Aprile 19, 2024
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Il soft landing dalla crisi messo a dura prova dal “credito tossico” dello Shadow Banking System

Si continua a guardare il rischio di sistema attraverso il mercato dei corporate bonds, gli indici di borsa e i bilanci delle banche. Tutto secondo il copione che ci ha portato alla crisi del 2001 e del 2008.

Di Maurizio Novelli*

Mentre il quadro geopolitico si fa sempre più critico, emergono di giorno in giorno notizie che confermano il contesto negativo più volte indicato in queste note mensili. La crisi di credito che sta colpendo al cuore l’economia americana è ormai in pieno svolgimento e metterà a durissima prova lo scenario di soft landing già scontato dai mercati. La FED continua ad osservare le dinamiche del credito appartenenti al settore bancario e al mercato delle obbligazioni quotate, non tenendo conto di quello che accade nel settore dello Shadow Banking che rappresenta il 60% del credito all’economia. 

Si continua quindi a guardare il rischio di sistema attraverso quello che si vede sul mercato dei corporate bonds, sui livelli dell’indice di borsa e sui bilanci delle banche. Tutto secondo il copione che ci ha portato alla crisi del 2008 e prima ancora a quella del 2001. Tutte crisi innescate da eventi di credito che si sono manifestati nei segmenti delle cartolarizzazioni gestite dallo Shadow Banking System e che solo con ampio ritardo si sono poi propagate all’intero sistema economico e finanziario. Lo Shadow Banking System non è regolamentato, non è sottoposto a vigilanza e non è monitorato dalla banca centrale, ma costituisce la struttura portante del sistema finanziario Usa e di tutto il “toxic debt” di sistema. La sua dimensione è ormai sistemica da oltre vent’anni e il suo impatto sull’economia reale sempre più rilevante ma sistematicamente ignorato.

Gli indici di mercato dei Leverage Loans sono un eclatante esempio di come si possa far vedere cose diverse da quelle che in realtà accadono in un mercato totalmente opaco. Tali indici sono costruiti sulle tranches dei più importanti loans in circolazione che, in pratica, sono il benchmark del mercato. Da inizio anno tale indice evidenzia una performance positiva del 5%, ma nel frattempo il mercato dei Leverage Loans è decisamente sotto pressione a causa di eventi di credito, ristrutturazioni di debito e defaults. Come è possibile quindi che l’indice del mercato sia positivo? Molto semplice, la modalità con la quale si può far segnare un risultato positivo a un mercato in difficoltà si basa sulle stesse pratiche utilizzate prima della crisi dei mortgages (MBS) del 2008. Basta che alcune controparti si accordino nello scambiarsi periodicamente assets presenti nell’indice a prezzi predefiniti, ed ecco che tale indice non scende mai, anzi sale. La stessa cosa accadeva sui Mbs piu’ importanti nel 2007, dove le principali banche d’investimento, nonostante un evidente aumento delle insolvenze su tali strumenti, continuavano a quotare tra loro i mortgages a prezzi prestabiliti (The big short – M. Lewis, Norton & C. – 2011).

Anche sul mercato degli high yields accade la stessa cosa, dove tutto sembra fermo e cristallizzato, perché il mercato è controllato dai grandi fondi d’investimento che non hanno nessun interesse a far vedere un aumento degli spread, nonostante ci sia in corso un netto deterioramento dei fondamentali delle società. Si apprende quindi, in una nota diramata da Moody’s di recente, che una ragione per la quale non c’è stato un allargamento degli spreads sul mercato degli HY è dovuto alla “migrazione” degli emittenti di peggiore qualità dal mercato degli High Yields a quello del Private Credit. Secondo Moody’s, infatti, gli emittenti a rating B3 sono scesi decisamente nella composizione dell’indice HY. La stessa cosa si sta verificando sul mercato dei Leverage Loans, dove gli emittenti peggiori vengono rimossi dall’indice e il credito passa a carico dei fondi di Private Credit, totalmente non regolamentati e liberi di valutare tali crediti come vogliono.

