La Storia ci insegna che i grandi cambiamenti arrivano da fenomeni economici estremi, come le grandi crisi economiche (chi se la sente oggi di escluderne una nel prossimo futuro?). Le vicende geopolitiche – il caos in Medio Oriente, la fragilità ucraina e la svolta negli USA – hanno mostrato che l’UE:
1) non è in grado di prendere decisioni rapide ed efficaci di fronte ai cambiamenti;
2) dipende ancora troppo da Washington per la difesa e dall’Asia per l’energia e la tecnologia.
Pertanto, se dovesse verificarsi una crisi economica o politica su larga scala, l’UE dovrà scegliere di superare i suoi limiti e diventare un vero blocco federativo autonomo, evitando di restare nell’attuale condizione di entità
frammentata e irrilevante nelle grandi decisioni globali. Di fronte a questa assoluta necessità, è forte il timore che i leader europei finiscano con l’assistere passivamente – a difesa del proprio orticello nazionale – ad un peggioramento della situazione fino al punto di non ritorno prima di capire che il sistema attuale non funziona. E visto l’attuale tasso qualitativo della classe politica europea, è altrettanto facile prevedere che passerà molto tempo prima che i leader superino l’approccio campanilistico e ragionino con una visione autenticamente europeista e unitaria, per cui resta da vedere se tale atteggiamento possa (o meno) farci arrivare al punto di non ritorno.

La crisi pandemica del 2020 ha mostrato che, di fronte a un’emergenza estrema, l’UE può superare certi blocchi e adottare misure straordinarie, come il Recovery Fund, che fino a pochi mesi prima sembrava impensabile. Questo dimostra che, se la crisi è abbastanza grande, anche i leader più “campanilisti” e ottusi possono essere costretti a cambiare approccio. La chiave, quindi, sta nel grado di pressione che una crisi futura eserciterà sul sistema: se la crisi sarà moderata, probabilmente si vedranno solo aggiustamenti temporanei; se sarà profonda, come una crisi economica globale o un ritiro netto degli USA dalla sicurezza europea, allora l’UE dovrà decidere se evolvere o soccombere.

Conviene alla Cina far saltare il banco del debito USA?

Tecnicamente la Cina avrebbe la capacità di far saltare il debito americano, sebbene detiene “solo” circa 800 miliardi di dollari in Treasury. Eppure, difficilmente lo farà.

Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

Mentre i mercati tremano, il dollaro si indebolisce e i rendimenti dei Treasury USA a lungo termine si impennano, i mercati mondiali guardano con preoccupazione la situazione e cercano la risposta ad una domanda fondamentale: può – e soprattutto conviene – davvero alla Cina far saltare il banco del debito americano? Oppure, come già avvenuto in due momenti cruciali della storia recente, gli Stati Uniti e la Cina ed il resto dei paesi sviluppati troveranno un compromesso strategico, con Pechino e gli altri che finanziano di nuovo l’espansione americana, e Washington che garantisce accesso al proprio mercato insieme ad una ritrovata stabilità nel commercio internazionale?

Per rispondere, bisogna tornare indietro nel tempo e fare riferimento a due episodi storicamente recenti.

1971: Nixon e la fine del Gold Standard (quando un repubblicano diventa “keynesiano”). Richard Nixon, presidente repubblicano ma pragmatico, affrontò una crisi inflattiva e valutaria epocale. Il dollaro era sotto attacco, le riserve d’oro si assottigliavano e gli Stati Uniti erano ancora impantanati nella guerra del Vietnam. Il 15 agosto 1971, Nixon annunciò la fine della convertibilità del dollaro in oro, decretando la morte del sistema di Bretton Woods. In quel momento, adottò politiche apertamente interventiste:
– controllo dei prezzi e dei salari (per contenere l’inflazione),
– spesa pubblica elevata, anche in disavanzo
– abbandono di ogni ancoraggio aureo, con l’obiettivo di sostenere la domanda interna e la competitività esterna.

Nixon stesso ammise apertamente la sua “svolta Keynesiana”, con la famosa dichiarazione “Now I am a Keynesian in economics“. Il risultato? Gli USA, liberi dal vincolo dell’oro, poterono stampare dollari per rilanciare l’economia. E il mondo, pur riluttante, non avendo alternative e forza per fare in modo diverso, fu costretto ad accettare il dollaro come moneta di riserva globale. Nessuno volle — o poté — far saltare il banco, anche se la guerra del Kippur finirà poi per mettere in ginocchio l’Europa dal punto di vista energetico, quindi anche economico (ma questa è un’altra storia).

