L’economia globale rallenta nonostante gli stimoli fiscali Usa. Il debito privato americano fa paura
Il sistema economico USA non è in grado di reggere una recessione senza subire una colossale ondata di default sul debito privato e una conseguente depressione economica.
di Maurizio Novelli, gestore Lemanik Global Strategy Fund
L’economia globale conferma l’accentuarsi della fase di rallentamento nonostante i costanti e significativi stimoli fiscali implementati sia prima che dopo gli eventi del 2020. Il contesto economico globale si appresta a subire il pericoloso effetto concomitante di un cedimento del ciclo finanziario e un cedimento dei drivers di crescita trainanti dell’ultimo ventennio.
Per cercare di contrastare tali cedimenti, gli Stati Uniti hanno aggressivamente spinto sulla politica fiscale, che è diventata il principale fattore di sostegno al ciclo economico. Il problema principale è che le politiche implementate sono state finalizzate nel cercare di sostenere un modello di sviluppo in crisi e non più sostenibile piuttosto che cercare di riformarlo. E’ quindi evidente che le politiche monetarie e fiscali implementate negli ultimi 15 anni non hanno risolto i problemi strutturali, bensì li hanno peggiorati, infilando l’economia mondiale prima nella trappola del debito privato e ora in quella del debito pubblico. Oggi i problemi macroeconomici strutturali che pesano sul ciclo si possono sintetizzare nei seguenti punti.
1) E’ Iniziata di una crisi demografica che coincide con il rallentamento della spinta alla crescita economica fornita dalla generazione dei Baby Boomers. La crescita fino al 2000/2003, generata da consumi sostenuti dai redditi e non dal debito, ha ceduto il passo a crescita sostenuta da consumi alimentati dal debito privato. La domanda finanziata dal debito ha raggiunto il 20% dei consumi USA.
2) Il cedimento dei redditi reali dopo la crisi del 2001, accentuato dalla delocalizzazione produttiva in Cina, ha generato un modello di crescita che ha favorito in modo accentuato il settore corporate. Le aziende hanno beneficiato di bassi costi produttivi, contenuta pressione salariale, tassi bassi e tasse quasi a zero. Il calo del potere d’acquisto dei redditi è stato quindi compensato dal debito. Il ciclo del debito si è concentrato nel 2004-2008 sul Real Estate e dal 2010 ad oggi nel credito al consumo
3) A partire dal 2005 l’economia mondiale ha beneficiato della straordinaria urbanizzazione e dello sviluppo industriale della Cina. Tale evento, non più ripetibile, è stato uno dei principali motori di crescita globale e ha iniziato ad entrare in crisi con il cedimento del settore immobiliare e con la pandemia del 2020.
4) La pandemia del 2020 ha colpito l’economia americana e cinese al massimo del suo leverage basato su credito speculativo, sostenuto da oltre 15 anni di QE. Gli Stati Uniti sono particolarmente vulnerabili in alcuni segmenti del debito speculativo privato (Private Equity, Venture Capital, Private Credit e Shadow Banking in genere) e i cinesi nel settore del Real Estate. Gli interventi fiscali USA hanno finora tamponato la situazione ma la loro intensità non fa che evidenziare la dimensione del problema e non è sostenibile.
Il contesto geopolitico si è talmente compromesso da mettere in discussione gli equilibri commerciali, monetari ed economici sui quali si è basato l’assetto economico globale definito a Bretton Wood. In parallelo con tali problemi macroeconomici c’è il rischio di un cedimento concomitante del ciclo finanziario che ha sostenuto i consumi finanziati, ha finanziato il Real Estate cinese, ha canalizzato ingenti risorse nel settore illiquido dello Shadow Banking System e ha gonfiato la dimensione del credito speculativo nel sistema. Il ciclo finanziario che ha sostenuto tali settori si è messo in moto dopo il 2010 ed è stato caratterizzato da:
– ultradecennale politica monetaria espansiva di Quantitative Easing;
– ripetuti e sistematici interventi di salvataggio a favore del settore finanziario (Crisi del mercato dei Repo nel 2018, Crisi Covid nel 2020, Crisi bancaria USA nel 2023). Il settore finanziario, nonostante il supporto pubblico e monetario ha sempre mostrato una elevata vulnerabilità;
– aumento dei tassi, che in concomitanza con la crisi inflazionistica del 2022 non ha mai drenato la liquidità in eccesso per continuare a puntellare le bolle speculative e la vulnerabilità del sistema finanziario. La FED ha sempre fornito iniezioni di liquidità nel sistema tramite un significativo aumento delle riserve bancarie e l’utilizzo di liquidity facilities. La riduzione del bilancio FED è stata quindi compensata dall’intervento di acquisto di titoli di stato da parte delle banche, finanziate dall’iniezione di riserve in eccesso da parte della FED. Il QE, diretto o indiretto, in sostanza non si è mai interrotto.
