In politica, il potere gioca su più livelli e ciò che ci viene raccontato è solo lo strato superficiale di qualcosa di più profondo. La verità assoluta sembra quindi irraggiungibile, a meno che non si indaghi sui dettagli.
Di Alessio Cardinale, CEO e direttore editoriale di Patrimoni&Finanza
La verità sui fatti storici e sulle scelte che li hanno determinati non è reperibile dai titoli dei giornali né dai discorsi ufficiali dei protagonisti delle Istituzioni. Essa si annida nei dettagli, nei collegamenti tra gli eventi e nelle dinamiche che pochi hanno la capacità (e la voglia) di approfondire. In più, la ricerca della verità storica è fortemente condizionata da due fattori, e cioè dalla volontà politica di camuffarla e dal tempo: più siamo vicini temporalmente all’accadimento di quei fatti su cui si intende indagare, più è difficile individuare i segreti obiettivi che hanno determinato certe scelte; più ci allontaniamo con il tempo dal momento in cui i fatti si sono verificati, più chiari sono i motivi che hanno spinto i “decisori” di quel tempo a preferire alcune scelte ad altre che erano in teoria più utili e sostenibili.
La verità assoluta è sempre complessa e irraggiungibile, poichè il potere gioca su più livelli e spesso ciò che appare evidente è solo lo strato superficiale di qualcosa di più profondo. Per avvicinarci alla verità, è fondamentale mettere insieme i pezzi, individuare le connessioni che non vengono mai evidenziate dai media e lavorare sui dettagli più piccoli, che sfuggono all’osservazione perché in apparenza insignificanti. La ricerca della verità è, pertanto, un esercizio di riflessione, di attenzione ai dettagli e soprattutto di logica; logica storica, in particolare, che ci viene in aiuto quando tutte le false ipotesi legate alla narrazione ufficiale cadono una ad una e lasciano aperte, al massimo, solo una o due possibilità, spesso complementari e intrecciate tra loro, ma sicuramente plausibili. Sempre più spesso, infatti, sono i risultati storici susseguenti a certe scelte a suggerire la verità dei “perché” (quelle stesse scelte sono state fatte), lasciando coperta spesso la verità dei “chi” (quelle stesse scelte ha fortemente voluto). Così analizzando i fatti, i dettagli trovano miracolosamente una loro collocazione, come in un puzzle dalle tessere mancanti, e tutto nel tempo diventa più chiaro.
Per esempio, in tema di dettagli nessuno ha mai fatto notare l’assurda decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro, preferendo ad esse le monete. Eppure, fino al giorno prima in Italia circolavano banconote da 1.000, 2.000 e 5.000 Lire. Con le “milline” ci pagavi il parcheggiatore abusivo, oppure una pizzetta, un cono gelato, un uovo Kinder, 4 bustine di figurine Panini, le Big Babol, una lattina di Coca-Cola, un Mars, un tubetto di Smarties; con le 2.000 lire cappuccino e cornetto, tra le altre cose; con le 5.000 lire mettevi la miscela nel motorino e ci camminavi una settimana, tanto per dire. Insomma, a livello reale (potere d’acquisto) e cognitivo, l’uso delle banconote di quel valore era legato indissolubilmente all’acquisto di beni di largo consumo per i quali, dopo sole sei settimane dell’ingresso in circolazione delle “monetine”, ci volle esattamente il doppio.
Non c’è dubbio, quindi, che questo “dettaglio” delle monetine, passato del tutto inosservato – anzi, tutti felici a comprare i porta-euro da tasca – sia stato la causa di numerose distorsioni cognitive nei cittadini sul reale valore dell’euro e, soprattutto in Italia, abbia causato un aumento dei prezzi al consumo indotto, per così dire, da queste distorsioni e da chi se n’è approfittato. La domanda vera è: le neonate autorità europee e, soprattutto, i c.d. tecnici che “fabbricano” le decisioni, erano al corrente di questa possibilità e hanno clamorosamente fallito, oppure è sbagliata l’interpretazione a posteriori del dettaglio? Secondo gli economisti più accreditati, il passaggio dalla lira all’euro ha creato diverse distorsioni percettive, e la decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro ha sicuramente giocato un ruolo in questo processo. Infatti, le neuroscienze e la psicologia economica dimostrano che il formato della valuta influenza la
percezione del suo valore. In altre parole, le persone tendono a spendere più facilmente le monete rispetto alle banconote perché le prime sono percepite come “spiccioli”, quindi di minor valore. E così, quando l’euro entrò in circolazione nel 2002, molti beni di uso quotidiano (caffè, giornali, pane, ecc.) che prima costavano l’equivalente di 500 o 1000 lire furono arrotondati a 1 euro o più. Questo fenomeno – noto come “inflazione non percepita” – si deve in parte proprio al fatto che 1 e 2 euro erano monete e non banconote, rendendo gli aumenti meno evidenti e più facilmente accettabili dai consumatori.
L’UE era consapevole di questo effetto? È difficile pensare che economisti e tecnocrati di Bruxelles non fossero a conoscenza di queste dinamiche psicologiche dei consumi. Alcuni studi sul comportamento dei consumatori avevano già evidenziato il cosiddetto “effetto soglia“, per cui le persone sono meno sensibili agli aumenti quando il mezzo di pagamento è meno “pesante” psicologicamente. Inoltre, già durante la transizione all’euro, si parlava del rischio che gli esercenti approfittassero dell’arrotondamento per far salire i prezzi, cosa che poi è effettivamente successa in diversi Paesi; ma soprattutto in Italia, dove la lira aveva valori nominali molto più alti e il cambio con l’euro era particolarmente sfavorevole (1 euro = 1936,27 lire).