2008–2010: Obama, il Quantitative Easing e il G2 con la Cina. Dopo il crollo di Lehman Brothers, il rischio era il collasso sistemico del sistema finanziario globale. L’amministrazione Obama, con l’appoggio della Fed, lanciò una politica fortemente espansiva, adottando stimoli fiscali massicci, tassi di interesse a zero e il Quantitative Easing su scala senza precedenti. In parallelo, si rafforzò il dialogo strategico USA-Cina, il cosiddetto “G2”. La Cina, allora secondo creditore estero degli Stati Uniti, continuò a comprare T-Bond, permettendo agli USA di finanziare il proprio debito a costi contenuti. In cambio, Washington non ostacolò le esportazioni cinesi, garantendo accesso al mercato e stabilità del dollaro. Un equilibrio simbiotico, ma instabile. Eppure, ancora una volta, il banco non saltò.

2025, lo scenario attuale: rendimenti in rialzo, sfiducia in aumento. Oggi il debito americano ha superato i 36.000 miliardi di dollari. Il term premium a 10 anni è tornato positivo. I rendimenti del treasury trentennale si avvicinano al 5,1%. E il dollaro sta perdendo terreno in modo importante rispetto a valute rifugio come il franco svizzero, lo yen e l’euro. I segnali sono chiari: gli investitori vogliono essere pagati di più per detenere debito americano e si sta verificando un disaccoppiamento tra dollaro e fiducia globale, mentre la Fed è bloccata tra l’inflazione da dazi e la necessità di sostenere la liquidità per dare energia all’economia USA che Trump vuole fare crescere anche attraverso la svalutazione del dollaro e rendere più competitive le esportazioni.

E la Cina? Possiede ancora circa 800 miliardi di dollari in T-Bond. Ha ridotto la sua esposizione in titoli del tesoro USA, ma non ha ancora mollato del tutto. Sa che un crollo del dollaro colpirebbe anche il valore delle sue riserve e il suo export. Va inoltre ricordato che la Cina ha più volte dichiarato l’intenzione di costruire un sistema alternativo al dollaro, attraverso l’internazionalizzazione dello yuan, la promozione di piattaforme di pagamento indipendenti e accordi bilaterali in valute locali. Tuttavia, è altrettanto evidente che Pechino (insieme ai BRICS) non sia ancora in grado di costruire un sistema pienamente autonomo e globalmente competitivo rispetto a quello guidato dagli Stati Uniti.

Detto questo, tecnicamente la Cina avrebbe comunque la capacità di far saltare il banco, nonostante detenga “solo” circa 800 miliardi di dollari in Treasury. La storia offre esempi significativi: a volte, sono bastati detentori marginali di debito per provocare crisi sistemiche. È il caso degli Stati Uniti con il debito dell’Europa orientale negli anni 70-’80, o dell’Europa (in particolare Germania e Francia) con la ripicca sul debito dei Paesi dell’America Latina. Nel caso dell’Est Europa, molti Paesi avevano contratto debito in valuta estera per finanziare sviluppo e apertura. Gli USA, poco esposti, rifiutarono strategicamente il rifinanziamento, e l’Europa seguì, causando una crisi a catena.

In America Latina, dopo un decennio di prestiti facili, il rialzo dei tassi USA e il ritiro del credito europeo provocarono default a catena: Messico, Brasile, Argentina. In entrambi i casi, le scelte furono politiche, e la leva del credito fu usata come strumento strategico. Questi precedenti dimostrano come anche una posizione non dominante sul piano quantitativo possa generare effetti sistemici devastanti, se usata in modo mirato. Da qui, l’impasse: o si trova un accordo, o si entra in uno scenario di rottura sistemica svantaggioso per tutti. In casi estremi come questo, lo spettro delle “bombe” non è solo una metafora economica.

E se a guidare fosse Trump? Ipotesi su un equilibrio instabile. Nel 2025, lo scenario si è fatto ancora più complesso con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Un presidente apertamente liberista a parole, ma interventista nei fatti, che ha più volte definito i suoi predecessori “incapaci” per aver concesso alla Cina un ruolo dominante nel sistema commerciale e finanziario globale. Cosa sta facendo Trump, in sintesi?
– Contenimento selettivo della spesa pubblica. Trump ha rilanciato il Department of Government Efficiency (DOGE) con l’obiettivo di digitalizzare e snellire la macchina statale, affidandolo a Elon Musk. Il taglio della spesa è selettivo, ancora più simbolico che strutturale.
– Dazi come strumento di pressione finanziaria. Trump vuole costringere gli esportatori a reinvestire in debito USA, imponendo dazi che funzionano da leva fiscale indiretta. Una forma di ricatto geopolitico: “se volete esportare in America, comprate i nostri T-Bond“.
– Crescita interna senza fondamentali pronti. Trump punta a rilanciare la manifattura USA, tuttavia mancano lavoratori qualificati e le catene di fornitura globali non sono rientrate, per cui il rischio è quello di voler crescere senza basi strutturali, aumentando debito e pressioni inflattive.

