Ottobre 6, 2024
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Paesi BRICS, sempre più vicina la nuova valuta comune. Quale impatto su oro e dollaro?

L’intenzione di creare una nuova valuta all’interno dei BRICS non è più solo una voce. Quali effetti potrebbe avere questa nuova valuta sulla geopolitica e sull’oro?

Com’è noto, ad agosto 2023 si è svolto in Sudafrica il 15° vertice BRICS. Guidato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, le cui iniziali danno il nome a questo gruppo di nazioni, l’evento si è svolto sullo sfondo della guerra ancora in corso tra Russia e Ucraina. Ma ieri come oggi, a distanza di un anno da quel vertice, il conflitto tra la Russia di Putin e l’Ucraina-NATO non era l’unica questione chiave all’ordine del giorno: l’altro argomento scottante era la creazione di una nuova valuta comune a quei paesi. In termini economici, una nuova valuta rivale potrebbe essere una bomba per gli USA, poichè potrebbe seriamente minare il dollaro (USD) come valuta internazionale preferita. Tanto più che i paesi BRICS potrebbero lanciare la valuta prima della fine del 2024, portando a uno spostamento del potere economico globale e ad alcuni effetti su altre valute e sull’oro.

Perché i paesi BRICS stanno creando una valuta comune? Dopo la prima e la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano all’apice del loro potere politico, godendo di un dominio globale nelle relazioni internazionali e così riuscendo a rendere il dollaro quale valuta dominante per il principale commercio mondiale: niente dollari, niente petrolio. Questa dipendenza dal dollaro ha esposto sia i BRICS che il mondo intero ai rischi legati alle fluttuazioni del dollaro, nonché alle sanzioni degli Stati Uniti, come quelle che vengono adottate in periodi di conflitto, che possono limitare le risorse finanziarie di un paese. La Russia, meritatamente, è stata colpita da tali sanzioni sin dallo scoppio della guerra con l’Ucraina.

A questo punto, è lecito chiedersi se stiamo andando verso una “dedollarizzazione“, e soprattutto se “la festa è finita” per il dollaro. Tutto farebbe pensare di sì, perché il concetto di dedollarizzazione, ovvero l’indebolimento incrementale e strategico del potere economico globale del dollaro, si è intensificato negli ultimi anni. Sebbene il progetto di moneta comune dei BRICS debba ancora concretizzarsi ufficialmente, questo gruppo di paesi ha da tempo svolto un ruolo centrale nella strategia di dedollarizzazione. Le nazioni dei BRICS rappresentavano oltre il 26% del PIL mondiale nel 2023; e adesso intendono diversificare le proprie riserve valutarie e promuovere l’uso delle proprie valute nazionali. La Cina, in particolare, ha promosso l’uso dello yuan nelle transazioni internazionali e negli accordi di swap valutario. Anche la Russia ha intensificato gli sforzi per ridurre la propria dipendenza dal dollaro, favorendo il commercio in rubli e yuan. Il risultato di questa graduale dedollarizzazione è già evidente: alla fine del 2023 l’USD rappresentava circa il 58% delle riserve valutarie globali, rispetto a oltre il 70% negli anni ’90.

Quale potrebbe essere l’impatto economico di questa nuova valuta dei BRICS? È troppo presto per dirlo, poiché l’impatto dipenderà dal successo dell’integrazione della nuova moneta comune nell’economia globale. In generale, due scenari sembrano possibili:
– una coesistenza tra valute locali e la moneta BRICS, utilizzata principalmente nel commercio internazionale e/o in transazioni specifiche (ad esempio materie prime);
– una graduale sostituzione delle valute locali con la nuova moneta super comune; simile a quanto accaduto con i paesi dell’Eurozona nel 2002.

Relativamente all’oro, negli ultimi due anni sono circolate teorie sulla possibilità che la nuova moneta comune dei BRICS possa essere supportata da un paniere di materie prime, tra cui l’oro. Questa strategia consentirebbe alla nuova moneta di svolgere il suo ruolo di riserva di valore, simile a come funziona ora il dollaro. In questo scenario, i paesi BRICS avrebbero tutti gli incentivi per continuare ad aumentare le loro riserve auree per sostenere il valore della loro nuova moneta, aumentando ulteriormente il prezzo del metallo giallo. Inoltre, vale la pena notare che i paesi BRICS sono già tra i maggiori acquirenti di oro: nel 2023, la Cina ha aggiunto 102 tonnellate metriche (MT) di oro alle sue riserve, mentre la Russia ne ha aggiunte 31,1 MT.

Infine, la domanda più urgente: il dollaro può competere con la valuta BRICS? In teoria, la valuta comune dei BRICS potrebbe rapidamente diventare una delle valute più utilizzate al mondo. Dopotutto, la popolazione complessiva dei paesi BRICS ammonta a 3,3 miliardi di persone, rispetto agli 800 milioni dei paesi del G7. Ciò potrebbe ridurre significativamente la domanda di dollari, diminuendone il valore. Attualmente, il dollaro è visto come una riserva di valore semplicemente a causa del suo predominio nel commercio globale, per cui l’indebolimento del dollaro potrebbe gettare le basi per un nuovo sistema monetario globale. Molto più di quanto non sia stato capace di fare l’Euro.

Il Giappone unica stampella del traballante sistema finanziario americano

Negli ultimi 14 anni gli USA hanno beneficiato di due banche centrali che hanno iniettato liquidità in America. Il QE di Boj e Fed hanno sostenuto una sola economia: se il Giappone cresce, l’equilibrio si spezza.

di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy

La crisi di agosto dei mercati finanziari, rapidamente contenuta, lascia un messaggio molto chiaro agli investitori: appena si diffonde il dubbio che il quadro macro possa essere diverso da quello raccontato, i mercati si sgretolano nel vuoto sottostante. È particolarmente interessante notare come la psicologia che tiene in piedi questo mercato sia estremamente fragile e bisognosa di costanti interventi. In un contesto dove tutto sembra in apparenza andare nella direzione della esasperata narrazione che il sistema è solido e l’economia cresce, è bastato il dubbio che questo non fosse vero che il sistema si è immediatamente trovato in crisi.

Ma questo evento mette in evidenza anche la stretta interconnessione finanziaria che lega, in un abbraccio indissolubile, Bank of Japan e Fed, e come il Giappone sia ormai diventato l’unico puntello di sostegno del malato sistema finanziario americano. Il problema è che oggi le due banche centrali hanno obiettivi divergenti: mentre una cerca di contenere l’inflazione, l’altra cerca di produrla reflazionando. Da circa 25 anni la Boj e il risparmio giapponese hanno finanziato il leverage americano e sostenuto l’espansione del debito per finanziare la crescita Usa. Il meccanismo sta in piedi se lo yen è strutturalmente debole e i tassi del paese esportatore di capitale e di risparmio stanno a zero, mentre quelli del paese che deve importare risparmio e capitale estero stanno in territorio positivo.

Lo spread dei tassi tra dollaro e yen deve dunque essere sempre ampiamente negativo per lo yen. In questo modo tutta la politica di quantitative easing del Giappone finisce negli Stati Uniti. Il meccanismo ha consentito agli Stati Uniti di avere, per oltre 25 anni, una banca centrale che stampava moneta all’estero (Boj) ma che canalizzava poi la liquidità creata negli Stati Uniti. L’America ha quindi beneficiato, in particolare negli ultimi 10/14 anni, di due banche centrali che iniettavano liquidità nel sistema finanziario Usa, dove il QE di Boj e Fed sosteneva quindi una sola economia e non due. Infatti, il Giappone non ha mai beneficiato della liquidità creata da Boj (l’economia ha sempre ristagnato) dato che spariva nei meandri dei carry trade necessari per sostenere il leverage Usa. È evidente che il moltiplicatore monetario Usa, calcolato con l’aggiunta della liquidità di Boj, produce un pessimo e disastroso risultato finale: colossale liquidità (Fed e Boj) ma bassa crescita e pericolose bolle speculative.

