In un contesto di crisi profonda dell’Occidente, le risposte di Trump appaiono inadeguate e illusorie. Tra queste, il ritorno alle barriere doganali o alla relocalizzazione forzata della produzione.
Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People
In un contesto di crisi profonda e diffusa dell’Occidente, le risposte di Trump appaiono inadeguate e illusorie. Si parla spesso di riportare in patria le fabbriche per proteggere l’occupazione, ma si tace sul fatto che negli Stati Uniti molte aziende che hanno fatto reshoring non trovano personale disposto o preparato per lavorare. Pertanto, il punto non è più quello di “produrre in casa”, ma quello di identificare chi lavorerà nelle fabbriche, e con quale cultura del lavoro. Manca la motivazione, la competenza e soprattutto il senso: riportare la produzione negli Stati Uniti senza rigenerare il significato profondo del lavoro rischia di essere una strategia fallimentare e illusoria.
Nel frattempo, realtà come la casa automobilistica cinese BYD crescono a ritmi impressionanti. Non solo dominano l’innovazione nel settore elettrico, ma sono talmente liquide e organizzate da potersi permettere l’acquisto di sei navi portacontainer per esportare direttamente in tutto il mondo. Un modello industriale che unisce capacità tecnica, visione strategica e velocità d’azione. Ma BYD è solo la punta dell’iceberg: la sua crescita esponenziale è il simbolo di una nuova concorrenza culturale e industriale globale, portata avanti con forza da tutto il blocco dei BRICS.
La Cina, in particolare, ha costruito un ecosistema produttivo fondato non solo su costi bassi e scala, ma su una visione collettiva del lavoro come motore della dignità nazionale e della crescita personale. Le sue università, i suoi piani quinquennali, le sue strategie pubbliche e private convergono su un’idea precisa: innovare, produrre, esportare. E quando serve, comprarsi anche le rotte del commercio globale, come dimostra l’acquisto diretto di intere flotte navali da parte di grandi gruppi industriali, la forte presenza nel canale di Panama. L’India, dal canto suo, sta rapidamente emergendo come potenza tecnologica e demografica, con milioni di giovani (tantissimi ingegneri) che entrano ogni anno nel mercato del lavoro con competenze avanzate e uno spirito competitivo che contrasta fortemente con la disaffezione occidentale. In Russia, Brasile e Sudafrica – seppur in contesti diversi – si riaffaccia con decisione la volontà di rendere il lavoro industriale e strategico un perno della sovranità economica.
I BRICS stanno costruendo una nuova narrazione del progresso: meno individualista, più coesa, incentrata sul valore della produzione, della comunità e dell’autonomia. È una sfida non solo economica, ma culturale. E l’Occidente, se vuole rispondere, dovrà prima di tutto recuperare una propria idea forte di lavoro, crescita e comunità condivisa. Le barriere protezionistiche, le guerra costruite a tavolino per il controllo delle rotte commerciali (quale altro interesse sta dietro all’interesse USA per la Groenlandia, il canale di Panama e la guerra con gli Huthi nel Mar Rosso?), di fronte a simili capacità organizzative e visione a lungo termine, appaiono come tentativi di rallentare l’inevitabile senza rispondere alla causa profonda della crisi.
La domanda vera è: cosa manca all’Occidente per tornare a essere competitivo? Come ha detto Papa Francesco a Firenze nel 2015, “non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca“. Lo si percepisce nel disorientamento delle nostre società, nel caos culturale che attraversa le nazioni occidentali, nella fine di molte certezze del passato. Lo confermano, ciascuno a suo modo, tre figure che hanno riflettuto a fondo sulle dinamiche storiche e politiche delle civiltà: Arnold Toynbee, Oswald Spengler e Ray Dalio. Toynbee ci ha mostrato che le civiltà non crollano per cause esterne, ma per un cedimento interiore delle élite che smettono di rispondere con creatività alle sfide. Spengler ha parlato del “tramonto dell’Occidente” come di un esaurimento spirituale e culturale, dove le nuove forme politiche – come la democrazia e il socialismo – rischiano di dissolvere l’ordine tradizionale senza sostituirlo con un nuovo fondamento. Ray Dalio, con i suoi studi sui grandi cicli storici, descrive l’Occidente attuale come alla fine di un macrociclo, segnato da crisi sistemiche e instabilità crescente.
Anche il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance, nel suo intervento alla Conferenza di Monaco nel febbraio scorso, ha posto l’accento su un punto cruciale: la vera minaccia all’Occidente non viene dall’esterno, ma da un allontanamento interno dai propri valori fondanti. Non sono la Cina o la Russia a minacciare la nostra prosperità, ma la nostra incapacità di rigenerare lo spirito che l’ha resa possibile durante un percorso secolare.
