Novembre 7, 2025
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Clienti over 60 e “disagio tecnologico”, indispensabile il ruolo del consulente finanziario

L’utilizzo “forzoso” della tecnologia nei servizi finanziari, secondo Manlio Marucci, crea negli investitori over 60 il bisogno di essere affiancati nell’utilizzo del digitale. Per questo i consulenti finanziari sono insostituibili.

Intervista di Massimo Bonaventura

Già da dieci anni le banche stanno vivendo una inesorabile trasformazione grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e agli strumenti di gestione dei servizi offerti dal mondo digitale. Questi fattori hanno portato alla progressiva perdita di centralità delle filiali fisiche – che chiudono al ritmo di 1.000 ogni anno negli ultimi cinque anni – e alle necessarie modifiche nella gestione della relazione con la clientela, che si va abituando, non senza disagio, a svolgere le operazioni a distanza.

Tutti questi cambiamenti hanno un impatto significativo anche sui profili e le competenze che le aziende del settore ricercano, ma soprattutto sul trattamento economico e sugli orari di lavoro, per i quali la parola d’ordine è “flessibilità”. Questo fattore, che ben si sposa con le professioni emergenti e maggiormente richieste oggi dal mondo bancario (analisti e specialisti antiriciclaggio e anti frode, compliance, anti-money laundering e anti fraud specialist), trova più difficile adattamento nelle figure del gestore clientela privata, corporate e wealth, che si sono profondamente evolute rispetto al passato ed oggi devono essere dotate di competenze trasversali che consentano di agire in un contesto profondamente mutato e con categorie di clientela anche molto diverse tra loro per fasce d’età, esperienza, competenza e abitudini.

In ogni caso, la pressione per ridurre i costi e aumentare l’efficienza sta portando le banche a spingere sull’accelerazione digitale, e sono moltissimi ormai i clienti bancari che stanno abbandonando i tradizionali servizi bancari in filiale per ricorrere a quelli online e mobili. Questo ha generato l’emersione di nuove figure professionali che stanno gradualmente sostituendo quelle tradizionali. Un esempio su tutti è rappresentato dagli addetti alle attività di sportello bancario, che oggi fanno anche attività di consulenza ma sono sempre più insidiate dai consulenti presenti nei call center, che invece gestiscono le relazioni con i clienti a distanza sollecitando la loro attenzione sui vari servizi e prodotti che tradizionalmente erano distribuiti tramite le filiali fisiche. All’interno di questo scenario, la figura “ibrida” e flessibile per eccellenza del consulente finanziario, che a dispetto delle previsioni più nere riesce a conservare il proprio spazio professionale e potrebbe acquisire nuovi ruoli. Ne abbiamo parlato con Manlio Marucci, presidente di Federpromm.

Prof. Marucci, nel mondo delle banche avanza sempre più il lavoro flessibile, che mette in crisi sia il tradizionale modello organizzativo del credito che quello della consulenza. I principali gruppi bancari guardano al lavoro flessibile esclusivamente come strumento per migliorare il clima aziendale, poiché esso concilierebbe le esigenze familiari con la richiesta di maggior produttività. Secondo lei questa strategia è valida, oppure pecca di superficialità?
Se si vuole correttamente inquadrare il problema, questo va visto nel contesto generale macroeconomico, finanziario, sociale e culturale delle varie attività che producono ricchezza e surplus di capitale. Indubbiamente, le attività legate a settori strategici, come la funzione delle banche e delle reti di consulenza finanziaria, che sono fondamentali nel gestire ed indirizzare il risparmio delle famiglie, hanno modelli organizzativi aziendali che cercano di sfruttare al meglio le risorse umane. Ad eccezione dei consulenti – che sono lavoratori autonomi – il voler adottare a queste aziende il lavoro flessibile risponde ad una logica precisa, quella di ridurre i costi di gestione del personale, indipendentemente dai benefici indiretti che possono essere legati a migliorare le condizioni dei lavoratori in termini di tempo libero per la famiglia.

Questa logica porta con sé effetti collaterali positivi di qualche tipo?
Sicuramente favorisce nuovi modelli di consumo, sempre utili per favorire lo sviluppo economico generale. Su questo vi sono ampie ricerche della psicologia sociale e del lavoro che, a partire dagli anni trenta del secolo scorso (condotte dal sociologo Elton Mayo della scuola di Chicago), hanno messo in evidenza come sia importante la relazione dei gruppi di lavoro con i fattori psicologici, comportamentali, ambientali e produttivi. Si tratta di un processo inarrestabile, che riguarda tutti i settori determinati anche dalle nuove forme di lavoro imposte dalla tecnica e dai nuovi modelli della scienza applicata. Suggerisco una lettura anticipatoria sui tempi attuali nell’ormai classico pamplhet di H.Marcuse, “Saggio sulla liberazione“, edito da Einaudi nel 1969.

Oggi il PIL dei paesi occidentali è saldamente in mano ai c.d. babyboomers per due terzi. Eppure, questa categoria socioeconomica si distingue per un utilizzo meno ossessivo o persino accessorio della tecnologia. Questa massiccia digitalizzazione mette a disagio una larga fascia di clienti over-65 e over-70, poco avvezzi all’uso degli smartphone per le operazioni di banca: che posto hanno le loro aspettative in termini di maggiore qualità dei servizi, in uno scenario così difficile?
L’accelerazione verso l’uso generalizzato della tecnologia digitale nei servizi finanziari è sicuramente un arma a doppio taglio. Mentre avanza infatti la richiesta e la domanda di avere maggiore assistenza da parte dei clienti, e quindi avere una maggiore capacità di analisi e confronto sui prodotti e servizi offerti dai vari soggetti abilitati per attenuare i margini di rischio degli investimenti, dall’altra si sollecitano gli stessi clienti ad affidarsi alla digitalizzazione massiccia e ai nuovi sistemi di autonomia nello svolgimento delle operazioni bancarie, dalla più semplice a quella più sofisticata.

Come può essere conciliato questo dualismo, che sembra destinato a durare ancora diversi anni?
Credo sia opportuno conciliare tale dualismo attraverso l’indispensabile figura del consulente finanziario, che conosce il vasto panorama degli strumenti finanziari e riesce a dare significato al rapporto fiduciario tra banca e cliente, “superando” il disagio che decine di milioni di investitori over 60 provano per via del “necessario” ricorso alla tecnologia. Insomma, il consulente diventa sempre più un relè importante nella dinamica del rapporto con la clientela, laddove sono mancate proposte incoraggianti che sappiano affrontare la stratificazione sociale le varie differenze esistenti per fasce di età, per sesso, per grado di istruzione, per professioni svolte, per livello di alfabetizzazione maturata. In sostanza manca – al di là di una regolamentazione ben strutturata sulla trasparenza ed obblighi imposti agli intermediari – una strategia di carattere generale che sappia raccogliere le istanze delle categorie che rientrano nella classificazione degli over 60.  

Secondo lei, quanto delle trasformazioni imposte dall’alto dalla MiFID e dalla MiFID II alle reti di consulenza è stato “capito” dagli utenti? Sono in grado di notare delle differenze rispetto al periodo precedente?
Non vi è una conoscenza diretta se non per gli addetti ai lavori e per i clienti classificati come “clienti professionali”. Lo dimostra il fatto dell’ultima pubblicazione del “Rapporto sulla relazione consulente-cliente” diffusa al mercato da parte della Consob, in collaborazione con l’Università Roma Tre. Una indagine che completa le precedenti ricerche sul tema a cui si rimanda per avere un quadro delle distonie informative e conoscitive al fine di accrescere la qualità e il dialogo tra consulente e cliente.  

Relativamente ai consulenti, perchè si continua a parlare di ulteriori tagli ai margini di ricavo dei professionisti del risparmio, nonostante i tagli già avvenuti dal 2008 e i maggiori costi imposti alle banche-reti dalle due MiFID sono stati abbondantemente assorbiti dai conti economici delle società mandanti?
E’ la famosa querelle che si trascina da qualche anno, dopo l’applicazione rigida degli adempimenti regolamentari imposti dalla comunità europea e conseguentemente dal recepimento nel contesto italiano di tati direttive. L’obbligo di trasparenza sui costi complessivi in capo ai servizi di investimento ha generato l’abbattimento dei margini nelle retrocessioni per i consulenti finanziari che, essendo l’anello debole della catena distributiva, ne hanno pagato le conseguenze, subendo una riduzione sensibile dei margini di guadagno. Sul tema ebbi modo di intervenire con un mio articolo a cui rinvio per una illustrazione più analitica, che è ancora attualissima.

Otto anni di strategie per l’educazione finanziaria: grandi kermesse, risultati impercettibili

Senza l’introduzione dell’educazione finanziaria come materia curriculare nelle scuole primarie e secondarie, gli italiani continueranno ad essere “finanziariamente ineducati” di generazione in generazione.

Con il decreto-legge del 23 dicembre 2016, n. 237, convertito nella legge del 17 febbraio 2017, n. 15 (“Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio”), quasi otto anni fa prendeva il via la strategia nazionale per l’educazione finanziaria. Si trattava, nelle intenzioni di chi l’aveva concepita, di una iniziativa che, negli anni successivi, avrebbe dovuto contribuire a colmare il divario culturale che divide l’Italia – come in altri ambiti – dai paesi più virtuosi.