L’unica possibilità oggi è che si trovi un accordo sostenibile, che sia strategico e vantaggioso per tutti. È anche  probabile che la Cina non si limiti a discutere solo di economia e finanza. Potrebbe infatti mettere sul piatto dossier geopolitici di peso, come la questione di Taiwan, e proporre un’intesa sulla crisi in Ucraina, sfruttando i legami crescenti con la Russia all’interno del blocco dei BRICS. In questo scenario, gli equilibri globali non si ridisegnano solo sulle borse e sulle valute, ma anche sulle sfere di influenza politica e militare. 

L’ipotesi più probabile è che la trattativa economica del cosiddetto G2 diventi il baricentro di un nuovo ordine mondiale (dal quale l’Europa cerca di non rimanere esclusa…). La storia insegna che gli Stati Uniti hanno superato crisi di fiducia e di debito solo grazie a compromessi strategici, soprattutto con la Cina. Nel 1971, con Nixon. Nel 2010, con Obama. Oggi, con Trump, la situazione è più incerta, per cui se gli Stati Uniti vogliono restare l’economia trainante del mondo, devono trovare un nuovo equilibrio con la Cina. Se non lo faranno, il futuro del dollaro come pilastro del sistema globale potrebbe davvero essere in discussione. E a quel punto, conviene davvero alla Cina far saltare il banco?

Dazi, una scorciatoia fallimentare. Riportare la produzione manifatturiera in occidente è pura illusione

In un contesto di crisi profonda dell’Occidente, le risposte di Trump appaiono inadeguate e illusorie. Tra queste, il ritorno alle barriere doganali o alla relocalizzazione forzata della produzione.

Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

In un contesto di crisi profonda e diffusa dell’Occidente, le risposte di Trump appaiono inadeguate e illusorie. Si parla spesso di riportare in patria le fabbriche per proteggere l’occupazione, ma si tace sul fatto che negli Stati Uniti molte aziende che hanno fatto reshoring non trovano personale disposto o preparato per lavorare. Pertanto, il punto non è più quello di “produrre in casa”, ma quello di identificare chi lavorerà nelle fabbriche, e con quale cultura del lavoro. Manca la motivazione, la competenza e soprattutto il senso: riportare la produzione negli Stati Uniti senza rigenerare il significato profondo del lavoro rischia di essere una strategia fallimentare e illusoria.

Nel frattempo, realtà come la casa automobilistica cinese BYD crescono a ritmi impressionanti. Non solo dominano l’innovazione nel settore elettrico, ma sono talmente liquide e organizzate da potersi permettere l’acquisto di sei navi portacontainer per esportare direttamente in tutto il mondo. Un modello industriale che unisce capacità tecnica, visione strategica e velocità d’azione. Ma BYD è solo la punta dell’iceberg: la sua crescita esponenziale è il simbolo di una nuova concorrenza culturale e industriale globale, portata avanti con forza da tutto il blocco dei BRICS.

La Cina, in particolare, ha costruito un ecosistema produttivo fondato non solo su costi bassi e scala, ma su una visione collettiva del lavoro come motore della dignità nazionale e della crescita personale. Le sue università, i suoi piani quinquennali, le sue strategie pubbliche e private convergono su un’idea precisa: innovare, produrre, esportare. E quando serve, comprarsi anche le rotte del commercio globale, come dimostra l’acquisto diretto di intere flotte navali da parte di grandi gruppi industriali, la forte presenza nel canale di Panama. L’India, dal canto suo, sta rapidamente emergendo come potenza tecnologica e demografica, con milioni di giovani (tantissimi ingegneri) che entrano ogni anno nel mercato del lavoro con competenze avanzate e uno spirito competitivo che contrasta fortemente con la disaffezione occidentale. In Russia, Brasile e Sudafrica – seppur in contesti diversi – si riaffaccia con decisione la volontà di rendere il lavoro industriale e strategico un perno della sovranità economica.