In pratica, per far vedere che tutto tiene basta rimuovere dagli indici gli emittenti peggiori, così come in borsa basta tener conto solo di 7 titoli per sostenere un mercato azionario. 

Un altro interessante indicatore osservato dagli investitori per valutare quello che sta accadendo sul mercato del credito è quello che misura il tasso di default nel sistema. Come mai, nonostante tale indice evidenzi un livello di insolvenze ormai vicino ai massimi del 2008, nei bilanci delle banche non c’è traccia di NPL? Molto semplice, se leggete i recenti bilanci pubblicati da Jpm, Boa e Citicorp, vi accorgerete che ormai si limitano solo a riportare l’andamento del margine d’interesse e delle commissioni attive. Nulla trapela sulla valutazione degli asset in bilancio e sui crediti, che vengono praticamente tutti valutati al prezzo di carico nel portafoglio immobilizzato. Se fossero valutati al mark to market, invece, le perdite azzererebbero l’intero Tier 1, con la necessità di avviare ingenti ricapitalizzazioni. Ma quello che non si dice è che le insolvenze, in realtà, sono già ora molto più alte del 2008 e non vengono rilevate solo grazie all’ennesimo escamotage utilizzato per non far capire come siamo messi veramente. Sempre secondo Moody’s, il livello di insolvenze è decisamente sottostimato, questo perché le banche e il Private Credit stanno utilizzando il “distressed exchange“, cioè la rinegoziazione dei loans in defaults effettuata direttamente tra controparti senza passare dalle procedure legali d’insolvenza. In questo modo le insolvenze e le rinegoziazioni del debito in default non appaiono da nessuna parte nelle statistiche ufficiali perché negoziate in privato.

* Gestore Lemanik Global strategy fund

Il mercato mondiale del credito verso il collasso. Parola d’ordine: rinviare i defaults nel tempo

Il colossale debito contratto dal sistema in 14 anni di QE ha iniziato a cedere. Il recente declassamento del rating del debito sovrano USA è solo la punta dell’iceberg di un sistema al collasso.

Di Maurizio Novelli*

Mentre tutto sembra sopito sotto il manto della bassa volatilità e gli indici delle borse mondiali si aggrappano vicino ai massimi storici, silenziosi ma importanti eventi confermano l’ingresso nella prima fase della crisi da debito che sta iniziando a diffondersi nell’economia mondiale.

L’attenzione dei media verso la Cina serve a concentrare il focus sui problemi degli altri per nascondere i propri. La Cina, invece, è la punta dell’iceberg del debito fatto a tassi bassi per finanziare l’acquisto di asset a bassa redditività. Il mercato dei Leverage Loans, di cui sono infarcite le banche statunitensi e lo Shadow Banking System (Mutual Funds, CLO, Hedge Funds ecc) è, in questi mesi estivi, impegnato in un disperato tentativo di negoziare un allungamento delle scadenze dei prestiti che stanno giungendo a maturazione e non sono rimborsabili dai debitori insolventi. Il tentativo di evitare i default allungando le scadenze non modifica comunque il profilo finanziario del debitore, che anzi si ritrova ad essere comunque oberato da tassi d’interesse piu’ alti e con un business che, già durante l’era del QE e dei soldi facili, non riusciva a stare in piedi.

La strategia di rinviare e diluire le insolvenze a data futura è il classico meccanismo che porta alla Balance Sheet Recession di stampo giapponese. Recentemente, Bloomberg ha pubblicato un articolo sui rischi di crisi del mercato dei Leverage Loans e sui tassi di default pendenti che rischiano di innescare una crisi di rifinanziamento per un mercato che vale 1,5 trilioni di USD. Le Banche USA che hanno in posizione tali prestiti, i fondi d’investimento e i CLO stanno spingendo per l’allungamento delle scadenze dei rimborsi, dato che moltissime aziende non sono in grado di ripagare il debito. Le aziende in questione hanno business “zombie“, e per questo motivo non saranno mai in grado di ripagare i prestiti, ma ora la priorità è rimandare i defaults nel tempo. Anche con gli Student Loans e il Private Credit, che valgono 1,5 trilioni di USD ciascuno, si è fatto lo stesso: posticipare la moratoria sui pagamenti di interessi e capitale per non scatenare un’ondata di default sulle cartolarizzazioni ABS outstanding.