Il ciclo finanziario globale sta entrando in crisi a causa del boom del debito privato, sostenuto dal QE ultra decennale, ha prodotto una colossale allocazione di capitale di rischio a investimenti non più remunerativi (Misallocation) in molti settori dell’economia (Private Equity, Venture Capital, Commercial Real Estate, Real Estate cinese, ecc). I nuovi driver di crescita emergenti (AI e transizione energetica) non sono attualmente remunerativi e aggiungono ingenti allocazioni di investimenti a progetti che, al momento, distruggono capitale e producono reddito solo per pochissime società, aumentando la
percentuale di concentrazione di rischio finanziario ma anche la misallocation di capitale nell’economia globale. La transizione green ha avuto un devastante impatto sul settore auto globale, mentre gli investimenti in datacenters per l’implementazione di AI divorano capitale e non producono attualmente reddito. Tali investimenti richiedono inoltre una alta intensità di energia che aumenta i costi energetici per gli altri settori dell’economia. Il moltiplicatore monetario, nonostante l’ingente liquidità nel sistema tuttora presente, perde quindi sempre più di efficacia sull’economia reale e fornisce solo carburante alle bolle speculative finanziarie.
Per compensare il cedimento del moltiplicatore monetario i policy makers si sono attivati con aggressive politiche fiscali espansive. Tali politiche hanno inizialmente contrastato il cedimento del ciclo finanziario (o ciclo del debito privato) ma anche il moltiplicatore fiscale sta ora perdendo trazione, al punto che l’economia USA necessita di sempre più debito per crescere in media solo del 1,5%-1,8%. Anche l’economia cinese sta subendo l’impatto della Balance Sheet Recession nel settore immobiliare, e cerca di contrastare il deleverage con un deficit Pil del 6% all’anno. Le dimensioni dei deficit di bilancio di Cina e Stati Uniti sono strettamente correlate alla dimensione del problema strutturale dell’economia. Anche le economie occidentali (Europa e Stati Uniti in particolare), come la Cina, hanno iniziato a “politicizzare” i dati macroeconomici per non ammettere la situazione di crisi.
Poiché il ciclo finanziario ultra decennale ha gonfiato bolle speculative sistemiche in quasi tutti i segmenti del mercato finanziario (Equity, Private Equity, Crypto, Credito Speculativo, ecc.), il sistema è altamente vulnerabile e non è in grado di reggere una recessione senza subire una colossale ondata di default sul debito privato e una conseguente depressione economica. Questo è il motivo principale per il quale le politiche fiscali non possono essere fermate e la Banca Centrale del mondo (la FED) deve essere controllata dalla politica per introdurre la monetizzazione del debito.
Il credito speculativo nell’economia americana è sottostimato a circa 12 trilioni di USD, più o meno il 50% del PIL. Una parte di questo debito non era solvibile con i tassi a zero, non è solvibile con i tassi al 5% e non sarà solvibile se i tassi tornano a zero. In realtà l’unica soluzione possibile sarebbe quella di avviare politiche di ristrutturazione del modello economico con:
– Politiche fiscali espansive esclusivamente mirate ad aumentare i redditi reali per rendere la crescita meno dipendente dalla domanda finanziata e ridurre il leverage del settore privato.
– Politiche fiscali restrittive per il settore Corporate, che opera in regime Tax Free, per finanziare le politiche fiscali espansive.
– Gestione selettiva del credito insolvente per evitare un deleverage disordinato.
– Tassazione dei Buy Back e detassazione degli investimenti reali nell’economia.
Introdurre capital gain decrescenti in proporzione al tempo di detenzione di un investimento per ripulire i mercati dall’eccesso di speculazione di breve termine e favorire gli investimenti (Tobin Tax) di medio-lungo termine. Il problema è che attualmente nessuno ha il coraggio di implementare tali politiche economiche, perché sarebbero negative per il settore finanziario e per la borsa americana. Così, per difendere le bolle speculative, si persevera nel modello che ci ha infilato nella trappola del debito con nuovo debito, e le riforme saranno giustificabili solo in seguito ad una crisi sistemica. Poiché i rischi di sistema sono però sempre più elevati, gli Stati Uniti hanno iniziato a prepararsi ad un evento di crisi, introducendo norme di emergenza sul blocco dei capitali esteri in uscita, potenziale chiusura delle linee swap sul Dollaro, controllo governativo della FED, controllo della curva dei rendimenti, dispiegamento della Guardia Nazionale nelle principali città americane.



Trump ha a lungo pubblicizzato i dazi come una fonte chiave di entrate governative e, a pochi mesi dall’entrata in vigore delle sue radicali politiche commerciali, miliardi di dollari erano già confluiti nelle casse federali. Tuttavia, la sentenza ha inferto un duro colpo alla politica commerciale di Trump, un pilastro fondamentale della sua agenda economica, che si basa fortemente sui dazi per aumentare le entrate ed esercitare pressione sui partner commerciali esteri. Il Procuratore Generale Pam Bondi ha dichiarato che il Dipartimento di Giustizia presenterà ricorso contro la sentenza alla Corte Suprema. Nel frattempo, la corte ha consentito che i dazi rimanessero in vigore fino a metà ottobre.
Le entrate tariffarie sono aumentate costantemente da circa 17,4 miliardi di dollari ad aprile a 23,9 miliardi di dollari a maggio, prima di salire a 28 miliardi di dollari a giugno e raggiungere il picco di 29,6 miliardi di dollari a luglio. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Tesoro su “Imposte doganali e alcune accise”, pubblicati il 28 agosto, le entrate tariffarie totali hanno raggiunto i 183,1 miliardi di dollari per l’anno fiscale in corso. Al ritmo attuale, gli Stati Uniti potrebbero incassare in soli quattro o cinque mesi la stessa quantità di entrate tariffarie dell’intero anno precedente.