I BRICS stanno costruendo una nuova narrazione del progresso: meno individualista, più coesa, incentrata sul valore della produzione, della comunità e dell’autonomia. È una sfida non solo economica, ma culturale. E l’Occidente, se vuole rispondere, dovrà prima di tutto recuperare una propria idea forte di lavoro, crescita e comunità condivisa. Le barriere protezionistiche, le guerra costruite a tavolino per il controllo delle rotte commerciali (quale altro interesse sta dietro all’interesse USA per la Groenlandia, il canale di Panama e la guerra con gli Huthi nel Mar Rosso?), di fronte a simili capacità organizzative e visione a lungo termine, appaiono come tentativi di rallentare l’inevitabile senza rispondere alla causa profonda della crisi.

La domanda vera è: cosa manca all’Occidente per tornare a essere competitivo? Come ha detto Papa Francesco a Firenze nel 2015, “non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca“. Lo si percepisce nel disorientamento delle nostre società, nel caos culturale che attraversa le nazioni occidentali, nella fine di molte certezze del passato. Lo confermano, ciascuno a suo modo, tre figure che hanno riflettuto a fondo sulle dinamiche storiche e politiche delle civiltà: Arnold Toynbee, Oswald Spengler e Ray Dalio. Toynbee ci ha mostrato che le civiltà non crollano per cause esterne, ma per un cedimento interiore delle élite che smettono di rispondere con creatività alle sfide. Spengler ha parlato del “tramonto dell’Occidente” come di un esaurimento spirituale e culturale, dove le nuove forme politiche – come la democrazia e il socialismo – rischiano di dissolvere l’ordine tradizionale senza sostituirlo con un nuovo fondamento. Ray Dalio, con i suoi studi sui grandi cicli storici, descrive l’Occidente attuale come alla fine di un macrociclo, segnato da crisi sistemiche e instabilità crescente.

Anche il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance, nel suo intervento alla Conferenza di Monaco nel febbraio scorso, ha posto l’accento su un punto cruciale: la vera minaccia all’Occidente non viene dall’esterno, ma da un allontanamento interno dai propri valori fondanti. Non sono la Cina o la Russia a minacciare la nostra prosperità, ma la nostra incapacità di rigenerare lo spirito che l’ha resa possibile durante un percorso secolare.

Andando (molto) indietro nel tempo, è possibile trovare delle similitudini. Per esempio, nel momento in cui l’Impero Romano toccava la sua crisi più profonda, due voci – una storica e una teologica – seppero leggerne le cause profonde con una lucidità che ancora oggi ci interroga. Ammiano Marcellino, uno degli ultimo grande storici di Roma, descrive nella sua opera Res Gestae una società aristocratica ormai decadente. Denuncia la corruzione dilagante, il lusso smodato, l’indifferenza delle élite romane rispetto alle sorti reali dell’Impero, che nel frattempo veniva difeso soprattutto da uomini e comandanti delle province. La sua analisi, severa e realistica, fotografa la perdita del senso civico, della responsabilità pubblica e del legame con i valori fondativi di Roma. Agostino d’Ippona, scrivendo il De Civitate Dei all’indomani del sacco di Roma (410 d.C.), propone una lettura ancor più radicale: la crisi non è solo politica o militare, ma spirituale. La grandezza imperiale si sgretola perché fondata su una Città terrena che ha perso il senso del divino, della giustizia e della verità. Agostino contrappone alla città degli uomini – soggetta a vanità, ambizione e violenza – la Città di Dio, comunità fondata sulla fede e sul bene comune.

Ritornando all’attualità, nel modello storico delineato da Ray Dalio le civiltà attraversano sei fasi principali. Siamo oggi, probabilmente, nella sesta fase, quella in cui l’egemonia dominante si sgretola sotto il peso del debito, della frammentazione interna e della perdita di fiducia collettiva. Una fase segnata da conflitti, instabilità, e incertezza sistemica. Le istituzioni perdono credibilità, le polarizzazioni crescono e il rischio di uno scontro interno aumenta. Dalio non offre facili soluzioni, ma un principio guida: riconoscere i segnali del declino per anticipare e orientare una possibile rigenerazione. Non sarà la tecnica o la politica da sola a salvare le democrazie occidentali, ma un ritorno a valori profondi, condivisi e vissuti.

Giunto a questo bivio, l’Occidente ha davanti a sé due strade: lasciare che questo ciclo si concluda nel crollo – culturale a cui segue quello economico – oppure tentare una ricostruzione profonda, a partire dal senso del lavoro, dalle comunità, dalla persona. In questa seconda direzione si muove, con concretezza e visione, l’esperienza proposta dalla CDO nel Manifesto del Buon Lavoro: “occorre offrire ai collaboratori una risposta al senso del lavoro che vada oltre la retribuzione e la funzione produttiva“. Il lavoro, infatti, non è solo un mezzo di sussistenza, ma una dimensione fondamentale della realizzazione personale e della costruzione di comunità. Il Manifesto afferma chiaramente che “il buon lavoro nasce da una cultura che riconosce il valore della persona e lo traduce in pratiche organizzative e relazionali“. In questo senso, “le imprese sono chiamate a costruire ambienti in cui sia possibile fare esperienza di senso, responsabilità, appartenenza“.