Anche la Bce ha contribuito a tale meccanismo durante la gestione Draghi, dato che i tassi sull’Euro si sono allineati a quelli giapponesi e tutta la liquidità della Bce è in realtà servita a sostenere carry trade verso il dollaro, procurando pochi benefici alle economie Ue. Il moltiplicatore monetario Usa è quindi già in crisi da molto tempo, nonostante i mercati finanziari continuino a credere che basta stampare moneta per risolvere i problemi strutturali dell’economia. Questo abbraccio “mortale” tra banche centrali, in particolare Boj e Fed, regge se il Giappone ristagna in deflazione e i ritorni sugli investimenti in yen rimangono decisamente più bassi di quelli in dollari. Se l’economia giapponese, dopo 30 anni di stagnazione, volesse cambiare strategia e tornare a crescere, ecco che l’equilibrio si rompe e i flussi di capitale, che sostengono la leva finanziaria con la quale l’economia Usa cresce, si invertono.

Questo meccanismo spiega però anche un’altra cosa: nessuna economia del G3 può veramente utilizzare la liquidità che immette nel sistema e non può avere un cambio più forte del dollaro. Se dovesse accadere che euro e yen, o Europa e Giappone, impiegassero la liquidità immessa da Bce e Boj nelle loro economie e la loro crescita dovesse superare quella americana, ci sarebbe una crisi di dollaro e un deleverage in America. Stando così le cose, le economie di Giappone ed Europa sono condannate alla stagnazione eterna per sostenere questo meccanismo. Per quanto tempo i governi di Europa e Giappone reggeranno alle pressioni di una opinione pubblica che invece vuole la crescita? La crescita dei salari reali per superare la stagnazione è per questi paesi una scelta necessaria ma anche un serio problema per l’America, dato che implica più crescita e una inflazione più alta in Ue e Giappone e l’inflazione più alta implica tassi più alti, ma tassi più alti in Giappone ed Europa sono malvisti dagli Stati Uniti, che li vedono come una minaccia al differenziale di rendimento che deve sempre essere ampiamente a loro favore.

È quindi evidente che le recenti politiche reflazionistiche giapponesi, mirate a far salire i salari reali e a stimolare la crescita, sono una minaccia per gli interessi americani e per Wall Street. Infatti, la Sig.ra Yellen ha più volte criticato Boj e il governo giapponese perché ritiene che il Giappone, prima di decidere la sua politica economica, si deve consultare con gli Stati Uniti che, aggiungo io, gli direbbero quello che possono fare e non fare. Questo illustra a che punto siamo arrivati: per sostenere le bolle finanziarie americane il resto del mondo, Cina compresa, deve essere condannato alla stagnazione, per non diventare un potenziale polo di attrazione o competitor del capitale globale che serve prevalentemente agli Stati Uniti e alla finanza speculativa americana. La Cina stava per posizionarsi infatti come un competitor di capitali, ma è stata prontamente eliminata dal sistema nel corso degli ultimi due anni, con politiche mirate a contenere gli investimenti (non solo finanziari) dei paesi occidentali in Cina.

Un ulteriore problema alla tenuta di tale meccanismo è come l’America utilizza il capitale che riceve dai paesi che glielo prestano. Se lo utilizzi per fare economia reale e produci crescita globale, l’effetto trascinamento esercitato dalla crescita Usa viene in parte catturato anche dai paesi satelliti che ti finanziano, ma se utilizzi tale capitale per fare prevalentemente finanza speculativa, la crescita economica ristagna anche in America e l’effetto trascinamento sparisce, generando problemi interni ai paesi che esportano il capitale che servirebbe a finanziare la loro crescita e non quella americana. Infatti, nonostante le ripetute politiche fiscali di sostegno per puntellare questo modello economico-finanziario costruito sui carry trades e sulla finanza speculativa (25 punti di Pil solo negli ultimi tre anni), il sistema non riesce più a produrre ricchezza e le spinte populiste si stanno facendo sempre più forti in tutto il mondo occidentale (e continueranno a crescere).

In definitiva, essere “bullish” su questo modello di sviluppo è come essere bullish sulla “fine del mondo”, dato che il meccanismo è insostenibile e il suo cedimento è inevitabile e avrà ripercussioni impensabili. La stratosferica dimensione del debito del sistema, costruito su finanza speculativa e carry trades ormai da vent’anni, rende tale meccanismo impossibile da fermare senza provocare comunque una profonda crisi, ed è dunque obbligato a percorrere la sua strada fino in fondo, senza alcuna possibilità di correzione della rotta. Nel frattempo la narrazione rimane “necessariamente” concentrata su quanto la Fed ridurrà i tassi, nell’illusione collettiva che i fondamentali sottostanti potranno modificarsi in meglio solo in base alla variazione dei Fed Funds. Il panico di agosto è solo un piccolo esempio di cosa accadrà quando la “fiducia” nel modello cederà ed evidenzia quanto sia fragile e non solido il sistema nel quale abbiamo riversato la più grande “scommessa long” degli ultimi cento anni.

Trump vs Harris: il mondo attende mentre l’economia Usa segue il suo sentiero

Economia USA: i singoli numeri non sono allarmanti, ma persiste preoccupazione dal punto di vista macroeconomico. Nel frattempo la Bce taglia di nuovo i tassi.

di David Pascucci, analista dei mercati di XTB

A pochi giorni dal primo dibattito pubblico tra Kamala Harris e Donald Trump, durante il quale i due candidati alla presidenza degli Usa hanno tenuto un confronto di circa 1 ora e 45 minuti, si sono affrontati vari temi, soprattutto quelli relativi a geopolitica ed economia.  In sintesi, si parte subito con il dibattito economico, tema molto caro agli americani, con la Harris che promette sgravi fiscali per le piccole imprese mentre Trump ribatte parlando della attuale situazione definita come “disastrosa” per via dell’inflazione. Harris afferma di avere un piano per la classe media e in generale per la “working class” parlando di “economia delle opportunità” mentre Trump ribatte a questa affermazione accusando l’attuale governo di essere stato “disastroso” per tutte le classi.

La Harris accusa Trump di aver lasciato l’economia Usa con la disoccupazione più alta dalla grande depressione del 1929, Trump ribatte dicendo che ha creato una delle economie più forti anche grazie ai dazi nei confronti della Cina. Sul tema geopolitico Trump afferma che con lui alla presidenza finirà la guerra tra Russia e Ucraina, nel mentre la Harris afferma che con lui alla presidenza avremmo avuto Putin a Kiev con gli occhi puntati verso l’Europa. Un dibattito alquanto inconsistente dal punto di vista dell’economia, con pochi punti chiari da ambo le parti e senza alcun punto forte e presa di posizione nei confronti dell’attuale situazione economica.