Solo questi segmenti del mercato del credito valgono 4,5 trilioni di USD, il 20% del PIL USA. Vedremo cosa accadrà ai prestiti subprime di auto, carte di credito, commercial real estate che stanno evidenziando un aumento delle insolvenze.

Il colossale debito contratto dal sistema in 14 anni di QE ha iniziato a cedere, e questo è solo l’inizio. Il recente declassamento del rating del debito sovrano USA è solo la punta dell’iceberg di un sistema al collasso, dove il peggioramento della qualità del credito del governo USA (la tripla A per eccellenza), fa intravedere, per chi vuole guardare oltre, come può essere la qualità del credito di tutto il resto che ci sta sotto. Infatti, mentre tutto il dibattito si è concentrato sul debito federale fuori controllo, nessuno ha parlato di cosa sta succedendo a livello di singoli stati e municipalità, dove la situazione, se è critica a livello federale, è particolarmente più seria e grave a livello locale: altri 3,2 trilioni di USD (12,5% del PIL) sono sotto minaccia di downgrading con elevati rischi di solvibilità.

Pertanto, il peggioramento strutturale della qualità del credito in circolazione sarà la caratteristica del lungo periodo di crisi che si apre dopo gli interventi straordinari post Covid. Il problema è che l’allungamento delle scadenze avviene a tassi che rendono il debitore ancora più insolvente di prima. Quindi lo scenario di Balance Sheet Recession è ora cominciato, e trilioni di USD di liquidità rimarranno incagliati in posizioni di finanziamento a business che non producono profitti, e a debitori insolventi per evitare di innescare defaults e insolvenze a cascata. Questa gigantesca allocazione di capitale verso attività in perdita e insolventi continuerà a compromettere la redditività di sistema, e peggiorerà ulteriormente il moltiplicatore del debito, costringendo l’economia globale in uno scenario di long landing giapponese. Chi era già virtualmente fallito durante l’era dei tassi a zero e dell’economia in crescita, difficilmente diventerà solvibile con i tassi al 5% e l’economia in stagnazione.

*Gestore del fondo Lemanik Global Strategy Fund

Le previsioni economiche, la costruzione del consenso e il “disordine finanziario”

L’industria finanziaria ha tra i suoi obiettivi prevalenti la “costruzione del consenso” che riflette il mondo che vorremmo avere e non quello che in realtà abbiamo. A rischio i principali motori di crescita dell’economia mondiale.

Di Maurizio Novelli*

L’economia globale procede spedita verso una recessione, di cui non è possibile prevedere la profondità. dato che tutto quello che viene elaborato dalle banche d’investimento o dal Fmi si basa su modelli econometrici che non tengono conto di cosa può accadere alle variabili finanziarie; come nel caso degli asset illiquidi non monitorati da alcun modello, che oggi hanno una dimensione pari al 45% del Pil Usa.  Per rendersi conto di questo, basta guardare alle previsioni di consenso elaborate dal Fmi prima delle crisi del 2001 e del 2008. Tutte previsioni ottimistiche, salvo che l’impatto sull’economia provocato dal disordine finanziario è stato devastante.