L’obiettivo è ambizioso ma essenziale: trasformare il lavoro in un luogo di crescita umana, dove ogni collaboratore possa dire: “Qui sto costruendo qualcosa di mio, che vale”. Una strada non facile, ma possibile. Una sfida che non chiede atti eroici, ma scelte quotidiane, lungimiranti e coraggiose.

In tal senso, anche gli investimenti, se vogliono contribuire alla costruzione di futuro, dovranno saper scegliere da che parte stare. Un utile criterio per orientarsi è rappresentato dalle certificazioni ESG (Environmental, Social, Governance). Esse non valutano soltanto la sostenibilità ambientale o l’efficienza gestionale di un’impresa, ma offrono una griglia per verificare quanto essa stia realmente investendo sul capitale umano, sulla qualità delle relazioni interne, sulla responsabilità sociale e sulla trasparenza organizzativa. Le aziende che abbracciano i valori del buon lavoro – e che li integrano con un approccio ESG serio e documentato – rappresentano le migliori destinazioni possibili per investimenti responsabili, capaci di generare impatto positivo e valore nel tempo.

Ecco allora che ritorna, con forza, la necessità di una nuova cultura del lavoro. Una risposta culturale prima ancora che economica: non un semplice elenco di buone pratiche, ma una visione capace di mettere al centro la persona, le relazioni, la formazione, il benessere, la corresponsabilità. Occorre dare un senso alla fatica, per non educare le persone ad evitare la realtà. Occorre investire nelle aziende che stanno già facendo questo percorso, spesso silenziosamente ma con determinazione. Non è solo una scelta etica, ma una strategia economica di lungo periodo. Perché il futuro dell’Occidente passa anche dal futuro del lavoro. E il futuro del lavoro si costruisce sempre nel presente.

Manlio Marucci, riflessioni sul nuovo libro: consulenti finanziari più forti dopo la tempesta sui mercati

Non è la prima volta che le borse entrano in una fase di estrema volatilità, ma gli attuali consulenti sono in grado di affrontare con l’esperienza questa fase così difficile e a tratti sconosciuta.

Articolo e intervista di Massimo Bonaventura

Dopo “Consulenti finanziari zelanti maggiordomi degli intermediari” (Edizioni Lightsky), Manlio Marucci* ha recentemente pubblicato la sua ultima fatica editoriale, dal titolo “La consulenza finanziaria come professione – Dinamiche strutturali e processi di sviluppo” (anche questo con Lightsky). Si tratta di un libro che, partendo da una ricostruzione critica della storia ultracinquantennale della consulenza finanziaria, evidenzia come questa professione stenti ancora ad affermarsi come “necessaria” per la collettività, al pari di altre categoria professionali come quelle degli avvocati e dei commercialisti (ma non solo). 

Gli argomenti trattati da Marucci stimolano una profonda riflessione a quanti, ogni giorno, si misurano professionalmente con gli investimenti e le problematiche della finanza personale; soprattutto in un momento così difficile come quello odierno, che vede il ritorno della “volatilità selvaggia” nei mercati finanziari e delle manovre ribassiste da parte dei fondi speculativi. Sulla scorta di tale riflessione collettiva, abbiamo chiesto al prof. Marucci una lunga intervista, uscendo un bel po’ dagli schemi della classica recensione editoriale e affrontando alcune tematiche dalle quali, molto spesso, i consulenti finanziari vengono distratti per via degli impegni professionali e del carico di lavoro amministrativo (non retribuito) imposto dal sistema finanziario europeo già da quasi un decennio e oggi pesantemente gravato dalla burocrazia delle MiFID.

Prof. Marucci, com’è cambiata la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane dall’ingresso nella Moneta Unica in poi?
Se inquadriamo il problema facendo riferimento allo sviluppo economico avvenuto dopo gli anni novanta del secolo scorso, c’è stato un grande processo di integrazione fra i paesi dell’Unione Europea, rivolto soprattutto al coordinamento delle politiche economiche e finanziarie e alla politica monetaria comune. L’euro, infatti, ha offerto numerosi vantaggi per le imprese, per l’economia e per i consumatori. Dalla sua entrata in circolazione (1 Gennaio 2002) la ricchezza delle famiglie italiane è aumentata in modo rilevante, e oggi la disponibilità di patrimonio privato è di circa 10mila miliardi di euro. Una ricchezza significativa, che ci aiuta a comprendere la situazione odierna.

