L’America unita alza i tassi dello 0,75%, l’Europa divisa si limita agli annunci

La Fed vara un energico aumento dei tassi, mentre la Bce annuncia futuri strumenti anti-spread non ancora ben identificati, irritando gli analisti. Un modello debole di Unione Europea non può che produrre soluzioni deboli.
Che il momento non fosse dei migliori, già anche i poco informati lo avevano capito. In una Unione Europea che, negli ultimi due anni, ci aveva abituato ad interventi “regolarmente straordinari” di finanza pubblica a sostegno dell’economia, in molti si chiedevano come l’attuale congiuntura – certamente più grave di qualunque semplice correzione dei mercati finanziari e dell’economia reale – non avesse ancora generato un dibattito sull’adozione di misure capaci quanto meno di ridurre i danni. In tal senso, un primo segnale era arrivato ieri, con una riunione non programmata del Consiglio direttivo della Banca centrale europea per discutere della recente debacle dei titoli di Stato, cresciuta di intensità dopo che è stato annunciato il piano per l’aumento dei tassi di interesse.
L’annuncio della riunione era arrivato dopo che il rendimento del debito decennale italiano era salito al di sopra del 4% per la prima volta dal 2014, e questo determinava un nuovo scenario di politica monetaria, in cui la Bce pone fine a otto anni di tassi negativi e avvia un ciclo di rialzi pianificati a partire da luglio e con prossima tappa a Settembre. In più – ed è questo ciò che ha generato il sell-off sui titoli di stato italiani – già dal primo Luglio la Bce terminerà gli acquisti netti di obbligazioni (il c.d. Quantitative Easing) che negli ultimi anni ha determinato una enorme espansione della liquidità a sostegno delle economie colpite dal Covid.
La buona notizia, nella mente degli strateghi della Bce, sarebbe stata quella di aver incaricato gli uffici tecnici di accelerare il completamento di un nuovo strumento anti-frammentazione dello spread – che in Italia è aumentato sensibilmente nelle ultime settimane rispetto al BUND tedesco – con l’obiettivo di avere delle opzioni nel caso in cui il programma di finanza straordinaria inaugurato con la pandemia non dovesse bastare; ma la mossa della Bce non ha convinto del tutto gli analisti, poiché la sua efficacia è tutta da dimostrare, e la speculazione sui titoli di stato dei paesi periferici raramente si ferma di fronte ai semplici annunci di eventi o mezzi ancora da definire, neanche se hanno il marchio della Banca centrale europea. Infatti, secondo gli analisti di Carmignac, è probabile che questo strumento genericamente annunciato non impedirà ai mercati di continuare a spingere per un aumento degli spread europei, frammentandoli ulteriormente al punto che, quando il c.d. scudo anti-spread vedrà la luce, l’entità del differenziale di rendimento tra BTP e BUND sarà tale che l’efficacia del nuovo strumento potrebbe rivelarsi insufficiente.
Pertanto, si tratterebbe del classico elefante che partorisce un topolino, e questo purtroppo è il prodotto di un modello fallimentare di Unione Europea, che di fronte agli eventi straordinari – l’inflazione al 7% è un fenomeno dai risvolti economici del tutto simili, se non più gravi, di quelli scatenati dalla pandemia – rimane diviso sull’opportunità e la necessità di introdurre un nuovo e più difficile meccanismo di stabilizzazione che possa mettere in repentaglio l’equilibrio economico dei paesi del Nord Europa, lasciando a se stessi quelli del Sud (tra cui,
naturalmente, l’Italia). La circostanza che ha più irritato gli analisti, inoltre, è che la Bce, dopo soli sei giorni dall’aver annunciato la fine del QE, rilancia lo strumento dei reinvestimenti flessibili del programma PEPP che aveva già ripetutamente annunciato dal 2020, riformulandolo adesso in chiave “anti-spread”. La verità è che la Bce non ha ancora un piano, o non è stata in grado di definirlo entro la giornata di ieri, ma le circostanze richiedevano una mossa e la banca centrale si è limitata ad annunciare la prossima creazione di un nuovo strumento di sostegno contro gli spread di cui, però, non si conoscono bene le coordinate, rivelando così una incertezza di fondo che nessuna istituzione finanziaria può permettersi senza trasmetterla irrimediabilmente agli analisti e ai mercati.
In pratica, la Bce avrebbe dovuto usare la stessa sicurezza ostentata nel comunicare nettamente che, nella prossima riunione di Luglio, sarà deciso un rialzo di 25 punti base, e un altro rialzo di entità ancora non definita (e questo ci sta, invece) a settembre. Si pensa che l’aumento di tasso di fine estate sarà dello 0,50%, e che tale misura potrebbe essere più leggera solo qualora in quel periodo le pressioni inflazionistiche non siano migliorate. La Fed, dal canto suo, è intervenuta con il suo stile tradizionalmente energico, ed ha alzato i tassi di interesse dello 0,75%, con una mossa che non si vedeva dal 1994. Il costo del denaro sale così in una forchetta fra l’1,50 e l’1,75%, e la Fed prevede per il 2022 tassi di interesse compresi tra il 3,1% e il 3,6% un range compreso tra il 3,6% e il 4,1% nel 2023. Coerentemente, la Federal Reserve ha tagliato le stime sul Pil Usa all’1,7% contro +2,8% stimato a marzo, sia per il 2022 che per il 2023, e all’1,9% per il 2024. Ciò consentirà agli USA di mantenere il contesto di sostanziale piena occupazione, poiché la Fed stima che il Paese chiuderà il 2022 con un tasso di disoccupazione del 3,7% ed il 2023 con un tasso del 3,9%.
In definitiva, l’attuale congiuntura economica mondiale ha fatto emergere, ancora una volta, la profonda differenza tra i due “modelli federativi” continentali del mondo occidentale. Da un lato, infatti, abbiamo il modello degli Stati Uniti d’America che, appunto, è una consolidata unione di popoli, sviluppatasi lungo l’arco di eventi storici e culturali anche gravi, che però ne hanno forgiato il carattere e il senso di appartenenza; dall’altro, abbiamo l’Unione Europea che non è una vera unione (né popolare né fiscale), ed è nata da un semplice disegno economico a guida franco-tedesca capace di realizzare un modello basato sulla dicotomia tra Nord e Sud Europa, che oggi impedisce la realizzazione di programmi unitari efficaci (e rapidi) ogni qual volta che le circostanze straordinarie lo richiedono.
Si tratta, quindi, di un modello “depotenziato” di Unione Europea, con il quale dovremo convivere per molti anni ancora. E da un modello economico debole (solo per i paesi del Sud Europa, però), ci si possono aspettare soltanto soluzioni deboli.