La situazione economica degli Usa, per quanto i numeri presi singolarmente non siano eccessivamente allarmanti, risulta preoccupante da un punto di vista macroeconomico. La disoccupazione non é alta, si trova poco sopra il 4%, ma di fatto la tendenza al rialzo sembra essere segnata e quando vediamo una disoccupazione al rialzo con questi ritmi, non abbiamo visto di certo un’espansione economica, anzi, abbiamo sempre assistito ad un rallentamento. Il rallentamento del mercato del lavoro viene confermato dal ribasso dell’inflazione, spinto solitamente da un calo della domanda, mentre da un punto di vista della gestione delle politiche monetarie, la Fed dovrà attuare un ciclo di taglio dei tassi qualora dovesse peggiorare il mercato del lavoro, evento che è già sotto gli occhi di tutti.  

Al momento, vedendo le correlazioni macroeconomiche principali, il prossimo presidente avrà a che fare una situazione alquanto delicata che ricorda le stesse condizioni viste tra il 2000 e il 2003 e tra il 2007 e il 2009, ossia tassi alti, inflazione al di sopra del target e disoccupazione sui minimi in via di peggioramento, condizioni che hanno portato ad un epilogo tutt’altro che roseo sui mercati azionari. Il futuro esito delle elezioni non potrà quindi fermare quelle che sono le leggi macroeconomiche, forze inarrestabili nel momento in cui iniziano a intraprendere una direzione ben precisa. Ricordiamo che le decisioni in merito alle politiche monetarie, o a politiche fiscali, hanno un impatto sull’economia solamente dopo che il quadro macro si é assestato sulle sue regole fondamentali.  

Il mercato del lavoro è al momento al centro dell’attenzione degli operatori di mercato, un mercato del lavoro che è precario a livello globale, questo per via del forte aumento dei tassi di interesse su scala globale, condizione essenziale per una diminuzione di quell’inflazione che è andata sui massimi storici circa 2 anni fa. Il rallentamento attuale sembra essere inevitabile, il mercato del lavoro sarà il primo vero compito da svolgere per il nuovo presidente degli Usa, un compito non facile considerando la grandezza imponente di questa variabile economica fondamentale.

Nel frattempo, la Bce ha portato i tassi di interesse dal 4,25% al 4%, un taglio già ampiamente previsto dagli operatori che di certo non rimangono sorpresi da questa decisione piú che doverosa. Con un’inflazione al 2,2%, quindi vicina al target, questo dovrebbe essere uno dei tanti tagli che vedremo nel corso dei prossimi mesi. L’entitá dei prossimi tagli sará strettamente dipendente dall’andamento dell’inflazione, giá al 2,2% e dall’andamento del tasso di disoccupazione che potrebbe essere determinante cosí come lo é per l’economia Usa. Qualora l’economia dovesse rallentare in modo vistoso, come stiamo vedendo in Germania, il ritmo dei tagli potrebbe diventare ancor piú aggressivo.

Economia USA, la recessione non si può escludere. Servirà uno stimolo fiscale

Nonostante le crepe nell’economia statunitense, la Fed non interviene sui tassi per paura di una seconda ondata di inflazione. L’unica ancora di salvezza sarebbe uno stimolo fiscale del governo.

Di Alberto Conca, gestore Zest Asset management Sicav e responsabile investimenti Lfg+Zest

Se i mercati finanziari (cioè il consenso) credono in un soft landing, allora si potrebbe concludere che quest’ultimo è l’esito più probabile. Tuttavia, i dati economici recenti suggeriscono che si stanno formando delle crepe nell’economia statunitense, in particolare tra i consumatori a basso reddito, all’interno del mercato del lavoro e in alcune aree del mercato immobiliare.

Il fatto che per più di due anni, da quel marzo 2022 in cui la Federal Reserve ha aumentato per la prima volta i tassi di interesse, l’economia Usa sia andata bene nonostante l’aumento dei tassi di interesse, non significa che non si rischi una recessione. Certo non è detto che un’economia cada sempre in recessione se i tassi di interesse rimangono a livelli elevati per un periodo prolungato. Tuttavia, le probabilità non sono a nostro favore e il secondo trimestre 2024 ha fornito poche prove che questa volta potrebbe essere diverso, nonostante gli ottimi risultati dei mercati finanziari che potrebbero indurci a pensarla in altro modo.

L’esaurimento del risparmio in eccesso delle famiglie statunitensi costringerà i consumatori a risparmiare di più, in un momento in cui la crescita dei salari si sta normalizzando e la disponibilità di credito è limitata da standard di prestito più rigidi da parte delle banche, con conseguente riduzione dei consumi. Il risultato è che la crescita delle vendite reali al dettaglio è negativa da tempo, mentre i tassi di insolvenza sui debiti delle famiglie sono in aumento e potrebbero raggiungere un livello preoccupante entro l’autunno. D’altra parte, la fascia più alta della popolazione, in termini di reddito, che rappresenta il 40% della spesa discrezionale, sta continuando a spendere, ma non si sa quanta domanda repressa rimanga. Inoltre, la sua propensione marginale al consumo è bassa. Finché i tassi d’interesse rimarranno elevati, ci aspettiamo che i consumatori congelino la loro volontà di spesa.

L’aumento dei tassi di interesse ha effetti negativi anche sul mercato immobiliare, che presenta evidenze contraddittorie: nelle case monofamiliari continua a esserci carenza di offerta, mentre vi è eccesso nel mercato multifamiliare, il quale sta portando a un rallentamento delle vendite. Inoltre, molti proprietari non sono disposti a cambiare casa perché ciò comporterebbe la stipulazione di un nuovo mutuo molto più costoso. Poiché il mercato immobiliare rappresenta una grande fonte di crescita economica, ci aspettiamo che l’attuale rallentamento abbia effetti rilevanti sull’economia, a partire dal mercato del lavoro.

In effetti, l’ultimo trimestre ci ha suggerito che il mercato del lavoro ha iniziato a raffreddarsi. Il tasso di disoccupazione è passato dal minimo del 3,4% di gennaio 2023 al 4,1% di giugno di quest’anno. Il dato più preoccupante è che negli ultimi tre mesi è aumentato costantemente (dal 3,8% al 4,1%). Contemporaneamente, il numero di lavoratori temporanei sta crollando. Perché è importante? Perché le aziende tendono a licenziare i lavoratori part-time prima di iniziare a tagliare i dipendenti a tempo pieno. La storia dimostra che quando il tasso di disoccupazione inizia a salire, tende ad auto-alimentarsi, poiché la perdita di posti di lavoro porta a una riduzione dei consumi, che a sua volta porta a un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Una conferma del deterioramento del mercato del lavoro viene anche dal lato della domanda: il numero recente di nuove assunzioni è stato scarso, se si escludono quelle effettuate negli uffici pubblici e nel settore sanitario. Allo stesso modo, il tasso di apertura dei posti di lavoro puntano tutti nella stessa, cupa direzione.

Raffreddamento dei consumi, allargamento delle crepe nel mercato immobiliare e indebolimento del mercato del lavoro: ci sono tutti gli ingredienti necessari perché la Fed inizi a tagliare i tassi in modo aggressivo. Eppure, la banca centrale esita. L’origine di questa impasse è ancora una volta il timore che un taglio dei tassi troppo precoce possa scatenare una seconda ondata di inflazione. Mentre anni di inflazione contenuta hanno compensato i picchi registrati nel recente passato, ora siamo tornati al trend di lungo periodo e quindi un’inflazione superiore alla media rischierebbe di disancorare le aspettative a lungo termine, con lo spettro degli anni ’70 che aleggia tra le mura del Marriner S. Eccles Building. La buona notizia è che l’inflazione, dopo un inizio d’anno sorprendentemente forte, sta ora regredendo inesorabilmente verso l’obiettivo della Fed. Rispetto al trimestre precedente, siamo più fiduciosi che i prezzi continueranno a scendere nei prossimi mesi, poiché le variabili di “catch-up” stanno per entrare in gioco. Ad esempio, il tasso di crescita degli affitti dei nuovi inquilini è quasi nullo, il che ridurrà il tasso di crescita medio degli affitti, poiché i contratti esistenti che scadono vengono rinnovati a prezzi più bassi.