Qual è oggi la percentuale dei risparmi degli italiani amministrati dalle reti di consulenza finanziaria?
Secondo gli ultimi dati forniti dalle associazioni Assoreti ed Assogestioni, la percentuale di risparmio amministrato dalle reti di consulenza finanziaria ha raggiunto la soglia dei 900 miliardi di euro, con percentuali di crescita del 10-14% negli ultimi due anni. E’ la dimostrazione che i consulenti finanziari abbiano assunto un ruolo centrale nell’indirizzare al meglio gli investimenti delle famiglie italiane.
E’ possibile fare una stima della percentuale di masse amministrate dai consulenti indipendenti?
Non si è nella condizione di avere un dato preciso, in quanto l’OCF che detiene i dati trimestralmente inviati dai soggetti vigilati (autonomi e scf) non ne ha ancora fornito il dato complessivo. Si stima che il valore degli asset finanziari amministrati dai consulenti autonomi sia dell’ordine di 25-30 miliardi di euro.

Esiste un periodo storico, o più periodi storici, in cui i risparmiatori hanno cominciato a considerare gli ex promotori come dei veri professionisti e non come semplici venditori di fondi di investimento?
Il quadro della percezione da parte dei risparmiatori nei confronti dei consulenti finanziari è certamente cambiato dopo la modifica del nome (da promotore a consulente), avvenuta con delibera della Consob nel marzo del 2016; pur rimanendo invariato il rapporto lavorativo già disciplinato dalla legge istitutiva del 1991 (Legge sulle SIM) come dipendente, come mandatario o come agente. C’è da dire che dopo questo cambio del sostantivo la percezione dei consumatori è radicalmente cambiata, dando un significato e un valore alla professione di consulente finanziario. Tale percezione di “nuova professionalità” è cambiata anche tra le professioni storiche regolamentate, come i commercialisti, i notai, gli avvocati, etc.; per cui oggi è meno difficile per un consulente finanziario creare delle sinergie commerciali con quelle categorie professionali.

Secondo lei, esiste nella categoria dei consulenti finanziari la consapevolezza di essere dei veri professionisti, oppure si deve lavorare ancora in tal senso?
Sono convinto che i dati estrapolati dal numero degli iscritti all’albo presso l’OCF (organismo di vigilanza dei consulenti finanziari, ndr) lo dimostrano, così come gli sforzi fatti sia sul versante degli investimenti da parte degli intermediari sia nel rendere più selettiva ed appetibile tale professione. Lo dimostrano anche i recenti spot televisivi veicolati sui media nazionali. Dal lato della formazione, tuttavia, sono convinto che bisogna ancora lavorare molto, vista la complessità dei prodotti e dei nuovi strumenti finanziari, come le criptovalute e i prodotti complessi del ramo assicurativo.

Nel suo ultimo libro, “La consulenza finanziaria come professione”, lei parla del contesto internazionale della consulenza finanziaria. Quali sono i nostri punti di forza rispetto ai colleghi stranieri, e quali le aree di miglioramento?
Non credo si possa fare una netta distinzione su quale consulenza sia migliore e quale quella meno appropriata; dipende dal contesto in cui si opera e da come sono regolamentate le figure professionali da un punto di vista normativo. Indubbiamente, in Italia la regolamentazione è molto rigida e complessa rispetto ad altri paesi, e la professione è sottoposta al rispetto delle rigide procedure dettate dai soggetti vigilanti. Questo favorisce maggiore sicurezza e trasparenza agli investitori e solidità del sistema bancario e/o finanziario. 

Cosa ci dice riguardo agli educatori finanziari? E’ una categoria professionale che può emergere in autonomia, oppure rimarrà un titolo accessorio in capo agli attuali consulenti?
Vi è un gran da fare da qualche anno nel riconoscere l’importanza della figura dell’educatore finanziario, soprattutto dopo la istituzionalizzazione dell’educazione finanziaria nelle scuole primarie e secondarie avvenuta con la legge Capitali (n.21 del 2024). Il problema di fondo è questo: chi forma i formatori che dovranno insegnare poi le discipline legate alle materie di educatore finanziario? Il consulente finanziario dovrebbe essere la figura centrale di questa rivoluzione culturale.