In particolare, tutti gli studi effettuati sul tema specifico restituivano uno scenario in cui gli utenti italiani erano poco avvezzi, da adulti, all’autonomia nelle scelte di investimento poiché i programmi scolastici delle scuole primarie e superiori, fin dai loro tempi, avevano scartato sistematicamente qualunque approccio verso l’educazione finanziaria. In più, negli ultimi trent’anni anche insegnamenti fondamentali come l’educazione civica erano stati declassati ad argomenti complementari di altre materie ritenute a torto più importanti o eliminati del tutto dai programmi; per cui, figuriamoci se i giovanissimi studenti italiani potevano essere annoiati da simili argomenti così scabrosi come la Finanza. E mentre oggi si farnetica di “educazione sentimentale” nelle scuole – ultimo grido del politicamente corretto che sta ammorbando la vita di tutti – in Cina, per fare esempio un po’ esotico di virtuosità scolastico, i primi rudimenti di economia e finanza vengono impartiti dall’età di otto anni, ed in molti paesi di lingua anglosassone a partire dai dieci.

Ma veniamo al punto: quali sono i risultati di questa campagna culturale governativa che avrebbe dovuto fare dell’educazione finanziaria uno degli insegnamenti più innovativi e “rinnovativi” da introdurre nelle scuole? Scarsi, quasi impercettibili. Dal di fuori, gli addetti ai lavori hanno la sensazione che ci si stia dando un gran da fare, ma se parliamo di finanza ai diretti interessati, ossia i risparmiatori, 99 su 100 di loro spalancano ancora la bocca e non sanno come argomentare.

Questo non deve sorprenderci più di tanto, poiché una sola kermesse nazionale (il “Mese dell’educazione finanziaria“, solitamente ad Ottobre di ogni anno), per quanto lodevole e piena di buone intenzioni, è un po’ come il festival di Sanremo: una volta terminato, se ne parla per qualche giorno e poi ne rimane solo il ricordo, in attesa della edizione successiva, mentre i protagonisti della competizione canora organizzano i propri impegni nelle lucrose tournee estive e nelle comparsate televisive invernali. Occorrerebbe maggiore continuità, una “spinta culturale” che l’attuale assetto delle iniziative non riesce a dare.

Dopo quasi otto anni, pertanto, ci troviamo praticamente punto e accapo, con un livello di analfabetismo finanziario ancora molto elevato, una finanza sempre più incomprensibile per l’utenza comune, presso la quale però si pretende di diffondere quanto di più tecnologico si sia prodotto negli ultimi quindici anni: home banking, robo-advisor, fintech e piattaforme web. Per chi ha un’età superiore a 60 anni, complice anche la “desertificazione bancaria” (chiusura degli sportelli bancari nelle città e nei piccoli centri) in corso, tutto è diventato improvvisamente incomprensibile, con un abbrivio da record negli ultimi due anni.

Viene spontaneo chiedersi se il sistema bancario si sia mai chiesto se sono proprio questi i fattori per cui, di fronte alla comprensibile ritrosia al cambiamento rapido di chi detiene la maggior parte degli asset mobiliari (i c.d. babyboomers o patrimonials), il denaro che gli italiani detengono nei conti correnti sia ancora così elevato, nonostante l’inflazione degli ultimi due anni e mezzo. La risposta è no: il sistema non se lo chiede, ed anzi sembra mandare a dire, a questi milioni di over-60, che è dotato di grande pazienza, ed aspetta che siano i loro figli – i millennials, tecnologicamente molto più avanzati – a prendere le redini dei valori mobiliari di famiglia. In fondo, aspettare una decina d’anni è sempre meglio che investire miliardi di euro in cultura finanziaria per educare chi sta passando il testimone.

E-book sulla Finanza Elementare.

Eppure, notevoli sarebbero stati, in questi otto anni, i benefici “indiretti” dell’educazione finanziaria curriculare nelle scuole, nella misura in cui anche gli stessi figli avrebbero potuto trasmettere ai genitori, in un processo di comunicazione dal basso verso l’alto, una maggiore attenzione ai temi della finanza. Come? E’ semplice, attraverso i normali compiti di cura: aiutare i propri figli nei compiti a casa sul tema della finanza avrebbe potuto trasmettere anche agli adulti molti concetti e fenomeni economici che, nella maggior parte dei casi, si conoscono ma non si sanno spiegare per via del tasso di “ineducazione finanziaria”.

Inoltre, nulla di concreto – salvo l’iniziativa di pochi lodevoli volenterosi organizzati in associazione – si è fatto per dare dignità al ruolo di educatore finanziario più prossimo alle famiglie svolto da sempre dai consulenti finanziari, i quali avrebbero potuto colmare giusto a partire dalle scuole un vuoto culturale molto grande in un lasso di tempo molto breve, affiancandosi ai docenti in lezioni programmate a cui gli alunni (anche delle medie inferiori) avrebbero potuto partecipare con il giusto coinvolgimento delle famiglie.

“…l’arrivo della MiFID II, con il suo carico di migliaia di norme ai più incomprensibili, rischia di rivelarsi sterile, confermando una legge scolpita nella Storia: a nulla vale aumentare e perfezionare i sistemi di controllo sull’attività degli intermediari se poi, parallelamente, non si fa nulla per aumentare la competenza degli utenti”. Ci scoccia dire che avevamo ragione, almeno fino ad oggi. Anche perchè, date le circostanze tutt’altro che promettenti, darsi delle arie in questo caso lascerebbe l’amaro in bocca.

Consulenti finanziari: sherpa o scalatori? Nessuno venga più lasciato indietro

La metafora degli scalatori e degli sherpa si adatta bene all’attuale scenario delle reti di consulenza finanziaria “MiFID-dipendenti”. Nel 2023 la consulenza finanziaria sta soffrendo una evidente stagnazione dei reclutamenti, ecco perché. 

Di Alessio Cardinale

A fine Luglio scorso l’alpinista norvegese Kristin Harila ha stabilito il record per il minor tempo impiegato nella scalata delle 14 montagne più alte del mondo, completando l’ascesa di tutte le cime che superano gli 8.000 metri tra Cina, Nepal, India e Pakistan in soli 92 giorni. Tuttavia l’alpinista – ve lo ricordate? – è stata accusata di non aver soccorso uno sherpa pakistano durante la sua ultima scalata sul K2, e di averlo lasciato morire pur di proseguire verso la vetta e battere il record. Si è difesa sostenendo che l’uomo, Mohammed Hassan, era stato soccorso, ma che date le condizioni impervie salvarlo sarebbe stato impossibile. Balle: anzichè tornare indietro e salvare il povero sherpa, si è preferito andare avanti per poter piazzare la bandierina nella tanto agognata vetta. Eppure le condizioni erano ugualmente impervie, sia a salire che a scendere.

Pertanto, il mistero su quel tragico episodio di sport estremo rimarrà per sempre, così come gli importanti interrogativi che da esso si sono generati: gli scalatori hanno fatto bene a continuare l’impresa, nella quale avevano investito tempo, preparazione e denaro, oppure sarebbe stato giusto interrompere la scalata e attendere i soccorsi, dando allo sfortunato sherpa tutta l’assistenza possibile? E’ giusto che, per il perseguimento di un obiettivo di un gruppo di individui, anche uno solo di essi possa essere lasciato indietro, andando così incontro ad irreparabili conseguenze?

C’è da dire che, durante scalate di questo tipo, i cosiddetti sherpa sono indispensabili: sono persone modeste, dal tenore di vita più che frugale ma di grande esperienza,  che generalmente conoscono bene le montagne e si occupano per lo più dei lavori di fatica (portare l’attrezzatura pesante, montare le tende e attrezzare i percorsi prima della scalata degli alpinisti); inoltre, il loro organismo è perfettamente adattato alle altitudini e all’ossigeno rarefatto cui gli scalatori, invece, devono continuamente adattarsi prima di cominciare l’ascesa. Nonostante il loro ruolo così importante, se uno di loro è in difficoltà in un ambiente piuttosto ostile – come può essere un picco a 8.000 metri di altezza – gli scalatori sono disposti a sacrificarlo pur di non interrompere l’ascesa verso la vetta, sicuri di poterlo rimpiazzare in occasione di una successiva impresa. In questo senso, le vite contrapposte di scalatori e sherpa sono una metafora di qualunque universo lavorativo complesso, dove sempre più spesso persone di grande esperienza ma non di successo – secondo i parametri dei massimi dirigenti, ossia gli “scalatori” – vengono “sacrificate” senza mezzi termini e per i motivi più disparati: produttività media o appena sufficiente, età avanzata, modesti tempi di reazione all’innovazione tecnologica.

Nel caso delle reti di consulenza finanziaria, per esempio, questa metafora risulta essere davvero “azzeccata”, poichè il sistema finanziario europeo, pur di primeggiare nel mondo (in particolar modo su quello americano) ha preferito far gravare sulle banche-reti nuovi costi per circa 3 miliardi di euro a beneficio della “compliance” (MiFID  I e II), invece di imporre alle stesse – perché di imposizione si è trattato, in forza di una direttiva europea – investimenti in formazione professionale e commerciale, in strumenti interni di vigilanza, nella regolamentazione di un contratto unico di lavoro (mandato unico di settore) e infine nel passaggio generazionale, che si sta cominciando ad attuare solo da poco e che richiederà ulteriori e sostanziosi investimenti da parte delle reti e delle capogruppo.