Il Segretario al Tesoro Scott Bessent ha precedentemente affermato che l’amministrazione Trump potrebbe destinare parte delle entrate tariffarie alla riduzione del debito nazionale. “Penso che a un certo punto saremo in grado di farlo”, ha dichiarato Bessent durante un’intervista del 19 agosto alla CNBC, aggiungendo che lui e il presidente Trump erano “concentratissimi sul pagamento del debito“. “Penso che ridurremo il deficit rispetto al PIL, inizieremo a pagare il debito e poi, a un certo punto, questo potrà essere utilizzato come compensazione per il popolo americano”, ha affermato. Secondo il Dipartimento del Tesoro, il debito nazionale si avvicinava ai 37,2 trilioni di dollari al 18 agosto. Bessent ha affermato di voler rivedere la stima delle entrate tariffarie di quest’anno al di sopra della precedente proiezione di 300 miliardi di dollari. Pur non avendo fornito una nuova previsione, ha sottolineato che il totale sarebbe stato “sostanzialmente” più alto.
Cosa avrebbe pensato Reagan di un Paese che, nel giro di poche settimane, è diventato il maggiore azionista di un produttore di microchip, ha preteso una riduzione delle vendite all’estero delle aziende in cambio di licenze di esportazione e ha licenziato un funzionario dell’ufficio statistico dopo che i dati governativi avevano messo in imbarazzo il partito al potere? Solo nell’ultima settimana, alti funzionari governativi del Paese hanno fatto pressioni per esercitare il controllo sulla banca centrale, hanno ordinato a un gigante della tecnologia di concludere un accordo con un conglomerato mediatico a loro favorevole; e hanno sollecitato con successo una catena di ristoranti a revocare un rebranding.
No, questa non è la Cina, ma gli Stati Uniti, sotto un presidente repubblicano, nel 2025. Donald Trump, anziché aderire ai principi di libero mercato (governo limitato e capitalismo senza freni) che il suo partito ha sostenuto per una generazione, sta facendo sentire la sua influenza in ogni angolo dell’America aziendale. Trump si è assicurato una “golden share” nella US Steel, approvando al contempo la controversa acquisizione dell’acciaieria da parte di Nippon Steel per 14,9 miliardi di dollari, e afferma che la Corea del Sud fornirà 350 miliardi di dollari per investimenti “di proprietà e controllati dagli Stati Uniti, e selezionati da me, in qualità di Presidente”, come parte di un accordo commerciale da lui mediato.
Inoltre, Trump ha convertito quasi 9 miliardi di dollari di sovvenzioni per Intel in una quota del 10% nel produttore di chip – a quanto si dice in cambio del suo sostegno, dopo aver chiesto pubblicamente le dimissioni del suo CEO – e alti funzionari di Trump hanno lasciato intendere che altre aziende siano nel loro mirino. Non contento di ciò, il presidente Trump sta sfidando l’indipendenza della Federal Reserve e sta cercando di ottenere la maggioranza nel consiglio di amministrazione della banca centrale. Questa settimana, ha persino tentato di licenziare uno dei presidenti a causa di accuse non confermate di frode sui mutui, avanzate da un alleato interno alla sua amministrazione.
Ancora, Trump ha licenziato il capo del Bureau of Labor Statistics poche ore dopo che i dati ufficiali avevano rivelato un forte rallentamento della crescita occupazionale sotto la sua supervisione, sostenendo senza prove che i numeri fossero stati “truccati” (ha scelto una sua fervente sostenitrice per sostituirla). Invece di permettere alle aziende private di svolgere i propri affari, senza il coinvolgimento di funzionari pubblici e leader politici, il presidente Trump interviene regolarmente. In base a un “piccolo accordo” da lui stipulato con Nvidia, l’azienda più quotata al mondo fornirà il 15% di alcune vendite di chip in Cina. Apple, minacciata dal presidente di imporre dazi elevati, si è presentata alla Casa Bianca con dei regali: 100 miliardi di dollari in ulteriori investimenti statunitensi e un souvenir con una base in oro 24 carati.
di creare cinque supermercati di proprietà comunale, è “uscita direttamente dal manuale marxista”, secondo il deputato repubblicano Mike Lawler. “I newyorkesi meritano soluzioni, non fantasie socialiste che hanno fallito clamorosamente ogni volta che sono state messe alla prova”, ha sostenuto Lawler il mese scorso. Il senatore del Kentucky Rand Paul è tra i repubblicani più in vista a suggerire il contrario. “Se nel socialismo è il governo che possiede i mezzi di produzione, il fatto che il governo possieda una parte di Intel non sarebbe un passo verso il socialismo?”.
Chiamatelo Trumpalismo. Le ideologie economiche si basano tipicamente su principi, dai fondamenti del libero mercato del capitalismo ai pilastri socialisti della proprietà e del controllo collettivi. Ma questa – elaborata da un uomo che raramente permette a posizioni fondamentali a lungo termine di impedirgli di dire o fare ciò che vuole nel breve termine – è diversa. La mancanza di una posizione sulla questione se il governo federale avrebbe dovuto acquisire partecipazioni in aziende manifatturiere o lasciarle fallire è stato un primo esempio di trumpalismo. L’ideologia passa in secondo piano rispetto agli istinti e agli impulsi di un presidente autoritario, da una settimana all’altra. Il partito repubblicano con cui sono cresciuti i cittadini americani – i repubblicani di Reagan – con Trump è morto e sepolto.
