Ad un esame attento, l’assegnazione della casa familiare ad un solo coniuge rivela gravissime incongruenze giuridiche che amplificano i danni economico-patrimoniali conseguenti alla separazione.
Di Alessio Cardinale
Il tema della protezione del patrimonio ha una sua evidenza importante in alcuni casi specifici, allorquando un improvviso fattore esterno (es. insorgenza di un credito da danno cagionato a terzi) o interno alla famiglia (separazione e divorzio) genera dei rischi sicuramente prevedibili ma fino a quel momento non affrontati con le dovute cautele e con sufficiente programmazione. In particolare, quando la coppia si disgrega, si verifica un certo livello di indebolimento patrimoniale che spesso si rivela irreversibile, anche in termini prospettici. Eppure, non dovrebbe essere così, e gli obiettivi di conservazione degli asset a beneficio delle generazioni successive non dovrebbero venir meno neanche in questa occasione.
Il tema in questione è piuttosto delicato per via dei gravissimi risvolti sociali che esso determina e per via dei chiari profili di incostituzionalità che una prassi non sorretta da alcuna fattispecie giuridica rivela ogni giorno di più. Dell’argomento ci siamo già occupati in almeno due occasioni, sia in chiave esclusivamente giuridica che sotto l’aspetto più pratico; oggi “chiudiamo il cerchio” con un approfondimento sugli effetti economici e patrimoniali di questa prassi nel periodo che intercorre dall’assegnazione giudiziale al momento in cui decadono i presupposti che ne hanno determinato la decisione. In particolare, ci concentreremo anche sui principi di alcune possibili soluzioni normative e/o di semplice approccio giurisprudenziale che potrebbero restituire equità ad un “istituto” caratterizzato da forti sperequazioni ai danni di una sola categoria di soggetti e, soprattutto, ai danni del patrimonio familiare.
In linea di principio, l’assegnazione della casa coniugale rappresenta il punto di svolta negativo di qualunque essere umano – di sesso maschile nella quasi totalità dei casi – poiché impone la sua completa riorganizzazione economica e sociale che a volte, per le fasce di patrimonio e reddito più basse, può avere esiti anche tragici. Ebbene, metodi e criteri adottati nei tribunali per disciplinare questo naturale portato della separazione coniugale non trovano alcuna corrispondenza normativa nel nostro Ordinamento, per cui risultano essere un vero e proprio “prodotto legislativo” della giurisprudenza di merito gravato da larghissimi profili di incostituzionalità. Infatti, nel caso dell’assegnazione della casa coniugale, il giudice che la dispone non fa alcuna menzione del fondamentale requisito del periodo di tempo massimo a cui dovrebbe necessariamente sottostare; di conseguenza, risulta impossibile catalogare tale istituto all’interno di una fattispecie giuridicamente prevedibile, dal momento che, senza la definizione di un limite temporale ben definito, qualunque tentativo di trovare una catalogazione nelle fonti del diritto fallisce miseramente.
Con eccezione di tutti quei casi in cui l’assegnataria dell’immobile coniugale ne sia anche la proprietaria esclusiva (es. per via successoria o per acquisto individuale precedente al matrimonio), allorquando il coniuge fuoriuscito sia proprietario esclusivo o comproprietario l’assenza di un termine temporale a cui sottoporre tale assegnazione, la sua lunghissima durata e la mancanza di un adeguato indennizzo o compensazione economica determinano un abuso del diritto – secondo diversi studiosi, anche una violazione dei diritti umani in capo al soggetto fuoriuscito dalla casa coniugale – poiché tale istituto genera in modo forzoso e senza alcuna motivazione specifica un concreto trasferimento di ricchezza da un soggetto (il coniuge allontanato dalla casa) ad un altro (il coniuge assegnatario).
Tuttavia, l’Ordinamento non può certo permettere che tale impoverimento, in apparenza dovuto “all’interesse della prole”, si protragga per un tempo indefinito senza stabilire un valore economico compensativo, diretto e/o indiretto, che ristori chi è costretto a lasciare la casa, persino quando ne è l’unico proprietario. Dal lato del coniuge assegnatario, infatti, l’assegnazione per un periodo indefinito rientrerebbe in modo perfetto nelle ipotesi di ingiustificato arricchimento previste dal Codice Civile (art. 2041), con la sola differenza che in questo caso è un tribunale (e non una legge dello Stato) a determinare discrezionalmente le attuali e inique modalità di applicazione dell’art. 337 sexies Codice Civile, secondo il quale “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà...”. Quindi, persino il Codice Civile prevede che i tribunali debbano tener conto del valore intrinseco di tale assegnazione nel regolare i rapporti economici post-separazione tra i genitori; tuttavia, il primo comma dell’art. 337 sexies Codice Civile continua a rimanere lettera morta, poichè:
1) nessun parametro di valorizzazione della casa coniugale viene tenuto in considerazione dai magistrati civili nelle proprie decisioni (nemmeno in via generica o di semplice principio), e
2) la casa viene assegnata alla ex moglie (e non ai figli) per lunghissimo tempo anche quando la proprietà esclusiva è dell’ex marito.