Naturalmente, una rivoluzione così epocale – per molti addetti ai lavori si è trattato invece di una gravissima “involuzione” – non poteva non avere effetti collaterali di grande incisività sul modo di concepire la professione del consulente finanziario. Infatti le due MiFID, imponendo a tutte le  società mandanti e ai gruppi bancari un sistema basato sulla ossessiva osservazione delle regole di compliance, sembrano essere state costruite senza tener conto della funzione fondamentale del consulente quale educatore finanziario. In pratica, chi l’ha concepita sembra aver mandato a tutto il sistema un messaggio “politico” di questo tipo: “continuate a fare ciò che volete, basta che le carte siano a posto!”.

E’ il problema, che questa testata giornalistica evidenzia da tempo, della “consulenza difensiva”, fenomeno che con la MiFID II è stato “consacrato” a sistema non ufficiale proprio come nel settore sanitario, dove non è raro che ai pazienti vengano erogate cure e/o esami assolutamente inutili pur di dimostrare che si è osservato il protocollo medico e, in tal modo, non incorrere in procedimenti per responsabilità professionale in caso di richieste di risarcimento danni alla salute causati, all’interno della struttura sanitaria, da diagnosi poco attente ma “proceduralmente corrette” (c.d. Medicina Difensiva).

Responsabilità medica

Peraltro, se al consulente finanziario venisse consentito almeno di avere spazio per una parziale personalizzazione del questionario, egli avrebbe un maggiore livello di responsabilità professionale verso i clienti, proprio come un medico. La MiFID, invece, raggiunge il risultato di tenere il sistema sostanzialmente indenne da rischi, scaricando sui clienti quasi tutte le responsabilità di scelte inopportune. Esattamente come nell’attuale legislazione sulla responsabilità medica, dove l’onere della prova rimane in capo al paziente (o ai suoi eredi…).

In un simile scenario, l’industria del risparmio gestito ha reagito in modo del tutto logico, e cioè tagliando i costi per mettere in equilibrio il proprio conto economico, altrimenti destinato alla soccombenza per via degli ingenti investimenti imposti soprattutto dalla MiFID II. E siccome i margini di ricavo dei consulenti sul risparmio gestito erano già stati gradualmente tagliati (di circa il 50%) dopo la MiFID I, le reti hanno dovuto allontanare alcune migliaia di “consulenti sherpa” che avevano l’unico difetto di trovarsi con il portafoglio dal valore sbagliato nel momento storico sbagliato.

Tutti radiati per irregolarità o dimissionari volontari? Naturalmente no: i consulenti espulsi per aver commesso atti irregolari e/o illegali sono davvero pochi, a dimostrazione di un contesto professionalmente sano. E allora, a cosa si deve un numero così alto di fuoriuscite, quanti sono i “consulenti-sherpa” sacrificati sull’altare della massima raccolta e del portafoglio medio più alto possibile, non degni di essere assistiti con sforzi straordinari (da ripagare in futuro) nel loro percorso di crescita? Siamo sicuri che nemmeno qualche centinaio di loro non fosse meritevole di un supporto straordinario tale da evitare la  fuoriuscita dal mercato? E’ così grave che un consulente possa voler vivere con un portafoglio clienti dal valore di 8-12 milioni di euro, assicurando comunque alla società mandante un lavoro di qualità e una immagine adeguata? Perché non si è tenuto in conto che questi professionisti, esattamente come gli sherpa nell’ambiente delle alte vette, erano perfettamente adattati nel sistema finanziario italiano e che per loro sarebbe stato difficile trovare una differente posizione lavorativa?

Qualunque sia la risposta razionale a queste domande, bisogna evidenziare che tali scelte hanno determinato un altro effetto collaterale della contrapposizione tra “scalatori e sherpa”: nel 2023 le reti di consulenza finanziaria italiana stanno soffrendo una evidente stagnazione dei reclutamenti. Questo accade certamente per via del disastroso andamento dei portafogli dei clienti a seguito della contemporanea debacle degli investimenti azionari e obbligazionari (quando un portafoglio è in perdita pesante è difficile per un consulente finanziario convincere un cliente a smobilitare le posizioni e rendere reali i deflussi), ma soprattutto perché la professione del consulente finanziario “Mifid-esecutore” non attira più i giovani talenti, i quali preferiscono altre professioni liberali, magari all’estero, pur di non correre il rischio di fare la fine dei tantissimi sherpa – quante migliaia negli ultimi dieci anni? Assoreti non lo dice – che si sono persi per strada.

In una congiuntura simile, in cui si approssima un periodo di forti decisioni per l’intero settore industriale del risparmio gestito, le reti devono decidere se adottare la stessa fredda strategia degli ultimi quindici anni, oppure far leva sugli enormi utili conseguiti in questi anni per investirne una parte – preferibilmente non miserevole – conducendo tutti i consulenti di oggi verso la vetta, e facendo in modo che nessuno di loro venga più lasciato indietro.  

L’Unione Europea e la “furia religiosa” contro il Risparmio Gestito

La “guerra santa” contro le commissioni del Risparmio Gestito viene combattuta dall’Unione Europea con ossessività quasi religiosa, ma ad essere penalizzati sono i piccoli risparmiatori e i consulenti finanziari.

Di Alessio Cardinale

Lo scontro tra Unione Europea e prodotti di investimento OICR, dopo 15 anni dal suo inizio, ha ormai assunto le caratteristiche di “assedio medioevale” al tempio del sistema sicav-fondi comuni e alla “fortezza” delle banche di investimento, che dal 2008 rincorrono un forzoso adattamento del proprio equilibrio economico ai nuovi regolamenti europei e alle norme di attuazione, tutte ostinatamente finalizzate al dogma assoluto della riduzione del sistema commissionale.

L’ “assedio al castello” del Risparmio Gestito viene combattuto sulla scorta di alcuni principi portati avanti con ossessività quasi religiosa da parte delle Istituzioni europee ma, alla prova, quegli stessi principi si manifestano persino dannosi per i consumatori-risparmiatori, ossia proprio per coloro i quali questa “guerra santa” al Risparmio Gestito viene combattuta con così tanto mistico ardore. Prova ne sia che, nonostante le due MiFID abbiano portato le banche di investimento e le reti di consulenza finanziaria a dover sacrificare il 55% dei margini di ricavo esistenti fino al 2007, i risparmiatori non ne sanno niente.

Proprio così: un evento tanto importante come quello di un risparmio di costi per la collettività degli investitori dal valore, fino ad oggi, di almeno 9 miliardi di euro – cui corrisponde simmetricamente una pari diminuzione di ricavi per l’industria del Risparmio Gestito – non è mai stato in qualche modo comunicato agli effettivi beneficiari, e di certo non è corretto attendersi che ciò venga fatto dalle stesse banche di investimento, già gravate dagli ammortamenti annuali dei costi sostenuti (circa 2 miliardi di euro solo in Italia) dal 2008 per adeguare il proprio sistema informatico alla normativa europea. Qualunque istituzione a tutela dell’interesse della collettività, al posto degli architetti europei delle MiFID, avrebbe sbandierato ai quattro venti, con apposite campagne istituzionali, questo risultato storico per i consumatori. Invece, a Bruxelles regna la consegna del silenzio in tema di tagli alle commissioni di distribuzione di servizi di investimento, e “pezzi importanti” dell’Unione Europea continuano a progettare ulteriori norme con cui eliminare altri “inutili orpelli” commissionali, come gli inducements, ossia gli incentivi monetari pagati da terzi agli intermediari finanziari in relazione alla prestazione di un servizio di investimento. Tutto ciò, naturalmente, con l’obiettivo squisitamente politico di ridurre ulteriormente i costi a carico degli investitori, che solo incidentalmente ne traggono vantaggio, essendo loro dei protagonisti del tutto involontari di tutta la faccenda.

In questo contesto è nata la “Retail Investment Strategy“, che dovrebbe essere approvata entro il primo semestre di quest’anno e che, secondo il commissario europeo per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness (nella foto), dovrebbe abolire le retrocessioni sui prodotti di investimento, cioè i flussi pagamento che la società di gestione danno alle banche o ad altri intermediari che abbiano venduto i loro prodotti d’investimento presso la clientela. Secondo la McGuinness, tali retrocessioni (inducements) incarnerebbero il “peccato”, poichè determinerebbero per il risparmiatore un costo in media superiore al 35% rispetto a quanto il medesimo prodotto costerebbe senza tali incentivi alle reti di distribuzione. Il punto è che in Italia e in quasi tutti i Paesi UE il modello di distribuzione dei prodotti finanziari si basa, per una parte importante, proprio sulle retrocessioni, che peraltro vengono obbligatoriamente comunicate al cliente e non sono certo un mistero; per cui un intervento di tale portata rischia di incidere molto gravemente sull’equilibrio economico di tutte le reti e mette in pericolo la loro stessa esistenza nel mercato.