Poiché il settore “shadow” gestisce attualmente il 60% del credito all’economia e circa 90 Trilioni di asset (375% del PIL), tra i quali, cartolarizzazioni di ogni tipo, Leverage Loans, CRE, ABS e Private Credit, anche il moltiplicatore monetario è compromesso, e una discesa dei tassi Usa non avrà alcun effetto significativo sul ciclo economico. Nel solo settore del CRE (Commercial Real Estate) il credito in distress è ormai al 25% e nulla sappiamo dei reali tassi d’insolvenza nel Private Credit e nei loans a Venture Capital e Private Equity (5 trilioni di dollari, 20% del PIL). Nel frattempo il governo USA si appresta a dare il via libera alla legge che consente di collocare fondi di Private Equity e Private Credit al retail a tranche da 5000 dollari.
Gli Usa nel pantano della Balance Sheet Recession
Così come è accaduto in Giappone negli anni 90, anche gli Stati Uniti sono ora in fase di ingresso nel pantano della Balance Sheet Recession. Esistono però alcune differenze sostanziali tra la gestione giapponese e quella americana: 1) i policy makers americani, a differenza di quelli giapponesi, stanno cercando in tutti i modi di evitare lo scoppio delle bolle speculative e quindi hanno nazionalizzato il mercato azionario sui massimi e messo il cap ai tassi a 10y sui Treasuries (YCC). Il Giappone aveva messo il controllo dei tassi (YCC) ma aveva lasciato esplodere la bolla speculativa sul Nikkei, accentuando la crisi deflazionistica e nazionalizzando i mercati azionari solo in un secondo tempo, quando erano sui minimi.
2) il Giappone ha subito una forte rivalutazione di Yen che ha peggiorato la deflazione mentre gli Usa stanno cercando di imprimere una netta svalutazione di dollaro per creare inflazione e svalutare il debito in termini reali.
La criticità di tale ultima operazione è che gli USA non dispongono del risparmio interno per finanziare tale strategia, che si basa su crescita del debito a oltranza con capitali esteri, e rischiano quindi una fuga di capitali e una caduta del dollaro se perseguono nelle politiche fiscali che servono ad evitare la crisi. Sebbene la strategia USA sembra funzionare meglio nel breve termine, ha comunque dei limiti di sostenibilità per mancanza di adeguato risparmio interno per finanziarla. Quindi, mentre tutti parlano delle sciagurate politiche fiscali americane, nessuno si è mai fatto la domanda del perché le fanno.
Evitare il deleverage aggiungendo leverage
Infatti, analizzando in dettaglio i bilanci delle prime 10 banche USA, si scopre che oltre 60% circa del margine d’interesse è ottenuto grazie alla remunerazione di tali riserve che sono erogate al sistema dalla Banca Centrale. Questi interessi sono pagati dalla FED, ossia dal Ministero del Tesoro, ossia dal bilancio pubblico americano. Ma nonostante questo intervento pubblico per evitare una crisi bancaria come nel 2008, si continuano a fare buy back e a premiare i CEO con bonus milionari. Nessuna ricerca macro proveniente dal mainstream di Wall Street parlerà di questa situazione, ovviamente, dato che ormai la finalità degli intermediari USA è unicamente quella di cercare di tenere i capitali esteri investiti in questo sistema in crisi.
È la riscrittura moderna del vecchio motto latino: “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, preparati alla guerra). Ma nel XXI secolo, cosa vuol dire “prepararsi alla
La vera crisi non è militare, è identitaria. Il problema dell’Europa non è la mancanza di armi, bensì la mancanza di ethos, di una visione comune, di una identità collettiva per cui valga la pena vivere e, se necessario, morire. Senza un fondamento culturale e spirituale, ogni strategia militare è un artificio vuoto. Possiamo avere missili, ma non avremo motivazione, né coraggio, né coesione. Quale identità, quindi? L’Europa è nata da radici greche, romane e cristiane. È il cristianesimo che ha fornito per secoli la bussola morale, la coesione spirituale che ha dato dignità al lavoro, centralità alla persona, senso al sacrificio. Il fallimento storico del “para bellum” lo abbiamo già sperimentato nel decennio antecedente la Prima Guerra Mondiale, allorquando le potenze europee hanno creduto che prepararsi alla
Durante il XX secolo, la cd. Guerra Fredda, il riarmo nucleare garantì una “pace dell’incubo”. La Crisi di Cuba del 1962 portò il mondo a un passo dall’apocalisse. Solo la diplomazia segreta salvò l’umanità — non certo le testate nucleari. Oggi quella logica ritorna. Ma con tecnologie più sofisticate, soglie di attacco più basse e Stati più instabili. In questo contesto nessuno ci dice che nel 2024, la spesa militare europea ha superato quella russa del 58% quando calcolata a parità di potere d’acquisto e secondo la definizione NATO. Anche considerando solo i Paesi dell’UE e della NATO, il vantaggio rimane significativo (+56%), e persiste (+19%) limitandosi alla sola UE. Tuttavia, l’efficacia di questa spesa è compromessa da una frammentazione strutturale (Fonte: Università Cattolica del Sacro Cuore – Osservatorio CPI, 22 febbraio 2025).