Pertanto, neanche il c.d. valore locativo dell’immobile assegnato viene riconosciuto quale compensazione economica (almeno parziale) di quanto stabilito come alimenti per l’ex coniuge, quando spettanti. La circostanza è piuttosto grave, poiché l’assegnazione della casa coniugale ad un solo soggetto e a tempo indeterminato genera una gravissima compressione del diritto di proprietà del tutto simile alla perdita di fatto dell’usufrutto, che è un diritto reale ed ha un notevole valore economico calcolato in base a dei coefficienti specifici. Tale ultima tesi è sorretta da diverse pronunce della Corte di Cassazione, secondo le quali l’ex marito che entra arbitrariamente nella casa assegnata alla ex moglie rischia, appunto, una condanna per violazione di domicilio, essendogli inibita qualsiasi forma di fruizione.
La questione, quindi, assume i contorni di una “requisizione a termine indefinito” dell’usufrutto, per la quale andrebbe riconosciuto a chi la subisce (coniuge fuoriuscito proprietario o comproprietario) un giusto indennizzo economico o un equo valore compensativo che, se non può – o non vuole essere – stabilito in sede di assegnazione giudiziale per via della imbarazzante disomogeneità territoriale delle sentenze in materia di separazione e divorzio, dovrebbe necessariamente essere annoverato tra i crediti di natura fiscale, calcolati in ragione d’anno (di mancato utilizzo) e in base a parametri certi, trovando così una sua puntuale valorizzazione tale da compensare doverosamente la “requisizione a termine indefinito” subita dal coniuge fuoriuscito. E non v’è dubbio che debba essere lo Stato a sobbarcarsi la parte maggiore o la totalità di questo onere – in termini di maggiori deduzioni per il contribuente e di minori entrate fiscali – poiché la requisizione dell’usufrutto in capo al coniuge fuoriuscito risponderebbe ad un principio generale (l’interesse dei minori e/o del c.d. coniuge “più debole”) in rispetto del quale nei tribunali si permette che una categoria di persone titolare di diritti venga di fatto impoverita (in modo spesso irreversibile) a vantaggio di un’altra categoria e, in tal modo, venga violata la nostra Costituzione agli articoli 3 (commi I e II), 23, 36 (comma I), 42 (comma II) e 47 (comma II).
Una soluzione alternativa, ma insufficiente, potrebbe essere quella di riconoscere in capo al coniuge fuoriuscito un credito certo – facilmente calcolabile in base al periodo di effettivo utilizzo esclusivo da parte del coniuge assegnatario – da monetizzare in occasione della futura vendita, volontaria o forzata, dell’immobile coniugale, ma questa misura troverebbe applicazione solo per le case acquisite dai coniugi in comproprietà o comunque ricadenti nel regime della comunione, e non in tutti quei casi di immobili di proprietà esclusiva del coniuge fuoriuscito ma ugualmente assegnati alla ex moglie; a meno che non si riconosca la possibilità di poter utilizzare tale credito in forma esecutiva anche in modo forzoso (es. attraverso il pignoramento di un quinto degli emolumenti del coniuge assegnatario, qualora abbia reddito).
Di certo, l’attuale sistema illiberale di regolare le disponibilità patrimoniali nelle separazioni necessita di un intervento normativo urgente al fine di rimuovere illegittimi trasferimenti di ricchezza da un soggetto all’altro e, nei casi più gravi, evidenti induzioni alla povertà. Il coniuge assegnatario, infatti, durante il periodo di godimento esclusivo della casa coniugale ricava un indubbio vantaggio economico perfettamente quantificabile in base ai valori locativi espressi dal mercato immobiliare nel periodo che va dall’assegnazione giudiziale al momento della perdita dei requisiti (es. convivenza more uxorio e/o figli diventati economicamente indipendenti). Tali valori, peraltro, vengono cristallizzati da autorevoli uffici studi di natura pubblicistica e privatistica (a titolo di esempio: Banca D’Italia, Nomisma, grandi reti di intermediazione immobiliare) e persino dalla Agenzia delle Entrate, la quale pubblica periodicamente i dati del suo Osservatorio Immobiliare (O.M.I.). Quest’ultimo database, sebbene non dia quotazioni in tempo reale – sono disponibili, quartiere per quartiere di ogni comune italiano, quelli del semestre precedente – costituisce una banca dati molto affidabile anche per determinare lo “storico” dei valori espressi negli anni precedenti, dando così alla magistratura di merito parametri semplici e di facile verifica che non richiedono l’ausilio di consulenti tecnici di ufficio (CTU).
Ovviamente, l’architrave di un simile sistema di equità rimane comunque l’apposizione di un termine al godimento esclusivo della casa coniugale, eventualmente prorogabile su richiesta di parte e solo per gravissime motivazioni (es. malattia grave del coniuge assegnatario o di un figlio convivente). Solo così, infatti, si attribuirebbe alla assegnazione della casa coniugale la sua naturale caratteristica di strumento a tempo determinato (e non indefinito) e si sanerebbero così gli effetti di decisioni che incidono negativamente sugli individui ed anche sul patrimonio familiare da trasmettere alle generazioni successive. Peraltro tale ultima misura – l’apposizione del termine massimo – non necessiterebbe di alcun intervento normativo per essere attuata in tutti i tribunali, poiché le attuali modalità di assegnazione della casa sono conseguenza di una prassi di origine giurisprudenziale e, come tali, modificabili in sede di decisione a totale discrezione e “libero convincimento” del magistrato. Tuttavia, se la discrezionalità usata nei tribunali ha prodotto fino ad oggi tale stato di cose, il passaggio parlamentare appare imprescindibile.