Purtroppo, le buone notizie finiscono qui. Una recessione non è un evento a probabilità zero. Sebbene non ci aspettiamo qualcosa di simile a quello verificatosi durante la grande crisi finanziaria, il nostro orientamento è in netto contrasto con il crescente ottimismo dei principali Ceo sulla possibilità di evitare una recessione. Con un’economia in rallentamento e la Fed incapace di tagliare in modo aggressivo, l’unica ancora di salvezza in circolazione è uno stimolo fiscale da parte del governo. Tuttavia, considerando lo stato (delicato?) del bilancio pubblico statunitense, è altamente improbabile che possa essere implementato. Piuttosto, è probabile che la necessità di ridurre il deficit di bilancio diventi un detrattore della crescita economica in futuro.

I mercati europei sapranno gestire lo shock delle elezioni francesi?

L’ombrello dell’UE limita le ripercussioni dei cambiamenti di governo in Francia. Le banche centrali ridurranno gradualmente i tassi di interesse reali. Ancora positivi sulle mid-small cap italiane.

di Andrea Scauri, gestore azionario Italia presso Lemanik

L’aumento dell’incertezza geopolitica, che passa anche dalle elezioni in Francia, continuerà a mettere in discussione la narrativa “Goldilocks” (cioè di un ciclo economico equilibrato) e ad aumentare la volatilità dei mercati nel breve periodo. Tuttavia, riteniamo che le possibili ricadute dei cambiamenti di governo in Francia siano gestibili dai mercati, grazie a un assetto istituzionale europeo più solido rispetto al passato. I mercati azionari globali hanno chiuso il mese di giugno in territorio leggermente positivo, con i mercati azionari statunitensi che hanno toccato nuovi massimi grazie alla performance dei “Magnifici 7“. Al contrario, i mercati azionari europei hanno faticato dopo l’esito delle elezioni europee e lo shock delle elezioni anticipate in Francia. Anche i mercati azionari sudamericani sono stati deboli a causa dei persistenti venti contrari sul fronte macroeconomico e delle transizioni politiche.

Nelle elezioni per il nuovo Parlamento europeo, abbiamo assistito a un aumento del numero di deputati dei partiti di destra e conservatori, con un indebolimento dei Verdi. Le implicazioni economiche più importanti potrebbero essere che il sostegno alle politiche di transizione verde potrebbe essere leggermente diluito, anche se il PPE rimane il partito più forte dell’Ue e quindi con spazio per confermare gli attuali obiettivi della politica energetica europea. Il Presidente francese Macron ha sorpreso i mercati sciogliendo il Parlamento a seguito dei risultati delle elezioni europee a livello nazionale e ha indetto nuove elezioni, dove al primo turno si è affermato il Rassemblement National di Marine Le Pen. L’aumento dell’incertezza politica che ne è derivato, unito ai crescenti rischi che ciò possa danneggiare le finanze pubbliche francesi, ha portato il differenziale di rendimento dell’OAT decennale francese rispetto alla Germania a 84 pb (+35 pb), il livello più alto degli ultimi 12 anni, con il rendimento dell’OAT decennale al 3,28%, mentre il rendimento del Bund è sceso di 22 pb al 2,4%. L’incertezza politica in Francia ha avuto un impatto anche sugli spread di altri paesi periferici: lo spread BTP-Bund è salito di 30 pb a 160 pb, con il 10Y al 4%.

Come ampiamente previsto, la Commissione europea ha proposto al Consiglio l’apertura di una procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia (e di altri sei Paesi). Non vediamo alcun impatto rilevante a breve termine dalla richiesta di procedura d’infrazione. Lo sforzo per il bilancio italiano non è significativo ed è in gran parte già previsto nel percorso programmatico del governo, che tuttavia ha margini di manovra limitati. Giudichiamo positivamente le dichiarazioni del Ministro dell’Economia Giorgetti (nella foto), che ha rafforzato il concetto di “percorso di cautela” e “selettività” sulla finanza pubblica.

Negli Stati Uniti, l’ufficio di bilancio del Congresso ha pubblicato nuove proiezioni che indicano che il deficit federale dovrebbe essere di 1,9 trilioni di dollari, pari al 6,7% del Pil, nell’attuale anno fiscale 2024. Questa proiezione è superiore di oltre 400 miliardi di dollari rispetto alle previsioni di febbraio. Inoltre, si prevede che il deficit si ridurrà solo marginalmente nei prossimi anni, raggiungendo un minimo del 5,5% del Pil nel 2027, prima che l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei costi di servizio del debito lo riportino verso il 7% del Pil entro un decennio. Anche se riteniamo che i tassi rimarranno strutturalmente più alti rispetto al recente passato, la riduzione del costo del debito ci sembra l’unica strada politicamente percorribile per gestire la crescita del debito pubblico, motivo per cui ci aspettiamo che la Fed riduca i tassi il prima possibile. Questo scenario è favorevole alle azioni nel medio termine.

Il nostro scenario di base prevede una crescita economica modesta che non sfoci in una recessione, con un miglioramento in Europa e un rallentamento della velocità di crescita negli Stati Uniti (in particolare dei consumi) e le banche centrali che ridurranno gradualmente i tassi di interesse reali, prima la Bce, poi la Fed. In questo contesto continuiamo a essere costruttivi sulle mid-small cap italiane: storicamente, queste hanno sovraperformato, in media, all’inizio del ciclo di riduzione dei tassi. I temi chiave del nostro portafoglio rimangono il Green capex, con titoli come Danieli e Prysmian che beneficeranno di un ciclo di investimenti a lungo termine nei rispettivi settori, e la transizione energetica, dove confermiamo il nostro posizionamento sempre su Prysmian.

Elezioni americane, geopolitica e mercati finanziari: lo scenario attuale

Con Biden più sicurezza in Europa, minore volatilità e mercati valutari tranquilli; con Trump dubbi sull’adesione degli Stati Uniti alla NATO e inasprimento commerciale contro la Cina.

di Roberto Gusmerini, Head of Dealing di Ebury Italia

Il 2024 potrebbe essere ricordato come uno degli anni più movimentati dell’era moderna per quanto riguarda la situazione politica mondiale, con ripercussioni rilevanti in termini di politica globale, economia e mercati finanziari. Nell’arco di pochi mesi, infatti, si prevedono tre interessanti appuntamenti elettorali: le elezioni del Parlamento europeo dal 6 al 9 giugno, le elezioni politiche nel Regno Unito, il 4 luglio, e le elezioni presidenziali e del Congresso degli Stati Uniti il 5 novembre.