Cosa vuol dire “frammentazione strutturale“? Non c’è un comando unificato, le dottrine operative sono frammentate, gli armamenti non sono pienamente interoperabili e manca una volontà politica e popolare di impiego reale. Armarsi senza tecnologia e spirito di crescita è un’illusione. Lo confermano i due recenti brevi conflitti:
L’
Di conseguenza, l’Europa non ha bisogno di incrementare la potenza militare, ha bisogno solo di ritrovare se stessa. In tal modo potrà tornare a parlare al mondo non con le armi, ma con la forza silenziosa di una civiltà viva. La forza di un popolo non è nei carri armati, ma nella sua capacità di rispondere alla domanda: “Chi siamo?”. Questo comporta dirottare gli investimenti non negli arsenali – che arricchiscono una industria, quella delle armi, che per essere alimentata ha bisogno di periodici conflitti – ma in educazione e cultura. Non in deterrenza, ma in coesione sociale. Non in propaganda, ma in una rinnovata identità europea fondata su ethos, comunità e radici cristiane. Questa è l’unica vera strategia per contare nel mondo, ed essere nuovamente una civiltà guida per i popoli. Primo fra tutti, quello europeo.
Ufficialmente, l’agenda pubblica parlava di “rafforzamento dei legami tra le democrazie più grandi del mondo”, ma alcuni osservatori hanno presto letto nella missione un segnale più profondo, e cioè il tentativo da parte dell’amministrazione Trump di ripristinare una leadership americana efficace attraverso la divisione selettiva di blocchi rivali. Non a caso l’Italia, anello debole dell’UE, e l’India, potenza ambivalente ancora in bilico tra BRICS e Occidente, sono state le uniche due tappe scelte.
Italia tra Atlantismo e ambiguità strategica
L’India tra equilibri multipolari e sovranità economica
La crisi nel Kashmir: prima conseguenza strategica
L’eco di una strategia imperiale
La verità assoluta è sempre complessa e irraggiungibile, poichè il potere gioca su più livelli e spesso ciò che appare evidente è solo lo strato superficiale di qualcosa di più profondo. Per avvicinarci alla verità, è fondamentale mettere insieme i pezzi, individuare le connessioni che non vengono mai evidenziate dai media e lavorare sui dettagli più piccoli, che sfuggono all’osservazione perché in apparenza insignificanti. La ricerca della
Per esempio, in tema di dettagli nessuno ha mai fatto notare l’assurda decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro, preferendo ad esse le monete. Eppure, fino al giorno prima in Italia circolavano banconote da 1.000, 2.000 e 5.000 Lire. Con le “milline” ci pagavi il parcheggiatore abusivo, oppure una pizzetta, un cono gelato, un uovo Kinder, 4 bustine di figurine Panini, le Big Babol, una lattina di Coca-Cola, un Mars, un tubetto di Smarties; con le 2.000 lire cappuccino e cornetto, tra le altre cose; con le 5.000 lire mettevi la miscela nel motorino e ci camminavi una settimana, tanto per dire. Insomma, a livello reale (potere d’acquisto) e cognitivo, l’uso delle banconote di quel valore era legato indissolubilmente all’acquisto di beni di largo consumo per i quali, dopo sole sei settimane dell’ingresso in circolazione delle “monetine”, ci volle esattamente il doppio.
Non c’è dubbio, quindi, che questo “dettaglio” delle monetine, passato del tutto inosservato – anzi, tutti felici a comprare i porta-euro da tasca – sia stato la causa di numerose distorsioni cognitive nei cittadini sul reale valore dell’euro e, soprattutto in Italia, abbia causato un aumento dei prezzi al consumo indotto, per così dire, da queste distorsioni e da chi se n’è approfittato. La domanda vera è: le neonate autorità europee e, soprattutto, i c.d. tecnici che “fabbricano” le decisioni, erano al corrente di questa possibilità e hanno clamorosamente fallito, oppure è sbagliata l’interpretazione a posteriori del dettaglio? Secondo gli economisti più accreditati, il passaggio dalla lira all’euro ha creato diverse distorsioni percettive, e la decisione di non emettere banconote da 1 e 2 euro ha sicuramente giocato un ruolo in questo processo. Infatti, le neuroscienze e la psicologia economica dimostrano che il formato della valuta influenza la
percezione del suo valore. In altre parole, le persone tendono a spendere più facilmente le monete rispetto alle banconote perché le prime sono percepite come “spiccioli”, quindi di minor valore. E così, quando l’euro entrò in circolazione nel 2002, molti beni di uso quotidiano (caffè, giornali, pane, ecc.) che prima costavano l’equivalente di 500 o 1000 lire furono arrotondati a 1 euro o più. Questo fenomeno – noto come “inflazione non percepita” – si deve in parte proprio al fatto che 1 e 2 euro erano monete e non banconote, rendendo gli aumenti meno evidenti e più facilmente accettabili dai consumatori.
L’UE era consapevole di questo effetto? È difficile pensare che economisti e tecnocrati di Bruxelles non fossero a conoscenza di queste dinamiche psicologiche dei consumi. Alcuni studi sul comportamento dei consumatori avevano già evidenziato il cosiddetto “effetto soglia“, per cui le persone sono meno sensibili agli aumenti quando il mezzo di pagamento è meno “pesante” psicologicamente. Inoltre, già durante la transizione all’euro, si parlava del rischio che gli esercenti approfittassero dell’arrotondamento per far salire i prezzi, cosa che poi è effettivamente successa in diversi Paesi; ma soprattutto in Italia, dove la lira aveva valori nominali molto più alti e il cambio con l’euro era particolarmente sfavorevole (1 euro = 1936,27 lire).