Relativamente ai pericoli educatore finanziario, paralisi del giudizio, derivanti dalla “rivoluzione” dell’Intelligenza Artificiale, nel suo libro parla di “paralisi del giudizio”. Cosa intende esattamente con questo termine?
Ho dedicato un intero capitolo del mio ultimo libro a questo argomento, dando una visione del problema in termini aperti e critici, vista la velocità con cui l’Intelligenza Artificiale è entrata di diritto nella vita quotidiana delle persone, condizionando le relazioni primarie e nel mondo del lavoro. Una rivoluzione così dirompente crea condizioni di burnout sociale su cui molti psicologi stanno concentrando i propri studi.

Tra i vari modelli di consulenza finanziaria da lei analizzati, quali si affermeranno maggiormente nel futuro?
Indubbiamente nel medio periodo prevarrà l’area della consulenza indipendente, poiché anche le organizzazioni deputate alla offerta fuori sede si stanno attrezzando rapidamente per offrire ai propri clienti una consulenza su base fee-only. Quando l’offerta delle reti avrà inglobato questo tipo di servizio, è probabile che molti consulenti oggi non autonomi valuteranno il cambiamento verso la sezione degli indipendenti (soprattutto se si sceglie di fondare uno studio professionale individuale), poiché consentirà di aumentare i margini di ricavo oggi condivisi in larga parte con la rete di appartenenza. Ma sarà allorquando anche le SCF (società di consulenza finanziaria autonoma, ndr) cominceranno a riconoscere dei bonus ai nuovi colleghi che vedremo sorgere la vera concorrenza con le odierne banche-reti, le quali potrebbero lentamente soccombere.

E’ ipotizzabile che in Italia ci si possa avvicinare al modello anglosassone di consulenza finanziaria?
Non credo. Quello inglese è un modello talmente diverso da risultare scarsamente adeguato alla nostra realtà. In Italia, così come in tutta l’Unione Europea, prevale e si rafforza il principio della tutela del cliente sotto tutti i profili; di conseguenza la regolamentazione rispetto ad altri paesi è molto stringente, anche per le garanzie di solvibilità che devono essere assicurate agli investitori. Di contro, come ho sottolineato nel mio ultimo libro, nel Regno Unito – che ha una popolazione simile a quella italiana – la consulenza finanziaria occupa complessivamente circa ‪130.000 addetti, mentre in Italia soltanto 41.000. Tale differenza di numeri si spiega con il fatto che i paesi anglosassoni hanno fatto storia della consulenza finanziaria, e nel Regno Unito c’è una cultura del risparmio e un livello di competenza degli investitori molto più avanzate rispetto al nostro paese.

Che prospettive ci sono sul tanto agognato contratto unico nazionale dei consulenti finanziari?
Mi auguro che la sensibilità delle associazioni degli intermediari e le ragioni di tutela delle specifiche categorie dei consulenti finanziari consentano di affrontare il problema in tempi brevi. Sono convinto che un accordo economico collettivo eliminerà molti contenziosi oggi presenti nel rapporto di lavoro tra intermediario e consulente, garantendo benefici ad ambo le parti, e incentiverà i giovani ad intraprendere questa bellissima professione.

La guerra commerciale scatenata da Trump e la violenta volatilità delle borse stanno mettendo a dura prova i consulenti finanziari, chiamati a fare gli straordinari per tranquillizzare i risparmiatori. Come se la caveranno, secondo lei?
Egregiamente, come sempre. Non è la prima volta che le borse entrano in una fase di estrema volatilità e di scarsa propensione al rischio, e l’età media piuttosto elevata degli attuali consulenti finanziari permette loro di affrontare questa fase così difficile e a tratti sconosciuta con la giusta esperienza del “mestiere”. Mi sento di dare un consiglio, su tutti: i consulenti più anziani ed esperti affianchino quelli più giovani, al fine di limitare gli errori e insegnare loro come fare per scoraggiare i clienti dal prendere decisioni irrazionali. Una volta terminata questa fase così difficile scatenata dal presidente americano, i consulenti finanziari saranno più forti di prima e verranno percepiti come professionisti fondamentali per le famiglie degli investitori che avranno seguito il consiglio di tenere i nervi saldi.

* Presidente di Federpromm, docente, sociologo e scrittore

USA, probabilità di recessione inferiore alle stime ottenute con i modelli tradizionali

La recente flessione del mercato azionario statunitense appare più come una sana correzione piuttosto che l’inizio di un mercato ribassista trainato dai timori di recessione. 

di Alberto Conca, gestore del fondo Zest Quantamental Equity

La volatilità osservata nei mercati azionari nelle ultime settimane è stata in gran parte influenzata dalla comunicazione impetuosa e imprevedibile del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Le sue dichiarazioni contrastanti hanno alimentato l’incertezza tra gli investitori, generando preoccupazioni su una possibile recessione e rendendo difficile delineare una traiettoria economica chiara e stabile. Tuttavia, la recente flessione del mercato azionario statunitense sembra più una sana correzione che l’inizio di un mercato ribassista dettato dai timori di recessione.