Per quanto riguarda le ultime due elezioni, va ricordato che sarebbe la terza volta che nell’ultimo secolo esse coincidono nello stesso anno solare. È successo infatti anche nel 1964 e nel 1992 e, come sempre accade, i mercati finanziari si focalizzeranno nei prossimi mesi sugli esiti elettorali. Per quanto riguarda le elezioni negli Stati Uniti, su cui ci concentreremo in questa analisi, il nervosismo degli investitori è assicurato, soprattutto se i sondaggi dei due contendenti, Joe Biden e Donald Trump, continueranno a mostrare una competizione così serrata. allo stato attuale, gli ultimi sondaggi prevedono una sostanziale parità tra i due candidati, con circa il 45% del voto nazionale, ma è noto che i mercati non amano l’incertezza, e la prospettiva di un ballottaggio tra i due candidati verrà sicuramente accolta con un aumento della volatilità e dell’avversione al rischio.

È importante ricordare che, oltre a eleggere il Presidente, gli americani voteranno anche sulla composizione del Congresso. In altre parole, tutti i 435 seggi della Camera dei Deputati e 34 dei 100 seggi del Senato saranno in palio e, come sempre, il risultato finale sarà molto importante per determinare la reazione dei mercati, in quanto detterà la capacità del nuovo presidente e del suo partito di imporre importanti cambiamenti politici. Tutto lascia supporre che, in caso di vittoria, il Presidente Biden proseguirebbe con la sua linea politica continuando a dare priorità alla crescita dell’occupazione, cosa che ha funzionato molto bene durante il suo primo mandato. La politica fiscale rimarrebbe probabilmente espansiva, concentrandosi sul sovvenzionamento della domanda di alloggi e istruzione. A differenza di Trump, il leader democratico cercherebbe anche di proseguire con il programma di aumento delle le tasse sui redditi più alti e sulle grandi aziende, compreso un aumento dell’aliquota fiscale sulle società dal 21% al 28%.

L’amministrazione Biden prevede che questi aumenti fiscali ridurranno il deficit di 3.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, ma la probabilità che una decisa stretta fiscale venga approvata è minima nel contesto politico statunitense. La politica estera, invece, continuerà a essere un tema di estrema importanza. La leadership di Biden non ha portato l’inversione delle politiche di Trump che ci si aspettava, poiché ha mantenuto un alto livello di protezionismo, soprattutto nei confronti della Cina. È probabile che questo rapporto gelido tra gli Stati Uniti e il gigante asiatico continui anche sotto Biden. Allo stesso modo, il continuo sostegno all’Ucraina e la permanenza degli Stati Uniti nella NATO sono dati per scontati.

Per contro, un secondo incarico di Donald Trump potrebbe significare un ritorno al suo approccio “America first”. Verrebbero imposte tariffe sulle importazioni dall’estero per incoraggiare la produzione interna e aumentare il gettito fiscale, e verrebbero attuate politiche per promuovere il reshoring delle attività negli Stati Uniti, tra cui la proposta di una tariffa del 60% sulle importazioni dalla Cina e del 10% su tutte le altre. È altrettanto probabile che sorgano dubbi sull’adesione degli Stati Uniti alla NATO, che aumenterebbe i rischi per la sicurezza europea, e sulla delocalizzazione della produzione industriale negli Stati Uniti, che potrebbe comportare rischi per l’economia e la valuta comune. È anche probabile che si assista a un ritorno ad alcune delle sue precedenti politiche interne; in particolare l’estensione del Tax Cuts and Jobs Act del 2017, che ha introdotto l’aliquota fiscale fissa del 21% per le imprese. La politica fiscale sarebbe espansiva, come quella di Biden, ma con la priorità di stimolare l’offerta attraverso i tagli fiscali piuttosto che facendo aumentare la domanda.

Relativamente ai mercati valutari, sarebbe ragionevole pensare che una vittoria di Biden porterebbe ad una minore volatilità, spingendo la coppia euro-dollaro verso l’alto. Dopo tutto, gli investitori vedono di buon occhio il mantenimento dello status quo e la vittoria del democratico eviterebbe l’antiglobalismo di Trump e ridurrebbe il rischio per la sicurezza europea. Questo avrebbe anche un effetto a catena sulle valute dei mercati emergenti, in particolare quelli asiatici, poiché gli investitori vedrebbero di buon occhio un minore protezionismo e una crescita globale più forte. Al contrario, una vittoria di Trump porterebbe a una maggiore volatilità dei mercati e sarebbe negativa per l’euro-dollaro. Questo perché i mercati si preparerebbero a tariffe più elevate, alla delocalizzazione e all’incertezza sulla NATO. Il risultato sarebbe negativo anche per le valute dei mercati emergenti, con il rischio di nuove barriere commerciali e una politica estera più imprevedibile. Tra tutte le valute, quelle asiatiche saranno probabilmente le più colpite, poiché gli investitori temono un rallentamento della crescita in Cina.

Un altro fattore da non trascurare nelle prossime elezioni statunitensi è il rischio di una crisi costituzionale. Questa situazione non può essere esclusa alla luce dei problemi legali che il candidato Trump deve affrontare. Egli è infatti il primo ex presidente nella storia degli Stati Uniti a essere incriminato penalmente: deve affrontare quattro accuse penali e diverse cause civili. Sebbene la Costituzione degli Stati Uniti non gli impedisca di candidarsi alla presidenza, le varie date dei processi potrebbero influenzare la sua campagna elettorale e una condanna prima di novembre potrebbe danneggiare significativamente le sue possibilità alle urne. Lo scenario più difficile da prevedere sarebbe quello in cui si verifichi una grave controversia sull’esito delle elezioni e, questa volta, Trump ottenga un sostegno sufficiente nelle amministrazioni degli Stati contesi per creare una crisi costituzionale.  Un simile scenario metterebbe seriamente in discussione la capacità del governo statunitense di funzionare con successo e potrebbe portare alla paralisi politica all’interno di Washington. In questo caso, per la prima volta, potremmo assistere a una rottura del classico paradigma di avversione al rischio. In altre parole, questa situazione potrebbe innescare la debolezza del dollaro USA, ma la mancanza di precedenti rende le previsioni molto difficili.

Tensioni geopolitiche e mosse delle banche centrali: l’impatto sui mercati finanziari

L’inflazione rimane al centro di tutte le attenzioni, poiché il percorso verso la disinflazione non sembra ancora del tutto spianato. le economie sembrano dimostrare una resistenza maggiore del previsto.

A cura di Roberto Gusmerini*

Il mese scorso ha messo a dura prova la stabilità dei mercati finanziari, colpendo gli investitori con una serie di eventi di rilevanza globale. Dati macroeconomici, tensioni geopolitiche e decisioni delle politiche monetarie hanno contribuito a delineare un paesaggio di incertezza e fluttuazioni significative. Il conflitto in Medio Oriente, aggravatosi improvvisamente, ha catalizzato l’attenzione dei mercati. La crescente inquietudine geopolitica ha spinto gli investitori verso beni rifugio, determinando un picco del prezzo del petrolio Brent, che ha oltrepassato la soglia psicologica dei 90 dollari al barile – il punto più alto dallo scoppio delle ostilità nella Striscia di Gaza. Questa ondata di instabilità ha minacciato di esasperare le già tese relazioni internazionali. Tuttavia, è stato evitato uno scenario di guerra totale, e questo ha, per ora, parzialmente calmato il nervosismo degli investitori.