Tuttavia, non ci fu una vera strategia europea per contenere questi effetti. L’UE , notoriamente “asfissiante” sulle politiche di controllo della finanza dell’Unione, lasciò ai singoli Stati la gestione della transizione, e in Italia mancò un controllo efficace sui prezzi. In Germania e Francia, per esempio, ci furono campagne informative più forti e maggiori controlli sui rincari. Fu errore o scelta deliberata? Qui sta il punto cruciale: se fosse stato un errore, l’UE avrebbe dovuto correggerlo negli anni successivi, magari introducendo banconote da 1 e 2 euro per mitigare l’effetto percettivo. Se fosse stata una scelta deliberata, allora si potrebbe ipotizzare che l’inflazione indotta fosse considerata un effetto collaterale accettabile, o addirittura utile per accelerare l’adattamento all’euro e ridurre il valore reale dei salari senza doverlo fare con riforme impopolari. Difficile avere una prova definitiva, ma il fatto che l’UE non sia mai intervenuta per correggere questa distorsione fa pensare che fosse almeno un effetto previsto, se non proprio desiderato. E questo ce lo dice la logica “storica” usata per arrivare alla verità rivelata da un semplice dettaglio.
C’era una strategia più ampia dietro? In molti sapevano, e il non aver voluto riparare all’errore, anche a posteriori, fa pensare ad una regia dietro, che tramava per indebolire l’Italia, che allora era la sesta potenza mondiale, con una strategia di lungo termine, e il ruolo odierno dell’Italia nello scacchiere internazionale ne sarebbe la prova. Questa verità, che nel 2000 sarebbe apparsa come frutto di complottismo e forse sarebbe stata derisa, oggi rivela tutta la sua forza e le sue solide basi logiche. L’Italia, prima dell’introduzione dell’euro, era una delle principali potenze industriali del mondo, con un settore manifatturiero tra i più forti a livello globale e una capacità produttiva che faceva concorrenza diretta a Germania e Francia. Il declino relativo dell’Italia negli ultimi vent’anni potrebbe quindi non essere stato solo il risultato di errori interni, ma anche di un progetto più ampio.
Tutto questo, però, andrebbe provato con elementi che supportano l’ipotesi. Eccone alcuni:
3. molte grandi aziende italiane sono state acquisite da gruppi stranieri (Fiat ha spostato la sede nei Paesi Bassi, Pirelli è passata ai cinesi, Parmalat ai francesi, ecc.). Settori chiave come l’energia e le telecomunicazioni hanno subito pressioni politiche e finanziarie per essere ridimensionati o venduti. L’Italia è passata dall’essere una potenza manifatturiera a un Paese con un’economia sempre più basata su servizi e turismo, con meno peso strategico;
Questi dettagli, tuttavia, non spiegano il movente: perché indebolire l’Italia? E’ presto detto. Se l’Italia avesse mantenuto la sua forza economica e industriale, avrebbe potuto essere un terzo polo nell’UE, capace di bilanciare il dominio franco-tedesco. Invece, con un’economia più fragile e più dipendente dall’UE, la sua influenza geopolitica si è ridotta drasticamente. In sintesi, sembra una strategia di lungo termine, in cui diversi Paesi europei hanno tratto vantaggio dall’indebolimento italiano:
Infatti, occorre considerare che i tempi con i quali si svolgono le trattative commerciali durano mesi – se non anni – e le soluzioni non saranno quindi così facili come si tende a far credere. Nel frattempo, gli equilibri sui quali si è costruito il commercio globale e la globalizzazione dal 2000 in poi si stanno inesorabilmente sgretolando. Leggendo il documento “Foreign Trade Barriers“, pubblicato dall’amministrazione Usa, si comprende il punto di vista americano ma anche la complessità della trattativa e le difficoltà prospettiche. Appare abbastanza evidente che la parte più difficile da risolvere è quella che riguarda la Cina e l’
Un New Deal al contrario. I mercati finanziari tendono a far credere che lo scenario di fondo non sia cambiato, che questi eventi siano solo transitori e che tutto tornerà come prima. Nella realtà siamo di fronte al più importante cambiamento strutturale globale di natura geopolitica, commerciale, economica e finanziaria dai tempi del New Deal. Il problema è che questo è un New Deal al contrario, dove l’economia Usa non ha più lo spazio fiscale per fare le politiche Keynesiane sostenute in questi anni, ma non ha neppure l’intenzione di ridurre il debito, che serve a sostenere le bolle speculative finanziarie. I mercati continuano infatti a sperare che nessuna politica fiscale restrittiva sia attuabile. Si cerca quindi di contenere una potenziale crisi da debito introducendo una tassa sui consumi interni, sperando che possa fornire le risorse finanziarie per mantenere questo insostenibile status quo.