Eppure quello dei prodotti di investimento, e più segnatamente l’universo del Risparmio Gestito, altro non è che un normalissimo circuito distributivo “a due stadi”, nel quale è presente l’industria che produce il bene (l’insieme delle case di investimento o società di gestione), i grossisti che lo mettono in distribuzione sul territorio (le banche-reti) ed il “dettagliante“, ossia il consulente abilitato ai servizi fuori sede, che li “vende” al consumatore finale. In pratica, la catena di approvvigionamento della consulenza all’investimento, nella sua essenza, non ha nulla di diverso da quelle di altri settori che producono e distribuiscono altri merci e/o servizi: l’offerta si adegua alla domanda, e non è possibile ridurre all’infinito i margini di ricavo della catena di distribuzione senza causare l’espulsione forzata dal mercato di uno degli anelli della catena. Pertanto, non si comprende dove sia lo “scandalo”, a meno che i commissari europei non dicano con chiarezza che la consulenza finanziaria erogata ogni giorno dalle banche-reti a decine di migliaia di risparmiatori sia un settore senza alcun valore aggiunto.

Invece, è noto che quella dei prodotti di investimento è una vendita assistita da una consulenza professionale di altissimo livello, effettuata attraverso tracciabili percorsi di formazione e una considerevole mole di regole, normative e controlli che, nel caso dei consulenti finanziari, si è sviluppata nel tempo, di concerto con l’adeguamento della normativa italiana ed europea, ed ha richiesto una evoluzione professionale profondissima, traghettando i “venditori di fondi” e le società mandanti della prima epoca verso gli attuali consulenti finanziari e le affermate reti di consulenza finanziaria. Un sistema del genere, così evoluto, richiede il sostenimento di elevatissimi costi di gestione da parte delle aziende del settore, e per questo dovrebbe consentire di poter generare un equilibrio finanziario totalmente slegato da eventi esterni che ne condizionano il divenire. Invece, le due MiFID hanno causato sensibili tagli ai margini economici delle banche-reti ed hanno costretto l’intero settore a riorganizzarsi per non soccombere, per cui la prospettiva di un ulteriore taglio strutturale “calato dall’alto” non può essere considerata accettabile, a meno non si voglia assistere consapevolmente al sacrificio, solo in Italia, di altri 5.000 professionisti con portafoglio medio-basso (e delle loro famiglie).

Infatti, le retrocessioni sono una parte indispensabile del sistema di distribuzione dei prodotti di investimento al dettaglio, senza i quali l’accesso dei consumatori alla consulenza professionale sarebbe significativamente ridotto. Di conseguenza, tolte le retrocessioni, non solo sorgerebbero dubbi sul destino su decine di migliaia di consulenti oggi impiegati presso banche e altri intermediari, ma anche i piccoli risparmiatori farebbero una brutta fine e, probabilmente, non avrebbero accesso alla consulenza indipendente; come è successo nella “frugale” Olanda, nazione famosa per i suoi diktat (soprattutto se danneggiano l’Italia), dove le retrocessioni sono vietate ma la consulenza finanziaria indipendente, anziché diffondersi, è rimasta un servizio di nicchia che non ha sostituito la consulenza di massa offerta dalle banche retail, lasciando alle famiglie olandesi il rischio di accedere senza sufficiente preparazione ai modelli execution only, e cioè quelli privi di consulenza o raccomandazioni di investimento.

Pertanto, le sollecitazioni della commissaria europea per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness, qualora trovassero concreta applicazione in nuove norme regolamentari, raggiungerebbero un risultato che ha dell’incredibile: discriminare i piccoli risparmiatori limitandone la possibilità di accesso alla consulenza professionale oggi prestata indistintamente dai consulenti finanziari e darli in pasto al fai-da-te; i consulenti, infatti, di fronte ad ulteriori tagli dei propri margini di ricavo sarebbero costretti a dare maggiore attenzione alla clientela con masse più ingenti, allo scopo di compensare i minori ricavi generati dal taglio degli incentivi e ottimizzare tempi e costi della professione.

Per rendere più chiare le conseguenze di questa mirabolante idea dei “crociati” europei, prendiamo ad esempio l’industria automobilistica, e ipotizziamo che il prezzo delle auto di qualunque livello venga fatto scendere, in virtù del principio generico che “le auto costano troppo”, a seguito di un regolamento europeo che, pur di abbassarne il prezzo, imponga alle case produttrici di eliminare gli incentivi alla rete distributiva (concessionari e rivenditori). Ebbene, coloro che fino a quel momento non avevano potuto permettersi di acquistare un’auto di fascia alta (Mercedes, BMW, Porsche, fate voi), continueranno a non potersela permettere anche se il prezzo di quei modelli è diminuito di 5 o 10.000 euro; di contro, i produttori di auto di fascia bassa, per recuperare i margini di ricavo persi, comincerebbero a costruire auto di fascia alta, oppure continuerebbero a produrre le stesse auto di fascia bassa risparmiando sui componenti e, di conseguenza, abbassando sia il livello di sicurezza che la qualità dei mezzi prodotti.

E i distributori di auto, che fine farebbero? Migliaia di piccoli rivenditori locali sparirebbero o si dedicherebbero esclusivamente al mercato dell’usato, molte concessionarie di medio fatturato fallirebbero o sarebbero costrette a chiudere i battenti, mentre quelle più grandi si fonderebbero per fare “massa critica” e sopravvivere con i margini di ricavo più bassi. In ogni caso, migliaia di posti di lavoro andrebbero persi, e con essi l’equilibrio finanziario di altrettante famiglie. Le stesse tragiche conseguenze potrebbero accadere ai consulenti finanziari di portafoglio medio, che oggi sono circa 10.000 su un totale di 33.000 circa. Il fenomeno, peraltro, non farebbe bene neanche alla (relativamente) giovane categoria dei consulenti finanziari indipendenti, i quali non potrebbero più competere con la consulenza non autonoma (quella delle banche-reti) facendo leva sul suo più elevato livello di costi applicati alla clientela, poichè la “sforbiciata” proposta dai maghi di Bruxelles abbasserebbe tali costi al livello degli indipendenti e questi ultimi, pur di continuare a competere, dovrebbero abbassarli a loro volta e diminuire i propri ricavi, oppure reinventare di sana pianta le proprie politiche di marketing per i decenni a venire.

Stando così le cose, ci si augura che qualcuno, da tempo piuttosto “distratto” sul tema (fate due nomi a caso, cominciano entrambi con la A…), spieghi all’Unione Europea che questa strategia di contrasto dogmatico alle commissioni del Risparmio gestito è una sciocchezza colossale, capace di creare molti, troppi danni ad una categoria di professionisti che ha già sacrificato sull’altare dell’Europa almeno 3 miliardi di fatturato e lasciato sul campo alcune migliaia di giovani consulenti, costretti anzitempo a lasciare la professione solo perchè qualcuno, a Bruxelles, quindici anni fa ha deciso di competere ad ogni costo con il “famigerato” sistema finanziario americano e dargli una lezione di europea moralità.

Ascofind: costi elevati del risparmio gestito un freno alla partecipazione ai mercati dei clienti al dettaglio

Secondo Ascofind, l’eccessivo livello di costi e oneri dei prodotti finanziari e assicurativi costituisce un freno alla partecipazione ai mercati finanziari da parte dei clienti al dettaglio. L’ESMA ha evidenziato che in Italia i costi e gli oneri dei fondi OICVM sono tra i più elevati tra i vari stati membri dell’UE.

Di recente, Ascofind – Associazione per la Consulenza Finanziaria Indipendenteha dato risposta alla consultazione indetta dalla Commissione europea e denominata “Strategia dell’UE per gli investitori al dettaglio”. L’iniziativa della Commissione si inquadra nel processo in corso di revisione della Direttiva Mifid II, che ha come scopo quello di “far sì che i consumatori che investono sui mercati dei capitali possano farlo con fiducia, che i risultati di mercato migliorino e che la partecipazione dei consumatori aumenti”.

Il principio alla base della risposta di Ascofind è che l’aumento del numero di consumatori che investono convogliando il capitale verso le imprese del settore privato potrebbe accelerare il processo di ripresa economica dopo la pandemia di COVID-19.

Qui di seguito il testo integrale della risposta di Ascofind (tradotto dall’inglese).

“……Un recente Rapporto sugli investimenti finanziari delle famiglie italiane, pubblicato a dicembre 2020 dall’Autorità italiana Consob, rivela che solo il 33% dei risparmiatori italiani accede ai mercati finanziari. I principali deterrenti dagli investimenti finanziari sono la mancanza di fiducia, di informazione e di supporto al processo decisionale. Di conseguenza, circa un terzo delle attività finanziarie delle famiglie italiane è detenuto in strumenti liquidi, contanti e depositi bancari.

I prodotti più frequentemente detenuti dalle famiglie italiane sono i fondi comuni di investimento, i prodotti di investimento assicurativi e i titoli di Stato italiani. Sul totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie, i fondi OICVM rappresentano il 10,7% mentre i prodotti di investimento assicurativo rappresentano il 17,1%.

L’eccessivo livello di costi e oneri dei prodotti finanziari e assicurativi costituisce un ulteriore freno alla partecipazione ai mercati finanziari da parte dei clienti al dettaglio. Una recente pubblicazione di ESMA (Performance and Costs of EU Retail Investment Products, 2021) ha evidenziato che in Italia i costi e gli oneri dei fondi OICVM sono tra i più elevati tra i vari stati membri dell’UE.