Andando (molto) indietro nel tempo, è possibile trovare delle similitudini. Per esempio, nel momento in cui l’Impero Romano toccava la sua crisi più profonda, due voci – una storica e una teologica – seppero leggerne le cause profonde con una lucidità che ancora oggi ci interroga. Ammiano Marcellino, uno degli ultimo grande storici di Roma, descrive nella sua opera Res Gestae una società aristocratica ormai decadente. Denuncia la corruzione dilagante, il lusso smodato, l’indifferenza delle élite romane rispetto alle sorti reali dell’Impero, che nel frattempo veniva difeso soprattutto da uomini e comandanti delle province. La sua analisi, severa e realistica, fotografa la perdita del senso civico, della responsabilità pubblica e del legame con i valori fondativi di Roma. Agostino d’Ippona, scrivendo il De Civitate Dei
all’indomani del sacco di Roma (410 d.C.), propone una lettura ancor più radicale: la crisi non è solo politica o militare, ma spirituale. La grandezza imperiale si sgretola perché fondata su una Città terrena che ha perso il senso del divino, della giustizia e della verità. Agostino contrappone alla città degli uomini – soggetta a vanità, ambizione e violenza – la Città di Dio, comunità fondata sulla fede e sul bene comune.
Ritornando all’attualità, nel modello storico delineato da Ray Dalio le civiltà attraversano sei fasi principali. Siamo oggi, probabilmente, nella sesta fase, quella in cui l’egemonia dominante si sgretola sotto il peso del debito, della frammentazione interna e della perdita di fiducia collettiva. Una fase segnata da conflitti, instabilità, e incertezza sistemica. Le istituzioni perdono credibilità, le polarizzazioni crescono e il rischio di uno scontro interno aumenta. Dalio non offre facili soluzioni, ma un principio guida: riconoscere i segnali del declino per anticipare e orientare una possibile rigenerazione. Non sarà la tecnica o la politica da sola a salvare le democrazie occidentali, ma un ritorno a valori profondi, condivisi e vissuti.
Giunto a questo bivio, l’Occidente ha davanti a sé due strade: lasciare che questo ciclo si concluda nel crollo – culturale a cui segue quello economico – oppure tentare una ricostruzione profonda, a partire dal senso del lavoro, dalle comunità, dalla persona. In questa seconda direzione si muove, con concretezza e visione, l’esperienza proposta dalla CDO nel Manifesto del Buon Lavoro: “occorre offrire ai collaboratori una risposta al senso del lavoro che vada oltre la retribuzione e la funzione produttiva“. Il lavoro, infatti, non è solo un mezzo di sussistenza, ma una dimensione fondamentale della realizzazione personale e della costruzione di comunità. Il Manifesto afferma chiaramente che “il buon lavoro nasce da una cultura che riconosce il valore della persona e lo traduce in pratiche organizzative e relazionali“. In questo senso, “le imprese sono chiamate a costruire ambienti in cui sia possibile fare esperienza di senso, responsabilità, appartenenza“.
L’obiettivo è ambizioso ma essenziale: trasformare il lavoro in un luogo di crescita umana, dove ogni collaboratore possa dire: “Qui sto costruendo qualcosa di mio, che vale”. Una strada non facile, ma possibile. Una sfida che non chiede atti eroici, ma scelte quotidiane, lungimiranti e coraggiose.
In tal senso, anche gli investimenti, se vogliono contribuire alla costruzione di futuro, dovranno saper scegliere da che parte stare. Un utile criterio per orientarsi è rappresentato dalle certificazioni ESG (Environmental, Social, Governance). Esse non valutano soltanto la sostenibilità ambientale o l’efficienza gestionale di un’impresa, ma offrono una griglia per verificare quanto essa stia realmente investendo sul capitale umano, sulla qualità delle relazioni interne, sulla responsabilità sociale e sulla trasparenza organizzativa. Le aziende che abbracciano i valori del buon lavoro – e che li integrano con un approccio ESG serio e documentato – rappresentano le migliori destinazioni possibili per investimenti responsabili, capaci di generare impatto positivo e valore nel tempo.
Ecco allora che ritorna, con forza, la necessità di una nuova cultura del lavoro. Una risposta culturale prima ancora che economica: non un semplice elenco di buone pratiche, ma una visione capace di mettere al centro la persona, le relazioni, la formazione, il benessere, la corresponsabilità. Occorre dare un senso alla fatica, per non educare le persone ad evitare la realtà. Occorre investire nelle aziende che stanno già facendo questo percorso, spesso silenziosamente ma con determinazione. Non è solo una scelta etica, ma una strategia economica di lungo periodo. Perché il futuro dell’Occidente passa anche dal futuro del lavoro. E il futuro del lavoro si costruisce sempre nel presente.