Dicembre 2, 2024

Il calcio femminile e le “istanze impossibili” di parità retributiva. L’economia ha le sue regole

Non c’è alcuna “discriminazione retributiva di genere” ai danni delle calciatrici, ma solo l’applicazione delle regole più elementari di economia aziendale. Lo sport stia lontano dalle ideologie di genere.

di Alessio Cardinale

Il tema della parità retributiva è diventato, negli ultimi anni, il cavallo di battaglia di un certo tipo di informazione, molto attenta alle tematiche del mondo femminile ma stranamente poco attenta ai dettagli di natura economica. In particolare, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla fioritura di contenuti sul c.d. gap salariale (o gender pay gap) in relazione al quale sono state pronunciate numerose affermazioni incaute e altrettante correzioni di rotta, quasi ad inseguire una spiegazione che andava aggiornata e “aggiustata” ogni qual volta che l’infondatezza di quelle stesse affermazioni veniva fuori con chiarezza.

Purtroppo, sul tema della informazione-disinformazione di massa il mondo sta vivendo sulla propria pelle la scomparsa del vero giornalismo indipendente (quello degli anni ’60, ’70, ’80 e primi anni ’90), decentrato e libero dai condizionamenti dei grandi gruppi industriali, e sta subendo “l’esperienza” della informazione accentrata, ossia quella decisa a tavolino ogni giorno dai pochi soggetti proprietari dei più influenti canali media del mondo (RTL Group, News Corporation, NBC e Viacom, TF1), i quali hanno da tempo adottato la strategia di Goebbelsiana memoria della diffusione ossessiva di notizie asservite ad alcune correnti di pensiero dominante e strumentali agli interessi economici (o anche militari) dei più grandi players finanziari e governativi (USA in cima).

In tutta evidenza, i timori dei vari organismi antitrust sulle limitazioni alla libertà di stampa generate dalle operazioni di fusione e acquisizione (M&A) nel settore dei media erano fondati e, com’era stato previsto, alla eccessiva concentrazione industriale di aziende editoriali e televisive è seguita la nascita del fenomeno della informazione accentrata e non più “libera”. All’interno di questo scenario illiberale, negli anni scorsi ha trovato strada facile il “mantra” del presunto gender pay gap retributivo ai danni delle donne, che nella sua prima versione (“…le donne guadagnano meno degli uomini a parità di mansioni…”) è stato presto smascherato come una delle peggiori bufale di questo millennio. Infatti, le norme che vietano di pagare un lavoratore meno di un altro a parità di mansioni e grado, sia nel settore pubblico che in quello privato, sono rigidamente osservate da tutti i datori di lavoro in Italia e nel mondo occidentale (provate a trovare una insegnante o una operaia che guadagnano meno dei colleghi uomini con uguali mansioni e anzianità di servizio…).  

Qualcuno un po’ più sveglio, resosi conto che la bufala si scontrava con il dato di realtà di milioni di lavoratori e, quindi, faceva acqua da tutte le parti, si è affrettato a correggere la rotta chiarendo che il (sempre presunto) gender pay gap retributivo non è un problema individuale, ma “di categoria”, nel senso che l’insieme delle donne lavoratrici ha un aggregato retributivo – in termini assoluti – inferiore a quello relativo all’insieme degli uomini che lavorano, dimenticandosi però di specificare che tale stato di cose non è certo frutto di “discriminazione reddituale” ai danni delle singole donne (o peggio ancora del loro insieme) ma il naturale portato di una serie di fattori socio-economici (maggiore ricorso al part-time da parte delle lavoratrici, rinuncia volontaria di molte donne ai percorsi di carriera, scarsa preferenza delle donne verso il lavoro autonomo, etc) che con la discriminazione non c’entrano nulla. Eppure, nonostante ciò, la propaganda ossessiva centrata sulla bugia che “le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini guadagnano meno di loro” fa fatica ad essere rimossa, ed ha finito per trascinarsi fino al calcio professionistico, dove i fattori industriali che regolano le logiche retributive di calciatori e calciatrici sono universalmente accettate e sorrette da basilari principi di economia aziendale.

Naturalmente, non tutte le grandezze economiche alla base delle varie discipline sportive maschili e femminili sono così distanti tra loro come nel calcio. Nel Tennis femminile, per esempio, le giocatrici fin dagli anni ’50 si sono fatte strada anche nel mondo degli sponsor e dei media, riuscendo ad ottenere grande visibilità e un ottimo seguito da parte degli appassionati di entrambi i generi. Ciò ha permesso col tempo alle federazioni tennistiche femminili (riunite nel WTA) di imporre agli organizzatori dei tornei l’assoluta parità dei premi per uomini e donne sia in caso di vittoria che nelle fasi eliminatorie intermedie, ma tutto questo è stato possibile grazie al fatturato e ai benefici reputazionali che il tennis femminile – oggi quasi al pari di quello maschile – assicura rispettivamente ai media (introiti pubblicitari, abbonati) e agli sponsor (autorevolezza del brand e vendite al dettaglio).