Tuttavia, non ci fu una vera strategia europea per contenere questi effetti. L’UE , notoriamente “asfissiante” sulle politiche di controllo della finanza dell’Unione, lasciò ai singoli Stati la gestione della transizione, e in Italia mancò un controllo efficace sui prezzi. In Germania e Francia, per esempio, ci furono campagne informative più forti e maggiori controlli sui rincari. Fu errore o scelta deliberata? Qui sta il punto cruciale: se fosse stato un errore, l’UE avrebbe dovuto correggerlo negli anni successivi, magari introducendo banconote da 1 e 2 euro per mitigare l’effetto percettivo. Se fosse stata una scelta deliberata, allora si potrebbe ipotizzare che l’inflazione indotta fosse considerata un effetto collaterale accettabile, o addirittura utile per accelerare l’adattamento all’euro e ridurre il valore reale dei salari senza doverlo fare con riforme impopolari. Difficile avere una prova definitiva, ma il fatto che l’UE non sia mai intervenuta per correggere questa distorsione fa pensare che fosse almeno un effetto previsto, se non proprio desiderato. E questo ce lo dice la logica “storica” usata per arrivare alla verità rivelata da un semplice dettaglio.
C’era una strategia più ampia dietro? In molti sapevano, e il non aver voluto riparare all’errore, anche a posteriori, fa pensare ad una regia dietro, che tramava per indebolire l’Italia, che allora era la sesta potenza mondiale, con una strategia di lungo termine, e il ruolo odierno dell’Italia nello scacchiere internazionale ne sarebbe la prova. Questa verità, che nel 2000 sarebbe apparsa come frutto di complottismo e forse sarebbe stata derisa, oggi rivela tutta la sua forza e le sue solide basi logiche. L’Italia, prima dell’introduzione dell’euro, era una delle principali potenze industriali del mondo, con un settore manifatturiero tra i più forti a livello globale e una capacità produttiva che faceva concorrenza diretta a Germania e Francia. Il declino relativo dell’Italia negli ultimi vent’anni potrebbe quindi non essere stato solo il risultato di errori interni, ma anche di un progetto più ampio.
Tutto questo, però, andrebbe provato con elementi che supportano l’ipotesi. Eccone alcuni:
1. il tasso di conversione della lira fu fissato a 1936,27 lire per un euro, un valore che molti economisti ritenevano sopravvalutato. Questo rese le esportazioni italiane più costose rispetto a quelle tedesche, penalizzando la competitività dell’industria italiana. La Germania, invece, beneficiò di un euro “debole” rispetto al vecchio marco, favorendo il suo surplus commerciale;
2. l’Italia è stata tra i Paesi più penalizzati dalle rigide regole di bilancio dell’UE (Patto di Stabilità e Fiscal Compact), che hanno impedito investimenti pubblici e ridotto la capacità di crescita del Paese. La Germania, nel frattempo, violò gli stessi vincoli nel periodo della riunificazione senza subire conseguenze;
3. molte grandi aziende italiane sono state acquisite da gruppi stranieri (Fiat ha spostato la sede nei Paesi Bassi, Pirelli è passata ai cinesi, Parmalat ai francesi, ecc.). Settori chiave come l’energia e le telecomunicazioni hanno subito pressioni politiche e finanziarie per essere ridimensionati o venduti. L’Italia è passata dall’essere una potenza manifatturiera a un Paese con un’economia sempre più basata su servizi e turismo, con meno peso strategico;
4. la speculazione contro i titoli di Stato italiani (crisi dello spread 2011) ha mostrato quanto facilmente l’Italia potesse essere messa sotto pressione dai mercati, con un’azione che favorì il cambio di governo. I governi tecnici e le riforme imposte dall’esterno hanno ridotto lo spazio di manovra politica, consolidando la dipendenza dell’Italia da Bruxelles e dalla BCE.
Questi dettagli, tuttavia, non spiegano il movente: perché indebolire l’Italia? E’ presto detto. Se l’Italia avesse mantenuto la sua forza economica e industriale, avrebbe potuto essere un terzo polo nell’UE, capace di bilanciare il dominio franco-tedesco. Invece, con un’economia più fragile e più dipendente dall’UE, la sua influenza geopolitica si è ridotta drasticamente. In sintesi, sembra una strategia di lungo termine, in cui diversi Paesi europei hanno tratto vantaggio dall’indebolimento italiano:
– la Germania ha consolidato il suo dominio industriale;
– la Francia ha rafforzato la sua presenza economica in Italia;
– le istituzioni europee hanno trovato più facile imporre politiche eccessivamente severe imponendo la rigida visione dei Paesi c.d. frugali contro il meridione d’Europa e, soprattutto, contro un’Italia militarmente ancora nelle mani degli Stati Uniti ma industrialmente forte, pronta a fare da possibile contrappeso. Adesso, però, abbiamo superato il punto di non ritorno: l’Italia non ha alcun margine per ribaltare questa situazione, e non esistono forze interne ed esterne (USA) capaci di consentire al nostro Paese di reagire ad una dipendenza irreversibile dall’UE e dai mercati finanziari.
Questa è l’ultima verità di oggi, ed è la peggiore di tutte.