Mercato azionario USA: il gap tra “narrazione” e realtà continua ad ampliarsi
Un tempo gli investitori selettivi cercavano di allocare il capitale verso chi lo meritava e lo toglievano a chi era meno affidabile. Quegli stessi investitori non avrebbero mai sostenuto un sistema come quello attuale.
Di Maurizio Novelli*
In linea generale, tutti noi siamo stati abituati a considerare i mercati finanziari come una forma di canale di finanziamento all’economia. Il ruolo dei mercati e degli investitori è sempre stato quello di selezionare chi meritava il denaro che il sistema metteva a disposizione e chi non lo meritava. Da oltre dieci anni, con l’esplosione degli ETF e delle gestioni passive, questo meccanismo di selezione è stato cancellato. Infatti, il mercato finanzia sia le società che guadagnano sia quelle che perdono, e favorisce un sistema che non produce più ricchezza in modo diffuso, ma solo in modo sempre più concentrato.
Sebbene il 25% delle società quotate negli Stati Uniti sia nel segmento “zombies” – società i cui profitti non coprono nemmeno i costi di finanziamento dell’operatività corrente – i flussi di capitale verso tali società sono comunque garantiti dalla gestione passiva. Questo è anche uno dei motivi che ha portato la capitalizzazione della borsa Usa al 150% del PIL. Le principali società di asset management USA, che hanno ormai l’unico scopo di sostenere un sistema in crisi, spingono per favorire questo fenomeno, dato che sono i principali players su ETF di ogni tipo, in un meccanismo che potrebbe ravvisare un conflitto di interessi con il ruolo di portfolio manager: con la mano destra dici di selezionare gli investimenti secondo certi criteri, mentre con la sinistra (che è grande quanto la destra) compri qualsiasi cosa.
Le politiche di tassi a zero per 14 anni delle banche centrali hanno favorito la canalizzazione di ingenti risorse finanziarie su mercati che non avevano più il ruolo di selezionare “il grano dalla paglia”. La strategia mirata ad eliminare mercati selettivi è finalizzata esclusivamente a cercare di sostenere ad oltranza un sistema in crisi ormai da tempo, e che dalla crisi non riesce comunque ad uscire. E quindi selezionare non deve essere più remunerativo, mentre chi non seleziona viene premiato rispetto a chi lo fa. Infatti, se dovessimo applicare una selezione degli investimenti in base a criteri basati sulle valutazioni e profittabilità del business, il 90% del mercato azionario americano sarebbe da vendere, trascinando al ribasso tutti i mercati azionari mondiali.
Recentemente Morgan Stanley e JP Morgan hanno pubblicato alcune note sul mercato azionario USA in relazione alla “qualità degli utili”. Queste analisi mettevano in guardia gli investitori sul fatto che numerose aziende americane evidenziano oggi cash flows in contrazione ma utili in rialzo. Questo fenomeno mostra un peggioramento della redditività, mascherato da artifici contabili. Queste pubblicazioni non fanno che confermare che la situazione reale è molto diversa da quella che appare in superficie, e il gap tra “narrazione ufficiale” e realtà continua ad ampliarsi. Anche il modo di focalizzare le notizie sul fatto che le società “battono le stime” fa perdere completamente il focus sull’andamento reale dei profitti. Tutti enfatizzano il fatto che la società “batte le stime”, ma non viene evidenziato dai media se i profitti salgono o scendono.
I mercati selettivi, dove gli investitori cercavano di allocare il capitale verso chi lo meritava e lo toglievano a chi non lo utilizzava in modo remunerativo, non avrebbero mai sostenuto un sistema come quello attuale. L’interesse delle autorità è dunque quello di fare in modo che il denaro continui a confluire in modo indiscriminato verso un sistema che non produce più ricchezza (se non in modo concentrato) e sostenga un modello nato 15 anni fa sul QE, che ora è sull’orlo dell’insolvenza. Il motivo per il quale il mercato non deve essere selettivo è dunque evidente, dato che, nel momento in cui dovesse fare la distinzione tra “il grano e la paglia”, la situazione inizierebbe a degenerare in tempi molto rapidi. Questa è la reale situazione nella quale ci troviamo attualmente e che cerchiamo in tutti i modi di nascondere.
Comunque sia, dato che in economia nulla è gratis e il conto da pagare arriva sempre, l’allocazione di ingenti risorse finanziarie verso attività in perdita o non remunerative, che per di più non possono fallire perché rischiano di innescare effetti sistemici, procurerà nel migliore scenario possibile la stagnazione di lungo periodo, dato che una crescente percentuale delle risorse finanziarie a disposizione devono servire a puntellare società insolventi che non producono reddito. In questo scenario la redditività del capitale, che ha beneficiato di ritorni fuori dalla media negli ultimi dieci anni grazie a fenomeni straordinari, è destinata a subire (purtroppo) un netto ridimensionamento. È inoltre inevitabile che il long landing, procurato da una crisi strisciante del colossale debito speculativo contratto nell’era del QE, prima o poi, si trasformerà in un hard landing (“how did you go bankrupt? Two ways. Gradually, then suddenly” – Ernest Hemingway, The Sun Also Rises).