La politica monetaria delle banche centrali continua a esercitare la sua influenza predominante sull’animato palcoscenico valutario. Le aspettative di taglio dei tassi sono state temperate, con particolare riferimento agli Stati Uniti dove è cresciuta la percezione che i tassi possano rimanere elevati più del previsto. Gli indicatori di inflazione nell’economia più grande al mondo hanno indotto i mercati a ridimensionare le probabilità di vedere manovre espansive dalla Federal Reserve quest’anno, mentre si sono levate voci di possibili rialzi, prontamente mitigate dalle dichiarazioni del governatore Powell. Nonostante ciò, il dollaro americano ha mostrato un apprezzamento significativo nel corso dell’anno, anche se di recente ha assistito a un arresto del rally, allentando parte dei guadagni nei confronti delle valute principali.

Le recenti dichiarazioni della Fed hanno delineato un approccio più cauto e accomodante, aumentando l’asticella per l’ipotesi di rialzi futuri dei tassi negli USA. Inoltre, un rallentamento della crescita economica e un mercato del lavoro non più così fervido negli Stati Uniti hanno riportato sul tavolo delle discussioni la possibilità di tagli dei tassi anticipati a settembre, mentre il mercato sconta due tagli entro la fine dell’anno. In tale scenario, il dollaro australiano si è distinto, raggiungendo un picco di performance contro il dollaro USA grazie all’aspettativa che la Reserve Bank of Australia possa assumere una posizione più incisiva per arginare l’inflazione. Un mercato del lavoro vigoroso e la pressione inflattiva lasciano presagire non solo l’assenza di tagli imminenti ma l’orientamento verso una politica di rialzi dei tassi.

Ultimo ma non meno importante, assistiamo a un’incoraggiante ripresa economica in Europa, con le economie dell’Eurozona e del Regno Unito che sembrano essersi lasciate alle spalle la fase più critica. Questo dinamismo ha portato sostegno e vigore a euro e sterlina, le quali hanno recuperato terreno nei confronti del dollaro negli ultimi tempi. Come sempre, è fondamentale monitorare incessantemente il panorama dei mercati finanziari poiché gli scenari possono evolversi rapidamente. A completamento dell’analisi sui mercati finanziari e valutari, emergono sviluppi rilevanti riguardanti alcune delle valute fondamentali e alcune meno centrali nel contesto globale.

Il marasma che ha afflitto i mercati il mese scorso ha visto lo yen giapponese e la corona svedese come i protagonisti meno lusinghieri. Quest’ultima, in particolar modo, ha subito il contraccolpo di un’economia che procede a passo rallentato e di un atteggiamento ultra-cauto adottato dalla Riksbank, la banca centrale di Svezia. Le indicazioni di un possibile taglio dei tassi nella prossima riunione di maggio hanno avuto un impatto tangibile sulla posizione della corona, addirittura mandandola al suo livello più basso dallo scorso novembre contro euro.

Spostando lo sguardo ai mercati emergenti, il peso cileno ha sfoggiato una performance notevolmente più positiva il mese scorso, guadagnando terreno fino a posizionarsi intorno al livello di 929 contro il dollaro USA e tornando sotto 1000 contro l’euro, livello che non si vedevano da fine gennaio. Fattori come il costante prezzo elevato del rame e un contesto macroeconomico cileno generalmente positivo hanno certamente contribuito a questo rafforzamento. In termini di politiche monetarie, poi, abbiamo assistito ad un’apertura della BCE ad un primo taglio dei tassi a partire da giugno. La presidente Christine Lagarde ha percepito una maggiore tranquillità in un ambiente meno teso, mentre l’inflazione, seppur mitigata, continua a richiedere attenzione.

Roberto Gusmerini

Per quanto riguarda la Banca del Giappone, ad aprile i tassi sono stati mantenuti invariati dopo il rialzo del mese precedente. Di contro, l’inerzia nell’ultima riunione ha causato un calo dello yen giapponese, portandolo vicino ai livelli minimi degli ultimi 30 anni. Sembra che la banca centrale sia intervenuta per rafforzare lo yen, l’iniziativa ha riportato USD/JPY sotto 153, ma come manovre simili fatte in passato da altre banche centrali anche questa non convince i mercati, infatti il cambio è tornato nel giro di pochi giorni in area 156. Dal canto oro, i mercati restano in trepidante attesa per qualsiasi segno che possa fornire indicazioni sulla direzione futura dei tassi d’interesse da parte delle maggiori economie mondiali. In aggiunta, la situazione dell’inflazione rimane al centro di tutte le attenzioni, poiché il percorso verso la disinflazione non sembra ancora del tutto spianato. Stati Uniti e Area Euro mostrano segnali di un’inflazione che, sebbene lontano dai picchi, non dà segni di arrendersi facilmente.

I dati sull’attività economica e sulle prospettive di crescita sono altresì cruciali. Nonostante le tensioni inflattive e la stretta monetaria, le economie sembrano dimostrare una resistenza maggiore del previsto. In questo contesto, gli indicatori PMI sia in Eurozona sia nel Regno Unito riflettono un ottimismo moderato, suggerendo un’espansione dell’attività economica. Sorprendentemente, una convergenza dei dati tra Stati Uniti ed altre aree economiche principali potrebbe rafforzare le posizioni di euro e sterlina nei confronti del dollaro.

* Head of Dealing Ebury Italia

USA: vietato contabilizzare le perdite, far scendere la borsa e andare in recessione

In aumento le insolvenze sul credito al consumo Usa nonostante colossali interventi fiscali per evitare una crisi economica. L’economia occidentale non si è mai veramente ripresa dalla crisi del 2008.

di Maurizio Novelli*

La recente pubblicazione del Financial Stability Report da parte del Fondo Monetario Internazionale si è particolarmente focalizzata sui rischi e sulla crescente vulnerabilità del sistema finanziario, e non ha aggiunto nulla di nuovo a quello che sappiamo già da tempo. Anzi, gli allarmi sembrano un po’ tardivi. Ampio spazio viene dedicato alle banche americane e alle perdite nascoste nei bilanci, mentre altri allarmi si concentrano su Private Credit, asset illiquidi e Commercial Real Estate (CRE). Tutte cose che evidenziamo già da molti mesi, ma non sembra che qualcuno si stia preoccupando di cambiare la direzione o di porsi domande sulla sostenibilità di questi trend.

La stagione delle trimestrali Usa è iniziata con le banche, attese al banco di prova per verificare se le insolvenze in corso su credito al consumo potevano iniziare a emergere nei bilanci. In realtà qualcosa si è iniziato a vedere ma molto poco: le insolvenze pubblicate sono ancora su livelli infimi del 1,5%, mentre le statistiche di sistema indicano che siamo al 6%-7% su credito al consumo e si stima che le perdite sul Commercial Real Estate siano al 25%-30% (Fonte: Financial Stability Report Fmi). Nel frattempo l’associazione bancaria americana, tramite il Bank Policy Institute, ha iniziato a fare lobby sul Congresso e sulla Fed per bloccare l’implementazione di Basilea 3, dato che la sua applicazione farebbe emergere l’esigenza di ingenti ricapitalizzazioni per i primi dieci istituti bancari americani, proprio mentre invece sono impegnati in forsennati buy back, riducendo il capitale per sostenere i titoli in borsa (si veda Bank Policy Institute: Basel III accord US finalization).