Per quanto riguarda i prodotti previdenziali, circa il 40% dei partecipanti ha sottoscritto piani pensionistici individuali offerti dalle compagnie di assicurazione con costi medi annui del 2,20%, sei volte superiori ai fondi pensione professionali.

Una delle cause principali dell’elevato costo risiede nell’insufficiente concorrenza nella distribuzione e nelle modalità di remunerazione dei distributori e dei consulenti finanziari, sulla base delle retrocessioni delle commissioni delle aziende manifatturiere. Infatti, a causa del pagamento degli incentivi, la consulenza fornita dagli intermediari può essere sbilanciata verso prodotti con maggiori ricompense per gli intermediari, con un conseguente ulteriore impatto negativo sulla fiducia degli investitori.

La normativa MiFID II ha mitigato questi effetti negativi, introducendo regole relative alla legittimità degli incentivi nei servizi di investimento e una maggiore trasparenza sui costi pagati dagli investitori retail.

Tuttavia, sulla base dei risultati dell’indagine pubblicata dalla Consob, gli investitori mostrano una scarsa comprensione del sistema di remunerazione del servizio di consulenza: il 40% ritiene che sia pagato dalla banca, il 15% che sia gratuito, oltre il 20% non conosce la risposta. Solo il 5% circa ha capito che il servizio è a carico del cliente.

A tre anni dalla sua introduzione, le soluzioni adottate dalla Direttiva per fornire sufficiente chiarezza sugli incentivi perpetrati da distributori e consulenti finanziari evidentemente non hanno raggiunto gli obiettivi auspicati.

Un aumento della partecipazione dei clienti al dettaglio ai mercati finanziari e un clima più coerente di fiducia degli investitori non possono essere raggiunti se non è garantita la trasparenza dei costi dei prodotti e del servizio di consulenza fornito ai clienti.

Nel Consiglio tecnico alla Commissione del marzo 2020, l’ESMA propone di migliorare la comprensione da parte dei clienti degli incentivi e dell’effetto che hanno sulla distribuzione dei prodotti di investimento e sull’informativa MiFID II esistente. La Commissione dovrebbe migliorare la comprensibilità e la chiarezza delle informazioni sugli incentivi esistenti introducendo l’obbligo di includere, in tutte le informazioni sugli incentivi, una spiegazione dei termini utilizzati (ad esempio, pagamenti di terzi). Tale spiegazione dovrebbe essere sufficientemente chiara, e utilizzare termini semplici per garantire che i clienti al dettaglio comprendano la natura e l’impatto degli incentivi: “I pagamenti di terze parti sono pagamenti ricevuti dall’azienda per avervi venduto questo prodotto e fanno parte dei costi che sostenete per il servizio fornito dall’azienda, anche se tali costi non vengono pagati direttamente all’azienda”. Ascofind sostiene fortemente la proposta dell’ESMA“.

Consulenti finanziari vs promotori, ovvero il formalismo nominalistico di una professione senza identità

Vi è una ideologia ben strutturata dei vari modelli terminologici utilizzati dai diversi interlocutori su come sia meglio identificare il nome del consulente finanziario, quando in realtà tale dibattito serve ad oscurare i problemi di fondo presenti all’interno della categoria.

Di Manlio Marucci*

La struttura della realtà lavorativa dei consulenti finanziari richiede una significativa rilevazione del condizionamento che lega, nel processo organizzativo interno alla realtà aziendale, i complessi problemi a livello istituzionale e normativo, nonché la percezione dei comportamenti collettivi che costituiscono l’ossatura delle relazioni umane nel rapporto personalizzato consulente-cliente

Francesco Priore

Di recente è stato dato molto spazio sulla stampa di settore a Francesco Priore (“Consulente finanziario”, ecco la storia di una denominazione che non trova pace), storico della professione nel mondo dell’intermediazione finanziaria, che ha ricostruito in modo elegante la nascita della figura del “consulente finanziario” e il suo percorso nel durante cercando di focalizzare al meglio le varie fasi con cui si è affermata  la professione del consulente finanziario e del  suo opposto il promotore finanziario all’interno del sistema finanziario italiano.

Interessante notare infatti – come ha fatto Priore  – la confusione generatasi sul modo di identificare  la qualifica del CF  prima e dopo la legge istitutiva sulle SIM del 1991; legge con cui il legislatore volle attribuire a tale professionista  il  nome poco adeguato di “Promotore dei servizi finanziari” (ex art.5 L.n.1/91), fortemente limitativo rispetto alla sua formazione culturale  e struttura  socio-professionale. Accettata passivamente tale definizione, senza una presa di posizione che rimettesse in gioco la natura e lo skill di tali professionisti, le  organizzazioni deputate a  difendere i vari interessi  in campo ne hanno passivamente accettato il  modello operativo, eludendo il problema se effettivamente la struttura ricettiva ovvero i risparmiatori e gli investitori ne condividessero l’impostazione e il ruolo.

Per  lunghissimi anni tale modello, così configurato, è stato assimilato più ad un “promoter”, ovvero un classico venditore di fondi e polizze, ancor più se la sua identificazione veniva – come tra l’altro lo è ancora oggi –  associata all’agente e rappresentante di commercio. In sostanza un  classico operatore  di  prodotti e servizi  da banco. Ne è una  diretta testimonianza  la sassata lanciata di recente dal blog del Fatto Quotidiano dell’11 maggio scorso a firma di Federico Boero, (Forse sarebbe meglio se le banche tornassero a svolgere la loro funzione originaria). che,  in modo non certo ortodosso e senza peli sulla lingua, ha  definito tale figura: “…il gatto e la volpe sono ancora in affari, ma pare ci siano meno Pinocchi in giro” ed ancora, “…a me quei promotori finanziari sembravano quelli che vendono i numeri del lotto”. Non solo. Tempo addietro si era scagliato anche il prof. Beppe Scienza, con un articolo al vetriolo contro l’intera categoria dei consulenti finanziari e anche un autorevole società indipendente come Moneyfarm con uno spot molto contestato si  era espressa in modo poco simpatico sulla figura del Cf. Tutti articoli al vetriolo che identificano gli ex promotori come “venditori di fumo” se non “piazzisti del risparmio gestito”.

Accuse pesanti, che hanno necessità di essere criticate e fare chiarezza ricostruendo la formazione di base, nonché la funzione sociale e politica di tale professione.

In realtà la volontà del legislatore – contestualizzando il periodo –  non aveva altra scelta se non assecondare gli interessi dominanti delle forze in campo e le pressioni politiche esercitate sul sistema finanziario che ne hanno determinato la sua funzione: il “promotore”  come un appendice “funzionalmente necessaria” alle logiche degli intermediari che, forti di catturare il risparmio delle famiglie italiane, avevano necessità di strutturare una figura professionale su cui scaricare le eventuali contraddizioni e senza nessuna incidenza di costo sul proprio conto economico.

Applicando quasi totalmente il modello contrattuale di agenzia”, senza un preliminare confronto con le parti sociali sui temi specifici che si affacciavano all’orizzonte per la forte crescita degli strumenti finanziari, si è impedito di fatto di neutralizzare il ruolo e la funzione specifica attribuita al consulente finanziario. Una figura professionale che, per riaccreditarsi presso la  comunità degli investitori, ha impiegato  più di venticinque anni con l’ausilio e le sollecitazioni di applicazione di norme comunitarie (Mifid I e Mifid II) che hanno dato poi corpo organico all’interno del sistema creditizio, finanziario ed assicurativo italiano.

Va anche detto tuttavia che le ragioni di fondo che portarono a  scegliere il nome di “promotore dei servizi finanziari” per l’offerta fuori sede furono anche di natura tecnica, poiché il nome di “consulente finanziario” confliggeva con la identificazione del termine “consulenza” che era invece attività primaria autorizzata per le Sim.

Successivamente, e prima del ripristino del termine “consulente finanziario” (2016), le svariate denominazioni utilizzate come meccanismi di difesa dai soggetti  coinvolti (Consulenti ed Intermediari), hanno cercato di neutralizzare il nome di “promotore” con altre denominazioni come: consulente finanziario super parters, financial advisor, wealth manager, personal banker, life banker, family banker, private advisor, personal financial advisor, private banker, bancario ambulante. Tutte allocuzioni che  non hanno fatto altro che complicare  la trasparenza nei confronti  degli interlocutori diretti (clienti) senza dare una identità al mercato.  Anche le Autority di vigilanza non hanno preso in esame tale condizione con proprie determinazioni esplicative. C’è da sottolineare che neanche la  nuova qualifica identificata dalla legge per il Consulente finanziario iscritto all’Albo è mai stata presa in considerazione dai sindacati del credito nell’ambito dell’inquadramento  del contratto collettivo di settore, cosa  che avrebbe dato dignità  sul piano giuridico-normativo e contrattuale a tali qualificati professionisti. Un errore politico imperdonabile, se si pensa che tale condizione non ha ancora oggi trovato una soluzione organica all’interno del  sistema creditizio nonostante l’importanza – al di là delle sporadiche lamentele –  che viene riconosciuta dai media alla consulenza ed assistenza offerta da tali professionisti  nella pianificazione del patrimonio della clientela e ancor più nella funzione di educatore finanziario.             