I dazi commerciali sono sostanzialmente una forma di tassazione sui consumi globali, ma in particolare su quelli americani, dato che i consumi Usa sono circa il 25% del Pil mondiale. Poiché gli Stati Uniti hanno basato la crescita degli ultimi vent’anni sui consumi interni a leva (finanziati), la domanda globale è stata trainata da questo modello esasperato di “consumi finanziati dal debito“, che a lungo andare ha generato squilibri globali insostenibili. Gli Stati Uniti, per correggere tali squilibri, dovrebbero aumentare le imposte sui redditi, sul capitale e sulla Corporate America (che non paga tasse), procurando una riduzione della domanda interna e quindi una contrazione delle importazioni e del deficit estero, ma accettando anche una
Il risultato che si otterrà è comunque una recessione o un forte rallentamento globale, ma in questo caso si cerca di trovare una causa esterna, un nemico da accusare, un capro espiatorio esterno (Cina o Europa) per quanto riguarda la crisi economica e interno (Fed) per quanto riguarda il rischio di una eventuale crisi finanziaria. Nel 2019 gli Stati Uniti avevano già in corso un altro 2008 ma, grazie al Covid, gli interventi fiscali e monetari lo hanno nascosto ma solo rinviato. La crisi del mercato interbancario del 2018 aveva fatto emergere tutto il credito speculativo nel settore del Commercial Real Estate, lo stesso settore che ha poi procurato i fallimenti bancari di due anni fa. Problemi subito contenuti con alcuni salvataggi
ma mai risolti e in costante peggioramento. Attualmente circa 450 banche americane sono in crisi strutturale e la Fed fornisce costanti linee di credito per puntellare la situazione. Sebbene sia abbastanza evidente che nel frattempo tutto è peggiorato nel credito al Commercial Real Estate (4,5Tr di dollari), a tale settore si è ora aggiunto anche il Credito al Consumo (5,5 Tr di dollari), dove i tassi di insolvenza sono già ora ai livelli pre 2008 nonostante la piena occupazione. Non oso immaginare cosa potrebbe accadere in caso di aumento della disoccupazione.
Ricordo che le grandi banche americane hanno rifiutato di applicare Basilea III per non far emergere le perdite immobilizzate nei bilanci, bilanci che “battono le stime” sempre più ridimensionate, ma che non sono credibili agli analisti più attenti. Credo che prima o poi la Fed di Powell verrà chiamata a testimoniare davanti al Congresso per non aver vigilato sui rischi finanziari di sistema e per essere stata formalmente sempre indipendente dalla politica ma poco indipendente da Wall Street. Infatti un ulteriore problema è che la Federal Reserve, da anni, serve ormai solo a fornire bail out a Wall Street e si è allineata al puntellamento di un sistema finanziario sempre esposto al massimo rischio, abbandonando di fatto il ruolo di vigilanza sui rischi finanziari. Lo scontro politico sulla Fed è appena iniziato. Ritenere quindi che in soli due anni si possa ristrutturare la Global Value Chain, risolvere gli strutturali problemi del debito pubblico e privato Usa, sanare lo Shadow Banking System americano, risolvere il contenzioso commerciale globale, procurare un aggiustamento del deficit estero americano senza una recessione e ripartire come se nulla fosse successo è pura fantasia.
Gli Stati Uniti credono di imporre al mondo quello che hanno imposto al Giappone negli anni Novanta. Nel frattempo Europa e Cina, nel mondo virtuale dei mercati finanziari, dovrebbero adottare il modello americano e diventare i trascinatori del ciclo mondiale, salvare gli Stati Uniti sottoscrivendo i Century Bonds, accettare una significativa svalutazione del
giapponese, per contrastare la stagnazione, iniziò una politica fiscale espansiva costante supportata dal QE di Boj e da tassi d’interesse vicini allo zero. Tale politica fiscale spinse il debito pubblico al 240% del Pil senza mai stimolare veramente la crescita economica. La politica monetaria espansiva, la compressione dei tassi e il controllo del cambio contro dollaro, favorirono l’avvio di un gigantesco carry trade strutturale verso gli asset americani. Il sistema finanziario giapponese divenne il principale sottoscrittore di debito Usa e tutta la liquidità iniettata da Boj tramite il QE prese la direzione degli Stati Uniti.
E’ iniziata una crisi strutturale dell’attuale ordine economico mondiale. È abbastanza evidente che siamo all’inizio di una crisi strutturale dell’ordine mondiale, perché nessuno è disposto ad accettare la “Japanisation” del proprio sistema. È quindi probabile che il tentativo americano di “salvare” il proprio modello economico sia destinato a fallire, e questo porterà gli Usa ad una crisi economica, sociale e finanziaria. Non ci vorrà molto tempo per assistere a tali accadimenti, dato che l’attuale amministrazione Usa ha bisogno di ottenere risultati immediati dallo scontro diretto e non ha molto tempo a disposizione per correggere gli attuali squilibri interni. Il meccanismo è quindi in accelerazione e nulla sarà più come prima. L’asset allocation del Global Strategy Fund si posiziona quindi per navigare nella più difficile e tormentata fase di ristrutturazione del sistema globale, che procurerà alta volatilità, disordine sui mercati valutari e compressione delle valutazioni dei mercati azionari. Il mondo occidentale entra in questa nuova era con gli asset finanziari posizionati sui massimi e quindi estremamente vulnerabili ai contrasti geoeconomici appena iniziati.