L’industria finanziaria ha tra i suoi obiettivi prevalenti la “costruzione del consenso” che, nella maggior parte dei casi, riflette il mondo che vorremmo avere e non quello che in realtà abbiamo. Quello che abbiamo dipende prevalentemente dalle politiche che implementiamo e che spesso procurano conseguenze spiacevoli , nascoste fino alla fine. D’altronde, il concetto di negazione della realtà è descritto da Freud come una “forma di difesa del mio equilibrio interiore” (Freud, La negazione – 1925), e appare del tutto normale che il sistema applichi alla lettera tale principio, esattamente come tendono a fare gli individui. I mercati finanziari costituiscono un esempio di “difesa del mio equilibrio interiore” di tipo collettivo, cercando di ritardare il più possibile ogni riconoscimento di eventuali cambiamenti di contesto che possano turbare gli animi.

In base a questo atteggiamento, si può cercare di prevedere quello che accadrà in base a ciò che si vede, anche se il vero concetto di rischio, nel mondo della finanza come nella vita quotidiana, dipende spesso da ciò che non si vede. È proprio nei rischi non monitorati, o ignorati a volte volontariamente, che si nascondono gli eventi negativi. Questo è quello che è sistematicamente accaduto in tutte le crisi economiche e finanziarie della storia. Il consenso tende a concentrare le proprie attenzioni su quello che tutti sanno già, costruendo un contesto psicologico di sicurezza che le cose siano effettivamente così: la cosa più importante è che la maggioranza ci creda. Infatti, nel momento in cui la fiducia nella narrazione cede, si innesca il cedimento del consenso. In questo momento, appare sempre più evidente che tutti sono molto concentrati nel formulare previsioni che possano essere conformi alle posizioni detenute dagli investitori, al fine di generare “la forma di difesa del mio equilibrio interiore”, ovvero «dimmi solo quello che voglio sentirmi dire».                         

Pertanto, nell’analizzare “ciò che non si vede” (e che non crea consenso), è opportuno sbilanciarsi in previsioni di scenario molto diverse da quelle narrate finora:
1) la dimensione dei rischi finanziari non monitorati nel sistema non è mai stata così elevata nella storia. Tali rischi sono sparsi nel sistema attraverso il canale dei Private Markets che hanno raggiunto la dimensione di 9 trilioni di dollari, pari al 45% del Pil Usa a fine 2022. La maggior parte di tali asset è detenuta dallo Shadow Banking System, che non è sottoposto ad alcuna sorveglianza significativa da parte dei regulators;
2) tali asset sono totalmente illiquidi (si veda il recente caso di blocco dei riscatti dei fondi Blackstone per un importo complessivo di 120 mld di dollari) e possono produrre effetti di contagio sugli asset più liquidi se si manifestano esigenze di liquidità da parte di chi li detiene (si veda il caso dei Fondi Pensione UK);
3) una eventuale recessione, provocata da politiche mirate a frenare l’inflazione, potrebbe accentuare i problemi recentemente emersi in tali segmenti del mercato finanziario. Poiché durante una recessione il principale problema è sempre connesso alle esigenze di liquidità di coloro che hanno investito in strumenti illiquidi, l’allocazione di ingenti investimenti su tali asset può accentuare un eventuale credit crunch di sistema, esattamente come nel 2008;
4) gli investimenti illiquidi sono privi di un reale prezzo di mercato, e rendono difficile l’utilizzo di tali asset come collaterale da fornire a eventuali prestatori di ultima istanza. La Fed dovrebbe chiedere al Congresso l’autorizzazione ad acquistare partecipazioni in Private Equity, Private Credit e Real Estate Funds a valori difficilmente verificabili;
5) l’attuale struttura del mercato finanziario fa pensare che ci sono elevate probabilità di Balance Sheet Recession, ossia esigenze di deleverage da parte di intermediari ed investitori che possono impiegare tempi molto lunghi per essere realizzate, sia per la dimensione accumulata che per l’illiquidità evidente di tali posizioni;
6) una probabile recessione potrebbe anche essere “poco profonda”, come si tende a far credere. La manipolazione di mercato e dei dati può essere un meccanismo per attenuare il panico. In questi ultimi mesi i dati sul Pil Usa, sull’occupazione e sul paniere dell’inflazione rilevata fanno storcere il naso a chi li sa leggere. Ma quello che può essere un vero problema, è un eventuale scenario di stagnazione, abbastanza compatibile con una situazione di Balance Sheet Recession. In questo caso si delinea uno scenario “giapponese” per le economie occidentali, indipendentemente da quello che la Fed farà sui tassi d’interesse.