Manlio Marucci

Vi è quindi una ideologia ben strutturata dei vari modelli terminologici utilizzati dai diversi  interlocutori su come sia meglio identificare il nome del CF, quando in realtà tale dibattito serve ad oscurare i problemi di fondo presenti all’interno della categoria. Questo dibattito sembrerebbe piuttosto teso a trovare  meccanismi  di difesa  utilizzati in modo elegante con un linguaggio “esoterico”, accattivante in stile anglosassone e servono a promuovere, in termini propagandistici, come la funzione della consulenza finanziaria sia la migliore possibile.

Per obbiettività di giudizio, c’è da rilevare che nessuno ha analizzato la radice di fondo che ha determinato questa  confusione linguistica o ha cercato di scavare come sia emerso anteriormente alla legge sulle Sim questo assioma, posto il principio che per superare l‘anomia tra “Promotore” e “ Consulente” sia utile conoscere la genesi del processo di formazione di tale professione.  

* Presidente di Federpromm-Uiltucs

L’ESMA ha intenzione di sacrificare i consulenti finanziari sull’altare della politica europea?

L’ultimo documento dell’ESMA sui costi dei servizi finanziari in Italia si rivela come un concentrato di ipocrisia comunicativa, tipico di chi vuole imporre all’industria obiettivi di politica internazionale: nessun richiamo alla sostenibilità finanziaria di una ulteriore riduzione dei margini, e le performance degli strumenti finanziari analizzate solo in funzione dei loro costi. 

Di Massimo Bonaventura

Prima di rispondere alla domanda posta dal titolo di questo articolo, è buona pratica analizzare il contesto da cui essa si genera.

Dopo aver imposto all’industria del Risparmio europeo, attraverso le MiFID, una riforma che ha rivelato tutta la sua inconcludenza nei momenti difficili, e dopo aver obbligato le banche a sostenere oneri aggiuntivi per circa 2,5 miliardi di euro, l’ESMA non intende fermarsi nella sua “furia politica iconoclasta” contro i costi dei servizi di investimento, sciorinando un rapporto che finisce con l’essere una chiara manifestazione di intenti – neanche troppo futuri – con cui si mette a rischio la sopravvivenza di un intero modello economico che dà lavoro a decine di migliaia di addetti. Infatti, il recente documento dell’ESMA dal titolo molto eloquente “I clienti al dettaglio continuano a perdere a causa dei costi elevati dei prodotti di investimento” (“retail clients continue to lose out due to high investment products costs”), da un lato intende mettere a nudo le scarse capacità delle società di gestione di realizzare performance in grado di compensare adeguatamente con i risultati i costi del servizio, ma dall’altro svela una posizione “dogmatica” che, con le logiche dell’industria, c’entra poco e niente.

Infatti, nel suo terzo rapporto statistico annuale sul costo e la performance dei prodotti di investimento al dettaglio dell’Unione europea, l’ESMA rileva che i costi di investimento in prodotti finanziari chiave, come fondi OICVM, fondi alternativi al dettaglio e prodotti di investimento strutturato (SRP) rimangono elevati e riducono il risultato dell’investimento per gli investitori finali, e che “le informazioni chiare e comprensibili sull’impatto dei costi sui rendimenti sono fondamentali per consentire agli investitori di prendere decisioni di investimento informate”.

Fin qui nulla di nuovo; del resto, la rendicontazione ai clienti non è certamente più una novità, e gli investitori non sono mai stati – sulla carta – così informati come oggi grazie alla ulteriore “operazione trasparenza” messa in opera dalla MiFID II. Il rapporto, però, si snoda in una serie di osservazioni che mettono in relazione due grandezze, ossia costi e rendimenti, completamente diverse tra loro sia per natura che per finalità: i primi sono grandezze di natura quasi del tutto fissa, e servono a determinare la sostenibilità di tutti i costi e degli utili per gli azionisti delle aziende facenti parte dell’industria del Risparmio; i secondi sono una grandezza variabile che serve a remunerare il capitale investito dai risparmiatori e determinano, in funzione delle specifiche categorie a cui appartengono gli strumenti finanziari, la qualità e l’affidabilità nel tempo del lavoro svolto dai gestori e dai distributori. L’ESMA, pertanto, mette in relazione strettissima un indice di quantità e un indice di qualità, ossia due grandezze per nulla sostituibili né fungibili, ma “ne fa funzione” fino a fare dei primi (i costi) l’unica variabile che ha il dovere di mutare.

In sintesi, il messaggio implicito dell’ESMA è questo: siccome il mercato non consente di andare al di là di certi risultati, bisogna tagliare i prezzi, e quindi licenziare del personale, risparmiare sui costi fissi e variabili, per consentire ai risparmiatori di ottenere performance più soddisfacenti. Praticamente, è come dire che, se le banane vendute al mercato non sono poi così buone, bisogna tagliare i costi di produzione e distribuzione delle piantagioni di banane per ottenere un raccolto di migliore qualità.

Ma chi lo ha detto? Con una logica come questa, l’anno successivo avremo meno banane al mercato, e non è detto che quelle che arriveranno saranno più buone di quelle dell’anno prima. 

L’ESMA, pertanto, con la sua crociata contro i costi dei servizi di investimento mostra di non ritenere poi così importante l’unica grandezza che conta veramente nel settore del Risparmio, e cioè la ricerca della qualità (nel tempo). I suoi documenti, anziché contenere una contraddizione in termini, dovrebbero sollecitare – anche forzosamente – la ricerca di una maggiore profondità e selezione nelle ricerche e nello studio dei mercati finanziari, invece di “vincere facile” imponendo alle aziende di ridurre “ad oltranza” i costi per la clientela e, quindi, i propri ricavi e utili. Questo “gioco”, negli ultimi dodici anni, è costato la testa di migliaia di consulenti con un portafoglio medio inferiore ai 10 milioni di euro, sacrificati sull’altare dell’ideologia amministrativa e della politica europea che costringeva le reti a dover rincorrere i legittimi obiettivi di sostenibilità per i propri conti economici.

In definitiva, l’ultimo documento dell’ESMA sui costi dei servizi finanziari in Italia si rivela come un concentrato di ipocrisia comunicativa, tipico di chi vuole imporre all’industria obiettivi di politica internazionale: nessun richiamo alla qualità del servizio, né alla sostenibilità finanziaria di una riduzione dei margini, e le performance degli strumenti finanziari analizzate solo in funzione dei loro costi

A dimostrazione che si tratti, da parte dell’ESMA, di un atteggiamento squisitamente politico, i suoi burocrati non hanno mai prodotto un solo studio che definisca, una volta per tutte, il livello “equo” di costi che un investitore è tenuto a pagare in relazione alla qualità del servizio ricevuto, e che consenta all’industria del Risparmio (e ai suoi addetti) di avere una visione chiara del futuro che non sia quella di una totale “disintermediazione” della distribuzione e la conseguente sparizione dal mercato di reti e consulenti. E se sono bastati tredici anni per abbattere i margini commerciali del 50%, quel timore è oggi più che giustificato.

Del resto, l’approccio “burocratico” dell’Europa, come è stato dimostrato dai “elefanti normativi” delle due MiFID, mostra di privilegiare la quantità assicurata dalla c.d. Consulenza Difensiva, e non la qualità né l’interesse dei risparmiatori, i quali non hanno mai visto una campagna mediatica preventiva che spiegasse loro gli intenti dell’Europa in relazione alla trasparenza finanziaria, e nemmeno conoscono la storia delle due MiFID: in considerazione dell’altissimo valore sociale dell’iniziativa – la tutela del Risparmio – non sarebbe stato dovere dell’ESMA informare i cittadini europei, come accade in qualunque processo di formazione legislativa sui grandi temi (es. riforma della Giustizia, Clima e tutela dell’Ambiente, Sanità Pubblica, Scuola etc), prima e dopo il rilascio delle MiFID?

A quanto pare, per l’ESMA non era necessario tenere informato il pubblico dei risparmiatori, semplicemente perché non gli interessava farlo. Se non è ipocrisia questa….

Consulenza finanziaria e reti: numeri sfavillanti, ma il sistema si sta avvitando su sé stesso

La soglia dei 15-20 miliardi di euro di masse amministrate, per le società mandanti, non è più l’obiettivo di sostenibilità aziendale, e l’asticella della “sopravvivenza” si sta spostando sempre più verso i 25-30 miliardi. Come pensano di riuscirci, i gruppi bancari, se il numero dei consulenti diminuisce?

La pandemia pare abbia fatto bene al settore della Consulenza Finanziaria, che durante il periodo dell’emergenza – e fino ad oggi, quindi – ha generato una poderosa raccolta in risparmio gestito e utili in forte aumento. I protagonisti assoluti di tale risultato, certamente, sono i consulenti finanziari, capaci di adattarsi rapidamente alle avverse condizioni di mercato grazie alla tecnologia già esistente ed al fortissimo grado di prossimità con gli investitori.

Com’è noto, i dati della ricerca di Anasf-McKinsey – presentati nel corso del meeting digitale Consulentia20, fotografano benissimo questa capacità di adattamento, ampiamente premiata dal mercato: il 73% dei consulenti finanziari ha intensificato le comunicazioni con i propri clienti nel periodo più grave della diffusione del Covid e ben l’86% dei consulenti è riuscito ad aumentare la base dei clienti.