È l’ennesima conferma che allo stato attuale tutto quello che circola nel sistema “galleggia” ai prezzi di carico nei bilanci di banche, fondi pensione, assicurazioni, Private Credit e Private Equity. Circa 13/14 trilioni di asset non vendibili ai prezzi evidenziati sui bilanci di queste istituzioni, le cui perdite effettive sono sconosciute e non contabilizzabili. Alcuni fondi pensione americani hanno iniziato a ricorrere ai prestiti bancari per pagare le contribuzioni mettendo a collaterale gli asset illiquidi (non è mai accaduto prima). Fondi di Private Equity hanno iniziato a pagare i dividendi agli azionisti con prestiti bancari garantiti dalle partecipazioni che hanno in portafoglio (rendimenti prodotti dal debito). JPMorgan e Bank of America hanno centrato i profitti attesi pescando dalle riserve accantonate per rischi su crediti. La riduzione delle riserve per rischi su crediti mentre le insolvenze di sistema salgono, come anche la riduzione del capitale tramite buy back per sostenere i titoli in borsa, evidenziano il livello di ridicolo paradosso raggiunto dal settore finanziario Usa: aumentano le perdite e i rischi di sistema ma si riducono le protezioni di capitale e riserve per fare le trimestrali e tenere su la Borsa, il tutto sotto gli occhi degli attenti “regulators”.

Tutto questo conferma che lo scenario di Balance Sheet Recession è in arrivo o forse è già cominciato. La dinamica della spesa pubblica negli Stati Uniti non fa che confermare il terrore dei policy makers per la situazione che hanno creato, e che richiede ora il costante intervento pubblico per essere sostenuta ed evitare di trascinare l’economia mondiale in una crisi. Tuttavia l’intervento pubblico costante crea altri problemi di sostenibilità del debito, innescando un intreccio pericoloso, dove per sostenere il debito privato non più sostenibile è necessario fare debito pubblico a ritmi non sostenibili. Pertanto, le sorti dell’economia sono ormai intrappolate in un meccanismo che non può contabilizzare le perdite, non può far scendere la Borsa, non può subire una recessione, non può fermare la spesa pubblica e non può rimborsare il debito.

A questo punto potrebbe essere messa meglio la Cina, che può permettersi un deleverage che noi non possiamo permetterci. La Cina, infatti, ha deflazionato gli asset finanziari, ha avviato un deleverage nel settore immobiliare e sta implementando riforme e ristrutturazioni di debito. Gli Stati Uniti, invece, hanno costruito una gigantesca bolla di credito speculativo grazie – si fa per dire – al lungo periodo di Quantitative Easing e tassi zero. Si potrebbe dire che, in realtà, l’economia occidentale non si sia mai veramente ripresa dalla crisi del 2008. Europa, Giappone e Usa, dopo la crisi, hanno operato per 14 anni con il costante supporto monetario e pubblico. Dal 2008 al 2013 tale supporto ha consentito di sostenere le difficoltà nella fase di uscita dalla crisi, ma successivamente si è trasformato in carburante per nuove ondate speculative su credito e finanza che hanno creato la situazione attuale.

Anche l’economia americana ha ora in essere un intreccio perverso tra Real Estate (commerciale), banche e Shadow Banking System, a cui si aggiunge però anche Private Equity e Venture Capital, anche loro molto interconnessi con banche e Shadow Banking (BoE warns of risks from PE bubble – FT March 27,2024). Il sistema finanziario Usa è decisamente più sofisticato di quello giapponese e di quello cinese, ma la sofisticazione e la complessità ha vantaggi e svantaggi. Consente di inventare nuovi meccanismi di finanziamento al sistema, alternativi e innovativi, ma questo accentua i rischi non monitorati. Inoltre, il sistema finanziario americano ha una spiccata capacità nello spargere in modo diffuso e globale i rischi di sistema, mentre cinesi e giapponesi tendono a tenerseli in casa propria, infatti la crisi giapponese e cinese non ha procurato contagi duraturi.

Un sistema che deve nascondere le perdite e non può fare deleverage per evitare una recessione o una stagnazione non regge a lungo. Le perdite che ingolfano il sistema bloccano comunque la circolazione del credito procurando un credit crunch, l’intervento fiscale inizia a tamponare per un po’ ma l’economia non regge senza una costante espansione fiscale. Esistono due possibili soluzioni: Inflazione o nazionalizzazione dei mercati. Inflazione e svalutazioni monetarie possono essere una soluzione ma portano comunque a disordine e instabilità finanziaria di lungo periodo (come negli anni ‘70 e ‘80). La “nazionalizzazione” dei mercati finanziari, controllo palese o occulto delle variabili finanziarie (tassi d’interesse e mercato azionario), è un tentativo probabilmente già in corso.

I recenti rialzi in corso sull’Oro, nonostante dollaro forte e tassi alti, potrebbero quindi avere motivazioni non semplicemente legate al contesto inflazionistico ma a rischi di sistema che la maggioranza degli investitori non ha ancora completamente percepito. A complicare il quadro generale concorre la situazione geopolitica di contrasto tra le due principali economie mondiali. Stati Uniti e Cina sono in una precaria posizione economico finanziaria: tutti e due nascondono perdite, hanno problemi sulle banche e nello Shadow Banking, hanno problemi nel settore immobiliare e manipolano i dati macro per far vedere che tutto è ok. La differenza di strategia per gestire i problemi è però evidente: la Cina ha preferito evitare stimoli e avviare una pulizia del sistema (deleverage) pagando il conto subito, gli Stati Uniti spingono su stimoli aggressivi e non vogliono ripulire il sistema con il deleverage. Occorre ora chiedersi quale delle due strategie è la più sostenibile nel tempo: quella finalizzata a pagare i danni di politiche sbagliate o quella che cerca di non pagarli?

* Gestore del fondo Lemanik Global Strategy

In Gold we trust. Il debito USA mette paura, scatta la corsa al rientro delle riserve auree

Il sistema americano basato sul debito e sulla speculazione finanziaria sta portando il paese verso una grave crisi economica. I paesi Africani fanno rimpatriare le proprie riserve auree dagli Stati Uniti.

Di Valerio Giunta* 

E’ notizia recente di come il debito pubblico degli Stati Uniti abbia raggiunto un nuovo record, sfondando per la prima volta la quota dei 35000 miliardi di dollari (a fronte di un PIL di 27000 miliardi). Questa crescita esponenziale, iniziata a partire dalla fine degli anni ’90 e alimentata da anni di deficit di bilancio, adesso desta grande preoccupazioni tra gli analisti, che temono per il tenore di vita delle future generazioni e per la stabilità stessa dell’economia americana, basata su alti livelli di reddito e sugli alti consumi delle famiglie americane.

Le previsioni per le emissioni di titoli del Tesoro nel 2024 sono state riviste al rialzo, raggiungendo la cifra record di 1,34 trilioni di dollari in treasury decennali, soprattutto a causa dell’aumento dei tassi d’interesse. Eppure, nonostante le preoccupazioni, l’ultima emissione di titoli di stato americani ha avuto un successo record, grazie agli alti d’interesse e alla apparente stabilità dell’economia. Invece, la situazione sul fronte della bilancia commerciale continua a peggiorare. Gli Stati Uniti, infatti, registrano un ennesimo saldo negativo, poiché importano ormai da tempo più beni e servizi di quanti ne esportano. Questo deficit, che ammonta a circa 800 miliardi di dollari annui, rappresenta un ulteriore freno alla crescita economica del paese e rende molto complesso il quadro economico americano, che deve affrontare anche le incertezze geopolitiche che vedono coinvolti gli USA, indirettamente, sia nel conflitto Russo-Ucraino che in quello tra Israele e Popolo Palestinese.