I mercati emergenti e la Cina hanno già pagato il conto della supremazia finanziaria americana e possono quindi emergere dal disordine in arrivo come l’area di futura ripartenza del ciclo. Rimaniamo comunque particolarmente negativi sulle prospettive del dollaro e sulle capacità di ripresa duratura dei mercati azionari, l’Oro continuerà il rialzo per i motivi strutturali analizzati e i tassi sono destinati a scendere ovunque per cercare di contrastare un rischio recessivo sempre più concreto. I dati macroeconomici continueranno a essere manipolati per non far emergere la reale situazione di crisi in cui il sistema si trova da tempo, in ogni caso, l’andamento dei profitti delle società quotate non potrà nascondere la realtà.
La missione del Tycoon è chiarissima: recuperare con la forza e il ricatto valutario/economico l’imponente deficit commerciale, superiore a 3 trilioni di dollari, che gli USA hanno nei confronti dei partner commerciali (UE e Cina in primis). E per farlo, Trump non ha mostrato alcuna difficoltà ad agire contro gli interessi di molti capitani di industria statunitensi – anche quelli che lo hanno sostenuto nella corsa alla presidenza – “colpevoli” di aver decentrato la produzione nei Paesi emergenti dove, grazie al basso costo del lavoro, hanno tutti trasferito intere filiere produttive. I 
Una massima del Taoismo insegna che nel trionfo inizia il disastro, e quando questo accade ci si deve porre diversi interrogativi. In particolare, siamo in una fase economica destinata ad esaurirsi, oppure si prospetta una crescente instabilità del sistema monetario internazionale che precede la
Il male principale del capitalismo monopolistico, di cui poco si parla, è la tendenza alla sovraccumulazione. Molti economisti americani, anche a sinistra, pensano infatti che il capitalismo Usa si diriga verso un’edizione americana di Stato corporativo, autoritario e repressivo all’interno, militaristico e aggressivo all’esterno. Trump intende davvero assumersi questa responsabilità o è inconsciamente consapevole della complessità dei meccanismi del commercio globale? In attesa di una risposta, molti paperoni americani stanno spostando la residenza in Svizzera, le università insorgono rivendicando autonomia dalla politica, e perfino 
Qualunque vera federazione di stati, di fronte all’avanzare degli scenari internazionali più temuti, avrebbe reagito in anticipo, programmato misure economiche adeguate, adottato strumenti di contenimento delle emergenze eventualmente generate dagli effetti di quegli stessi scenari. Insomma, si sarebbe mossa in modo unitario ed efficace per scoraggiare sul nascere le intenzioni apertamente dichiarate da Trump oppure per avere maggior potere contrattuale quando ci si sarebbe potuti sedere al tavolo delle trattative sui dazi commerciali. Invece, niente di niente. L’Unione Europea si è mostrata immobile ed
in balia delle iniziative arbitrarie dei singoli stati aderenti: chi andava di qua e chi di là, in modo scomposto e senza una strategia comune. In tal senso, il ruolo di mediatore internazionale conquistato sul campo dall’Italia di Giorgia Meloni – e osteggiato con malcelato disappunto dalla Von Der Leyen e da Macron, tedeschi e olandesi non pervenuti – è il naturale risultato dell’immobilismo europeo di fronte al ritmo velocissimo dei cambiamenti messi in atto da Trump.
Il risultato è che i cittadini non si sentono parte di una comunità unica, e questo non cambierà finché chi comanda (Germania, Francia e Olanda) trarrà vantaggio da questa fragilità politica. La percezione della sostanziale divisione tra stati aderenti è diffusa dalla base al vertice, e colpisce quindi anche le varie leadership nazionali. Ne abbiamo avuto un esempio chiarissimo quando, nelle scorse due settimane, i principali governi europei si sono confrontati (a distanza) con l’ipotesi di un vertice a Roma tra il presidente Trump, i leaders della Ue e i capi di governo dei ventisette sulla questione dei dazi e della guerra in Ucraina. In mezzo, la morte di Papa Francesco che ha stemperato non poco gli animi e ha sconvolto i
piani dei riottosi leader europei, costretti dalle circostanze a fare da ancelle al confronto tra Trump e Zelensky, sia pure in una cornice politica atipica ma sotto l’egida della Meloni. Un vero e proprio “miracolo” di involontaria diplomazia, grazie al quale il tentativo di ridimensionare il ruolo di mediatore di Giorgia Meloni tra Washington e l’UE è andato a vuoto, così come gli alibi che l’Europa, con il suo immobilismo forzato dalla sua stessa natura, aveva fino a quel momento fornito al presidente americano ancora voglioso di scontro con con gli altri leader.
La Storia ci insegna che i grandi cambiamenti arrivano da fenomeni economici estremi, come le grandi crisi economiche (chi se la sente oggi di escluderne una nel prossimo futuro?). Le vicende geopolitiche – il caos in Medio Oriente, la fragilità ucraina e la svolta negli USA – hanno mostrato che l’UE:
La crisi pandemica del 2020 ha mostrato che, di fronte a un’emergenza estrema, l’UE può superare certi blocchi e adottare misure straordinarie, come il Recovery Fund, che fino a pochi mesi prima sembrava impensabile. Questo dimostra che, se la crisi è abbastanza grande, anche i leader più “campanilisti” e ottusi possono essere costretti a cambiare approccio. La chiave, quindi, sta nel grado di pressione che una crisi futura eserciterà sul sistema: se la crisi sarà moderata, probabilmente si vedranno solo aggiustamenti temporanei; se sarà profonda, come una crisi economica globale o un ritiro netto degli USA dalla sicurezza europea, allora l’UE dovrà decidere se evolvere o soccombere.