E così, nonostante l’emergenza, i professionisti degli investimenti si presentano oggi con un portafoglio medio – parametro amatissimo dall’industria del risparmio – che è pari al doppio di quello di dieci anni fa. Questo risultato, però, va analizzato in profondità. Innanzitutto, l’aumento in valore assoluto delle masse amministrate è dovuto anche alla singolare circostanza che, nonostante gli economics sfavillanti, il numero dei consulenti attivi non cresce più, e negli anni precedenti il suo ritmo di crescita è andato abbassandosi gradualmente per via delle altissime barriere all’entrata poste dalle società mandanti ai giovani neolaureati.

In secondo luogo, alla crescita delle masse non è conseguito una stabilità dei margini provvigionali, perché il sistema ha perseguito invece l’obiettivo della stabilità dei ricavi (in valore assoluto) in funzione dell’aumento del portafoglio medio.

In sintesi, il modello economico messo in atto dal sistema banca-rete a partire dal 2008 è stato esattamente il seguente: più aumentavano le masse amministrate dai consulenti, più diminuivano i loro margini provvigionali e meno cresceva il loro numero, in un ciclo che si è auto-alimentato fino ai giorni nostri, generando una sensazione di stabilità dei ricavi che, invece, erano via via più bassi, a parità di portafoglio, rispetto a quelli che si sarebbero potuti generare prima del 2008.

Relativamente al numero dei consulenti attivi, prima del 2008 le barriere all’entrata erano più elastiche, ed anche le più grandi reti di allora investivano su risorse umane piuttosto giovani, sotto i 30 anni di età e senza laurea, ma con caratteristiche personali molto precise in termini di propensione alla relazione e potenzialità di contatti. Pertanto, le barriere all’ingresso di oggi – che non sono riscontrabili nelle altre professioni – sembrano essere la conseguenza di un disegno complessivo, nel quale il contingentamento del numero complessivo dei consulenti e l’aumento delle masse amministrate abbiano consentito una costante riduzione dei margini che l’avvento delle normative MiFID hanno reso imprescindibile per mantenere intatto il conto economico delle banche-reti e l’utile da distribuire alla banca capogruppo. Naturalmente, anche il sistema delle banche-reti, senza le MiFID, oggi guadagnerebbe di più, e questo fa sorgere spontaneamente la domanda su quale sia stata, in relazione alla sua sostenibilità, l’utilità di subire “senza fiatare” questa gran mole di normative europee che, in occasione dei momenti più bui dell’emergenza, hanno mostrato tutti i propri limiti e svantaggi per la clientela.

Consulente finanziario

Inoltre, i costi sostenuti dal sistema (un paio di miliardi di euro dal 2008 ad oggi) per rendere idonee le procedure amministrative e di controllo alla nuova normativa hanno lasciato dietro di loro una scia di qualche migliaio di consulenti, di portafoglio medio-piccolo, costringendoli ad uscire dal mercato. La logica di un sistema in forte crescita, invece, prevede che, su quelle risorse umane si debba investire, soprattutto se giovani.

I cambiamenti avvenuti nella struttura dell’offerta di consulenza finanziaria hanno avuto effetti anche in relazione alla domanda. Infatti, da una prima fase storica in cui era la quantità di clienti a farla da padrone, negli ultimi anni ha trionfato la qualità, e i facoltosi clienti-imprenditori sono diventati il target da preferire. Questo, però, ha amplificato il fenomeno secondo cui c’è un’intera fascia della popolazione – la più numerosa – che non ha mai avuto l’occasione di entrare in contatto con un consulente finanziario, ed oggi ne parla “per sentito dire”. Eppure, i clienti seguiti da un consulente finanziario sono mediamente più soddisfatti della media del mercato, quindi il modello è vincente e andrebbe valorizzato investendo nei consulenti under 30, più giovani e più idonei a dialogare con le nuove generazioni di (piccoli) risparmiatori, nonchè e a lavorare nuovamente sulla quantità, rinnovando il ciclo di produzione e lo stesso business model della consulenza finanziaria ormai entrato nella piena fase di declino.

Su tutto, c’è anche una questione sistemica. Infatti, se ieri 5 miliardi di portafoglio – gli odierni 2,5 milioni di euro, più o meno – sarebbero stati sufficienti a garantire un buon andamento professionale all’ex promotore finanziario, oggi 10 milioni di euro bastano appena per vivere dignitosamente e pagare tutte le imposte. Simmetricamente, la soglia dei 15-20 miliardi di euro di masse amministrate, per le società mandanti, non è più l’obiettivo di sostenibilità aziendale, dal momento che l’asticella della “sopravvivenza” si sta spostando sempre più verso i 25-30 miliardi.

A giudicare da quest’ultimo dato, sembra che i prossimi anni assisteremo a diverse operazioni di M&A e di aggregazione – fenomeno tipico delle fasi di maturità e declino del business model – effettuate al solo scopo di mantenere la c.d. “massa critica”. La domanda è: come pensano di farlo, i gruppi bancari, senza aumentare corposamente il numero dei consulenti in vista del pensionamento di migliaia di “older” da qui al 2027?

Il “codice” MiFID e l’asimmetria informativa. L’educazione finanziaria ha un valore economico?

Oggi esiste un sistema stabile di monitoraggio, sorretto da analisi statistiche di buon livello scientifico e da indagini comparative dei livelli di educazione finanziaria presenti in altri paesi del mondo. Tuttavia, il compito di educare gli italiani in materia di finanza personale rimane pressoché impossibile. Ecco perchè.

Di Alessio Cardinale

L’Educazione Finanziaria, la tutela dei consumatori in materia di servizi e strumenti finanziari, nonchè le politiche di Inclusione Finanziaria sono da qualche anno riconosciute come elementi fondamentali di conoscenza degli individui e di stabilità del sistema finanziario europeo. Fin dal 2010, ai più alti livelli mondiali, questi principi sono stati “sdoganati” dai vari G20 nel frattempo effettuati (Inclusione finanziaria innovativa nel 2010, Tutela finanziaria dei consumatori nel 2011 e Strategie nazionali per l’educazione finanziaria nel 2012).

Di recente, 26 paesi ed economie (di cui 12 membri dell’OCSE), provenienti da Asia, Europa e America Latina hanno dato vita alla seconda indagine internazionale sull’alfabetizzazione finanziaria, stabilendo che la sua diffusione sia uno dei tre obiettivi principali, e che l’Italia non sia messa proprio bene. Infatti, secondo l’International Survey of Adult Financial Literacy e Global Financial Literacy Survey (Rapporto 2020), gli italiani che investono sono in larghissima parte degli “analfabeti finanziari”, e non conoscono concetti basilari come quelli di inflazione, interesse (semplice e composto) e diversificazione.

Da circa cinque anni, il problema della scarsa educazione finanziaria degli italiani viene discusso finalmente con una certa assiduità, ed è entrato a pieno titolo anche nel novero delle politiche a sfondo sociale degli ultimi governi lungo il corso delle ultime legislature. Pertanto, nel loro complesso, esiste oggi un sistema stabile di monitoraggio, sorretto da diffuse dichiarazioni di principio, da analisi statistiche di buon livello scientifico e da indagini comparative dei livelli di educazione finanziaria presenti in altri paesi del mondo.

Tuttavia, il compito di educare gli italiani in materia di finanza personale, così restando le cose, rimane pressoché impossibile. Infatti, oltre al fatto che le basi della buona gestione del denaro e dei risparmi non sono state ancora inserite a pieno titolo – insieme alla “grande assente”, e cioè l’educazione civica e solidale – quale materia fondamentale fin dalle scuole elementari (al pari della lingua italiana o della matematica), l’attuale “corredo educativo” disponibile agli investitori e agli stessi consulenti finanziari è composto da un coacervo di norme che, attraverso i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi trent’anni, oggi costituisce un vero e proprio “codice”.

Soltanto la MiFID II, per esempio, è articolata in 1.400 norme distribuite su circa 7.000 pagine, ed un intero corso di laurea triennale sarebbe appena sufficiente a disciplinare la conoscenza della materia anche per gli studenti più brillanti. Eppure, il sistema finanziario europeo, nel quale l’Italia è entrata a far parte ratificando le MiFID, pretende che, prima di sottoscrivere un servizio di investimento, un investitore debba leggere e comprendere da solo la complessità della materia che disciplina il prodotto che andrà ad utilizzare per gestire i propri risparmi, limitandosi ad assimilare la “traduzione” effettuata, con grande spirito di sacrificio – e relativi rischi connessi alla mancata comprensione in buona fede da parte del cliente di elementi fondamentali dell’investimento – proprio dai consulenti; i quali, essendo il terminale della comunicazione di questa lunga catena di distribuzione della conoscenza finanziaria (UE, ESMA, BCE, CONSOB, Sistema Bancario, reti di consulenza, consulenti, investitori), detengono un compito molto delicato, che li espone ad un altissimo livello di responsabilità rispetto al trattamento economico ricevuto. Nessun compenso, infatti, è previsto per l’educazione finanziaria da impartire ai singoli risparmiatori, così come nessuna disciplina organizzata è prevista in capo al sistema bancario e allo stesso Stato.