L’oggetto di contesa riguarda, come dicevamo, il calcio femminile, dove le cose ad oggi sono andate molto diversamente rispetto al tennis o ad altre discipline (volley e atletica, per esempio). Ad alzare il tono della polemica era stata, qualche settimana fa, la calciatrice svizzera L’attaccante svizzera Alisha Lehmann, compagna del calciatore di serie A Douglas Ruiz (Juventus), la quale in occasione di diverse interviste ha affermato che “…io e Douglas facciamo lo stesso lavoro ma lui guadagna cento volte più di me. Il Mondiale femminile è stata la quinta manifestazione sportiva più vista al mondo, per cui è chiaro che noi donne dobbiamo avere la stessa retribuzione del calcio maschile…”. Peccato che, nel mondo del calcio (così come di tutti gli sport), contano i ricavi industriali, che il calcio maschile produce in misura mediamente pari a dieci volte quelli femminili. Ciò spiega perchè le calciatrici oggi sono pagate di meno degli uomini, e ciò spiega perché le cose staranno così finché i ricavi industriali del calcio femminile non saranno tali da consentire una meritata eguaglianza.

Per spiegare meglio il concetto, ecco un esempio: i ricavi dell’ultimo campionato europeo di calcio maschile sono stati pari a 4,3 miliardi di euro, mentre quelli dell’ultimo campionato europeo di calcio femminile sono stati di 140 milioni di euro; le retribuzioni delle calciatrici, però, sono state pari a circa 30 milioni, ossia più del 20% del monte ricavi, mentre quelle dei calciatori circa 300 milioni di euro, ossia il 7% del totale dei ricavi. Ebbene, se è vero che, in valore assoluto, i giocatori hanno guadagnato nel complesso 10 volte più delle giocatrici, è anche vero che il fatturato del calcio europeo maschile è stato pari a 30 volte rispetto a quello femminile. Pertanto, chiedere oggi per le calciatrici professioniste la parità “politica” di retribuzione sulla base di queste enormi disparità di ricavi nei rispettivi settori, equivarrebbe a voler far fallire tutte le federazioni sportive del mondo.

Nessuna “discriminazione retributiva”, quindi, ma solo l’applicazione di una logica industriale elementare: se i ricavi industriali totali sono pari a 100, non si può destinare tutta la somma al monte retribuzione, sennò non si riuscirà a coprire tutti gli altri costi di funzionamento dell’azienda, determinandone il fallimento. Né è concepibile – sebbene in tanti lo vorrebbero per invidia o finto perbenismo – che i calciatori si auto-riducano il proprio stipendio di venti volte nel nome della “parità di guadagno” tra i due generi. Ciò che risulta ingannevole – è evidente – è mettere a confronto i valori assoluti. Infatti, se si guarda alla percentuale del guadagno rispetto all’indotto generato rispettivamente dal calcio maschile e femminile, le calciatrici guadagnano – come abbiamo visto – una percentuale ben più alta dell’indotto generato dalle competizioni femminili rispetto ai colleghi uomini.

Un altro esempio pratico chiarirà ancor di più la questione. Si stima che il calcio maschile, nel suo insieme, generi un indotto annuo di circa 25 miliardi di euro solo in Europa, e si sa che i calciatori della massima serie dei vari campionati nazionali arrivino a guadagnare in media 10 milioni di euro all’anno ciascuno, ossia in media lo 0,04% in rapporto all’indotto totale; il calcio femminile europeo, al contrario, genera circa 0,7 miliardi (700 milioni) di euro di indotto all’anno, ma le migliori calciatrici guadagnano fino a 500.000 euro l’anno, ossia lo 0,07% dell’indotto, che è quasi il doppio del dato riferito al calcio maschile. Tutto questo spiega l’impossibilità di poter accogliere anche “in teoria” qualunque istanza di parità retributiva, il cui raggiungimento è augurabile ma sotto gli auspici del rispetto del principio del “neminem leadere”: il calcio femminile, anziché auspicare una riduzione “politica” degli stipendi dei calciatori, investa su sé stesso, in modo da colmare negli anni il “gap sportivo” e raggiungere la parità retributiva nel rispetto del criterio meritocratico già applicato con successo in altre discipline (Sci, Volley, Atletica, Tennis etc).

Related Posts

Lascia un commento