Un elemento chiave a sostegno di questa tesi è la profonda trasformazione dell’economia statunitense dopo la pandemia di Covid-19, che l’ha resa significativamente meno sensibile all’andamento dei tassi di interesse rispetto al passato. L’ampio stimolo fiscale e il rifinanziamento diffuso dei mutui a tassi storicamente bassi hanno rafforzato la capacità di resilienza di consumatori e imprese, consentendo loro di affrontare meglio eventuali incrementi dei tassi. Un ulteriore indicatore a supporto della bassa probabilità di recessione è la ripresa dell’indice PMI manifatturiero: l’indice globale ha superato la soglia critica dei 50 punti, che distingue la fase di espansione economica da quella di contrazione, e il numero di paesi in cui il PMI manifatturiero si attesta sopra i 50 punti è in aumento. La ripresa del settore manifatturiero è favorita dall’atteggiamento accomodante delle banche centrali globali, la maggior parte delle quali ha adottato politiche di allentamento monetario. Oltre l’80% delle banche centrali ha infatti ridotto i tassi di interesse nell’ultima riunione, un ulteriore segnale positivo per il ciclo manifatturiero.

Parallelamente, il settore dei servizi continua a dimostrare solidità, con una domanda di lavoro ancora robusta. Il mercato del lavoro statunitense resta resiliente, nonostante i recenti tagli occupazionali, dovuti in gran parte a licenziamenti governativi attuati dall’amministrazione Trump. L’unico comparto più debole è quello immobiliare, con le perdite occupazionali concentrate principalmente nei settori legati al settore Real Estate, in particolare nelle agenzie immobiliari e negli istituti di credito che emettono finanziamenti a imprese e consumatori. L’aumento dei tassi ha infatti inciso sul mercato immobiliare negli ultimi due anni, tuttavia, rimane relativamente solido, sostenuto da una domanda strutturale ancora elevata.

Un ulteriore fattore che potrebbe contribuire a ridurre l’incertezza sui mercati finanziari è l’andamento dell’indice US Breakeven a 5 e 10 anni, che riflette le aspettative di inflazione media annua nei prossimi anni. Dopo aver raggiunto un picco a inizio anno, questi indicatori sono tornati a scendere, scongiurando il rischio di una nuova impennata inflazionistica. Tre fattori principali spiegano questa tendenza: la crescita salariale sta rientrando in un’area non inflazionistici (circa il 4% annuo), il mercato immobiliare (in particolare il segmento degli affitti) sta mostrando segnali di stabilizzazione, e i prezzi del petrolio – una variabile chiave per l’inflazione – sono in calo. Storicamente, l’inflazione non accelera senza un aumento del prezzo del petrolio, e la tendenza attuale conferma questo quadro. Considerando la ridotta sensibilità dell’economia ai tassi di interesse, la ripresa del settore manifatturiero, la solidità dei servizi e la resilienza del mercato del lavoro, la probabilità di una recessione negli Stati Uniti appare inferiore a quanto indicato dai modelli tradizionali.

L’analisi condotta dalla società indipendente Ned Davis, basata su dati storici dal 1928 al 2024, mostra la performance media dell’S&P 500 equipesato, tenendo conto delle performance annuali, del primo anno di ogni ciclo presidenziale e del quinto anno di ogni decennio. Se questa tendenza si ripetesse nel 2025, la correzione registrata dall’inizio di marzo potrebbe rientrare nella normale stagionalità dell’indice, che storicamente tra marzo e aprile si muove lateralmente o leggermente al ribasso, per poi riprendere la crescita. L’analisi suggerisce che l’S&P 500 potrebbe chiudere l’anno con un incremento intorno al 10%. Questa ipotesi è supportata anche dalla revisione al rialzo delle stime sugli utili per azione (EPS) delle società dell’S&P 500 negli ultimi sei mesi, con un’accelerazione significativa della crescita annualizzata degli EPS negli ultimi cinque anni. Inoltre, il ROE (Return on Equity) dell’indice si attesta su livelli storicamente elevati. In virtù della composizione dell’indice, si può stimare una crescita degli utili compresa tra il 10% e il 12%, un elemento che potrebbe sostenere la ripresa dei mercati nei prossimi mesi.