Insomma, se ne parla tanto e si fa davvero poco per consulenti finanziari e risparmiatori, e non è certo colpa delle reti non si riesce ad andare oltre alle mere dichiarazioni di intenti. Persino la campagna culturale mondiale a beneficio degli obiettivi di sostenibilità (ESG), improntata su basi emozionali di forte impatto collettivo, sembra culturalmente più accessibile di quella sull’Educazione Finanziaria.

Nonostante questo problema di base, il sistema (e chi lo regolamenta) si preoccupa ancora oggi di inondare il risparmiatore di informazioni difficili e talvolta incomprensibili. In concreto, all’atto dell’apertura di un nuovo rapporto (es. conto corrente più deposito titoli), un investitore viene sottoposto ad un bombardamento cartaceo di informazioni – per lo più indecifrabili – che totalizza circa 50 pagine e una quindicina di firme. Il sistema MiFID, pertanto, dà per scontato che l’investitore medio, grazie alla lettura di questa massa enorme di informazioni, comprenderà  in maniera semplice la tutela implicita contenuta negli strumenti finanziari, il concetto di conflitto di interessi e la sua disciplina, i costi applicabili ai servizi sottoscritti/da sottoscrivere ed il concetto di best execution, che viene proposto con un inopportuno inglesismo anziché in una più accessibile traduzione in lingua madre.

Ebbene, Un sistema basato su tale enorme asimmetria informativa tra chi offre prodotti finanziari e chi li compra al dettaglio necessiterebbe, da parte delle stesse autorità finanziarie, di una proditoria semplificazione – anche concedendo una delega formativa al sistema bancario, sotto il controllo della Consob – oppure di una fase preliminare di spiegazione e trasferimento della conoscenza all’investitore come “condizione di procedibilità” all’investimento (ad esempio, attraverso un test preliminare).

Peccato che questa funzione non sia prevista, nonostante i consulenti finanziari facciano un lavoro egregio – e non retribuito, al pari delle mansioni amministrative – di informazione ed educazione finanziaria, districandosi anche loro tra mille regolamenti e continui aggiornamenti che, naturalmente, non arrivano alla clientela e si fermano all’interno del sistema. Gli investitori, infatti, non provano neanche più a leggere i contratti, rassegnati a “non voler capire” nulla di fronte ad un sistema che percepiscono come immutabile, come una creatura talmente “elevata” da richiedere un atteggiamento dogmatico e, quindi, l’assoluta inutilità di osservare le più elementari regole di informazione e controllo.

Viste queste premesse, se davvero il sistema finanziario europeo è determinato a “educare” il popolo dei risparmiatori fino a far loro acquisire un buon grado di autonomia, e se davvero si vuole fare dei consulenti finanziari gli attori principali dell’educazione finanziaria, le regole andrebbero riviste fin dalle basi, attribuendo un valore economico – e degli obiettivi di quantità/qualità, naturalmente – all’attività di educazione finanziaria svolta dai consulenti, oppure creando delle figure professionali regolarmente retribuite dal sistema, presenti in ogni rete di consulenza finanziaria e “a servizio” dei consulenti, soprattutto di quelli giovani, chiamati ad assicurare il ricambio generazionale della categoria ma non ancora pervenuti.

Reti del risparmio gestito, boom di raccolta e utili. Adesso niente più alibi sul ricambio generazionale

Dopo i risultati 2020 di raccolta e utili, Assoreti e le consociate non possono più tardare nell’avvio di un piano di investimento sul ricambio generazionale dei consulenti finanziari. Manlio Marucci: “Ci auguriamo un dibattito con Assoreti su questo tema, preannunciando che non verranno più accettati  nuovi tagli ai margini di ricavo dei consulenti”.

Fino a 15-20 anni fa, prima dell’era MiFID, la principale – meglio dire esclusiva – competenza distintiva richiesta ad un aspirante promotore finanziario era la capacità di attrarre un buon numero di clientela potenziale, possibilmente di buon livello, con la quale imbastire una relazione; e se il candidato era troppo giovane per essere credibile, c’erano i supervisori più “anziani” che intervenivano in affiancamento, accompagnando (letteralmente) il neo promotore presso il cliente prospect e colmando così il “vuoto di esperienza” che rendeva difficile la concessione di fiducia.

Poco prima dell’avvento della MiFID, la figura del supervisore, fondamentale per effettuare la formazione sul campo del nuovo collega e per ridurre al massimo l’avviamento commerciale del nuovo professionista, veniva eliminata al pari di quella del praticante, e le maggiori risorse finanziarie derivanti da quel taglio generalizzato venivano dedicate al reclutamento dei bancari operativi negli uffici titoli. Questi ultimi, infatti, assicuravano alle reti – nel frattempo quasi tutte trasformatesi in banche – l’arrivo di portafogli più consistenti in minor tempo, e soprattutto un accorciamento del “ciclo della fiducia” presso la clientela di livello medio-alto, difficilmente raggiungibile per un giovane consulente alle prime armi.

Oggi, con le reti concentrate da anni a far migrare dalla concorrenza consulenti esperti e con portafoglio, lo scenario che prevede la formazione sul campo di nuove leve è diventato quasi inconcepibile e, salvo sporadici esempi di un paio di reti che ci stanno provando, non c’è ancora la “volontà politica”, da parte di Assoreti e delle sue consociate, ad effettuare investimenti concreti e aumentare così la base dei consulenti, affiancando i giovani e i giovanissimi agli anziani che tra dieci anni andranno in pensione. L’età media dei consulenti, infatti, è molto elevata (circa 56 anni), e sembra che l’unico interesse delle mandanti sia quello di assicurare la futura concentrazione dei portafogli dei colleghi vicini all’uscita nelle mani professionisti appartenenti alla fascia d’età precedente (40-50enni). Ma così facendo, è evidente, tra 15 anni il numero dei consulenti attivi potrebbe crollare dagli attuali 33.000 a circa 12.000, con problemi di tenuta economica dello stesso Organismo Unico. Senza contare, a monte di tutto, la perdita di quella ricchezza collettiva che il giusto ricambio generazionale, invece, potrebbe trasmettere alle nuove generazioni di consulenti, assicurando loro – e all’economia italiana – altri decenni di prosperità.

Pertanto, grazie ai conti economici della mandanti gonfi di ricavi e di utili, non esiste più alcun alibi per non intervenire concretamente – senza operazioni “di facciata” – e garantire la costituzione di un meccanismo strutturale di ricambio generazionale della categoria. I soldi per farlo, a carico delle società aderenti ad Assoreti, ci sono. Infatti, le società mandanti italiane quotate in Borsa (Anima, Azimut, Banca Mediolanum, Banca Generali e Fineco) che operano nel settore del risparmio gestito o nella consulenza finanziaria, da sole, gestiscono una montagna di denaro e macinano utili e profitti per i loro azionisti. Recentemente, esse sono finite sotto la lente degli analisti internazionali, che ne hanno tessuto le lodi. Gli esperti di Goldman Sachs, per esempio, hanno alzato il rating sul titolo Banca Mediolanum da neutral a buy (cioè “comprare”), fissando il prezzo obiettivo a 8,7 euro contro il valore di circa 7,3 euro attuale. Gli stessi analisti americani si sono occupati di Banca Generali, sul cui titolo la casa d’affari statunitense ha fissato un rating buy (comprare) e un prezzo obiettivo di 32,7 euro (prezzo attuale circa 27 euro).

Bank of America-Merrill Lynch ha analizzato le prospettive delle reti di consulenti finanziari, promuovendo Azimut e attribuendo al titolo un rendimento complessivo del 24%, suddiviso tra rialzo futuro del prezzo delle azioni (+18%) e incasso dei dividendi (+6%). Gli analisti di Berenberg, invece, si sono concentrati su Fineco, stabilendo un prezzo obiettivo di 15,5 euro ed un margine di guadagno del 17% rispetto al rapporto prezzo-utile (PE) atteso nel 2021.

Manlio Marucci

Contattato da Patrimoni&Finanza, interviene sul tema Manlio Marucci, presidente di Federpromm. “a 12 anni dalla nascita del sistema MiFID, il bilancio per i consulenti finanziari è piuttosto sconfortante in termini di garanzie contrattuali ed economiche. Infatti, alla crescita di ricavi e utili delle mandanti non si è accompagnata, in proporzione assoluta, una uguale crescita del reddito dei consulenti, i cui margini di ricavo sono stati più volte rivisti al ribasso in questi anni sulla scorta dell’alibi di una maggiore raccolta”. “In un sistema economico sano, non si è mai visto che all’aumento dei ricavi e degli utili di sistema debbano corrispondere dei tagli al reddito delle risorse umane ivi impiegate. Dati alla mano, si potrebbe dire che i consulenti abbiano finanziato di tasca propria lo sviluppo economico complessivo delle proprie mandanti e, soprattutto dopo la crisi del 2008, abbiano sanato il loro conto economico, subendo anche il carico di mansioni amministrative prima eseguite dalle sedi e oggi evase, senza alcun corrispettivo, proprio dai consulenti”. “Alla luce dei dati di consuntivo 2020 sulla raccolta, non possiamo che auspicare l’apertura di un dialogo con ABI e Assoreti, al fine di evitare, da un lato, futuri attriti sui rispettivi rapporti di forza e, dall’altro, di avviare una nuova stagione di profondo rinnovamento che risolva, in primis, il problema urgente del mancato ricambio generazionale nella categoria”.