Questi elementi di politica internazionale, senza dubbio, sono ulteriori fattori di rischio per la stabilità finanziaria del paese, e il futuro dell’economia americana dipenderà da come il governo riuscirà ad affrontare tutte queste sfide. L’amministrazione Trump e quella Biden hanno provando a correre ai ripari, adottando misure protezionistiche sia nei confronti dei paesi asiatici ma anche nei confronti dell’Europa. Pure gli incentivi all’economia americana (come l’IRA ed il CHIPS and Science Act) sono misure per ridurre il deficit di bilancio, aumentare le esportazioni ed anche riportare a casa il know how tecnologico strategico. Intervenendo alla Camera, la segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen si è detta preoccupata per il trend del deficit statunitense. Parliamo della medesima Janet Yellen che, non più tardi di 24 ore prima, aveva fissato in 243 miliardi di dollari il controvalore di nuove emissioni di debito previste per il secondo trimestre di quest’anno e in 847 miliardi quello relativo al periodo giugno settembre.

Gli effetti di questi fattori di rischio si fanno sentire già dall’ultimo scorcio del 2023, e mentre i media distraggono l’attenzione dei cittadini americani (e del mondo) dirottandole dai problemi dell’economia alle proteste negli atenei, il tasso di risparmio precipita al 3,2% del reddito disponibile – il minimo storico assoluto – e il 43% delle piccole e medie imprese USA non è riuscita a pagare l’affitto ad aprile. Il quadro che emerge, pertanto, non è affatto quello di un’economia che sta vivendo un “soft landing“, come sostenuto ripetutamente da alcuni economisti, ma quello di un sistema economico che sta accelerando verso una crisi profonda, che colpirà duramente le famiglie e le piccole imprese americane, riportando gli USA in una situazione di “scollamento” dell’economia reale da quella puramente finanziaria del tutto simile a quella del 2007-2008, allorquando fu evidente che la finanza “drogata” da artifizi contabili ai limiti della truffa sistemica era come un asteroide impazzito lanciato verso la terra.

Oggi come allora, infatti, Wall Street, le grandi aziende tecnologiche e gli insider del mercato finanziario continuano ad arricchirsi, mentre la classe media e le fasce più deboli della popolazione americana si impoveriscono. Il sistema attuale, basato su un debito in costante crescita e su una speculazione finanziaria sfrenata, è insostenibile e sta portando il paese verso una crisi economica e sociale di vaste proporzioni. Se ne sono accorti anche diversi paesi Africani, tra cui Sudafrica, Nigeria e Ghana, che hanno deciso di rimpatriare le proprie riserve auree dagli Stati Uniti. Questa mossa, allarmante per l’economia americana, è motivata, da un lato, dall’inasprimento delle tensioni internazionali e dall’intensificarsi delle controversie commerciali che accrescono la cautela dei paesi africani e li spingono a non esporre le proprie riserve d’oro a potenziali rischi derivanti da azioni avverse degli Stati Uniti (come sta avvenendo con la Russia); dall’altro, dalla crescente sfiducia verso il ruolo di custode delle riserve auree straniere degli USA, che nel 2012 hanno lasciato un segno indelebile negando alla Grecia l’accesso alle proprie riserve d’oro depositate in territorio americano.

In definitiva, l’esodo dell’oro africano dagli Stati Uniti rappresenta un ulteriore segnale di preoccupazione sullo stato di salute della sua economia, e questa nuova situazione di estrema instabilità, finora mai percepita così chiaramente all’esterno, rischia di accelerare il declino del dominio americano sul mondo.

* AD di Startup Italia e Founder di Banking People

Risale il mercato del credito nel primo trimestre 2024, ma i dati sono ancora negativi

Nel primo trimestre 2024 dati contrastanti per il mercato del credito: tutto in crescita rispetto all’ultimo trimestre 2023, ma il dato annuale è ancora pesantemente negativo.

Il primo trimestre del 2024 evidenzia una sostanziale crescita del mercato del credito e in particolare una ripresa del segmento dei mutui: nel confronto con l’ultimo trimestre del 2023, le richieste di mutuo sono aumentate del +3,68%, primo segnale di una ripresa del mercato dei mutui sostenuta dal trend discendente dei tassi di interesse partito lo scorso ottobre.

L’ultimo Rapporto sul Credito Italiano – Trends & Insights di Experian – principale società di global information al mondo – relativo al mese di marzo 2024, riporta come il 2024 sia iniziato sotto i migliori auspici anche per il segmento dei prestiti e per i finanziamenti online: per entrambi, infatti, le richieste continuano a crescere ogni mese, con marzo che ha registrato +8% per i prestiti finalizzati, +14% per i personali e +10% per finanziamenti online. Il primo trimestre, pertanto, conferma la tendenza positiva del mercato, soprattutto per i finanziamenti web e per i prestiti personali, cresciuti rispettivamente del +34% e del +18% in confronto all’ultimo trimestre del 2023.

Fatica il “Buy Now, Pay Later”, che negli ultimi tre mesi ha fatto registrare un calo di utilizzo del -19% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2023, in cui si sono concentrate la maggior parte delle spese dell’anno. Tuttavia, ciò non inficia la rilevanza del BNPL per i consumatori di oggi: sono infatti proprio i periodi di offerte a far registrare dei picchi significativi di utilizzo e proprio nella settimana dal 20 al 25 marzo, coincisa con le offerte di primavera di Amazon, è stato rilevato un aumento di richieste del +30% rispetto ai periodi precedenti. “Al di là dei periodi di stallo, dovuti alla diminuzione delle spese o all’assenza di festività, la centralità del Buy Now, Pay Later come strumento di consumo rimane indubbia, come evidenzia la crescita del +122% registrata negli ultimi due anni”, afferma Armando Capone, General Manager Experian Italia. “Di conseguenza, siamo certi che il trend dell’utilizzo di BNPL e finanziamenti web non farà altro che crescere nei prossimi mesi, e in generale, possiamo dire che il primo trimestre del 2024 fa ben sperare per la ripresa del mercato del credito italiano nel complesso, con la diminuzione dei tassi di interesse su mutui e prestiti che gradualmente contribuirà ad una stabilizzazione e nuova crescita dei volumi”.

Le famiglie italiane hanno ricevuto finanziamenti per l’acquisto dell’abitazione per 10.822,1 milioni di euro, rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente si registra una variazione delle erogazioni pari a -15,8%, per un controvalore di -2.032,5 milioni di euro. “La fotografia – dichiara Renato Landoni (nella foto), Presidente Kìron Partner – indica ancora un ridimensionamento nell’erogazione del credito concesso alle famiglie, che conferma la tendenza sia del terzo trimestre 2023 (quando la variazione è stata pari a -24,7%) sia del secondo trimestre 2023 (-33,3%). Gli ultimi dodici mesi si sono chiusi con 41.240,8 milioni di euro erogati, con una variazione pari a -25,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”.

A livello nazionale l’indagine condotta dalla BCE a gennaio 2024 riflette un aumento del numero di famiglie a basso reddito che lamentano difficoltà nel soddisfare i pagamenti del mutuo; questo dato è influenzato principalmente dalla crescita delle rate dei mutui causate dall’aumento dei tassi di interesse. È ragionevole ipotizzare un effetto “onda” riguardo al disagio delle famiglie a basso reddito che si trascina dagli scorsi mesi e che crea minor serenità su questo campione. I tassi sui nuovi finanziamenti per l’acquisto di abitazioni hanno registrato una modesta riduzione, collocandosi al 4,31% a febbraio 2024, rispetto al 4,38% di gennaio (il tasso preso fa riferimento al TAEG e quindi al tasso comprensivo di tutte le spese).