* Gestore del fondo Lemanik Global Strategy Fund

Da Private Credit, Private Equity e super dollaro un altro possibile ciclo ribassista

La vera discesa dei mercati finanziari si verificherà solo quando si realizzerà un’impennata di default nel settore del Private Credit in seguito alla probabile  recessione. La forza del Dollaro è un ulteriore problema.

Di Maurizio Novelli*

In questi anni di QE, il boom del Private Equity e del Private Credit sono stati un importante driver di crescita del credito e dell’economia e il loro peso percentuale sul PIL è ora estremamente elevato. Mentre gli operatori guardano ai tassi di default su High Yield e carte di credito, attualmente intorno al 2,5%, i prestiti in sofferenza sul Private Credit sono già mediamente al 25% (Fonte: Mintos Private Credit), e nulla sappiamo di cosa sta accadendo nel segmento dei Leverage Loans (1,5 trilioni di USD). Tuttavia, una crisi di insolvenze in questo settore avrebbe certamente un impatto collaterale importante sul resto dell’economia, data la dimensione raggiunta e i volumi intermediati.

È evidente che, considerando questi aspetti “nascosti” del mercato finanziario americano, è abbastanza difficile fare previsioni sulla reale profondità di una possibile recessione e dell’impatto che potrebbe esserci sulle variabili finanziarie “visibili” (Equity e Corporate Bonds). Se, come sembra altamente probabile, avremo una recessione, la vera discesa dei mercati finanziari si verificherebbe solo allora, quando si realizzerà un’impennata di default nel settore del Private Credit, un’ulteriore crisi del Private Equity e, alla fine, una decisa revisione al ribasso degli utili attesi per le società quotate. Le recenti notizie delle perdite registrate dai fondi pensione USA sugli investimenti in Private Equity e Private Credit sono una spia di quello che sta accadendo. Anche le perdite nel segmento di business dell’investment banking delle principali banche USA, che sono state molto attive nei finanziamenti al Private Equity e Fintech attraverso i Leverage Loans, rafforzano questo scenario. Il boom di investimenti nel settore Fintech e Crypto ha assunto una dimensione veramente importante negli ultimi tre anni e non sappiamo esattamente quanto sia il peso di tali investimenti sul fatturato delle società tecnologiche.

La miscela perversa di crisi di credito nel segmento Private e l’impatto collaterale sul settore Fintech possono innescare un significativo cedimento del ciclo che allo stato attuale sembra completamente sottovalutato. Un ulteriore problema è l’attuale forza del dollaro a causa delle attese di rialzo dei tassi USA. La rincorsa monetaria della FED, per cercare di piegare un’inflazione che ha sottovalutato, innesca una serie di svalutazioni di euro, yen, sterlina e divise emergenti che provoca seri problemi di controllo all’inflazione importata. Mentre per la FED il dollaro forte è utile per limitare l’inflazione importata, per gli altri Paesi è un ulteriore problema. Infatti, le Banche Centrali delle principali economie sono obbligate ad innescare politiche restrittive per contrastare l’inflazione ma, a causa della svalutazione verso dollaro, l’inflazione importata diventa difficile da contrastare, imponendo di fatto politiche monetarie sempre più restrittive in un contesto di rallentamento dell’economia.

In un mondo dove l’energia è pagata in dollari, la forza del dollaro aumenta l’inflazione fuori dagli Stati Uniti e accentua le politiche restrittive a Paesi che non le possono reggere. L’instabilità finanziaria scatenata dai policy mistake della FED non è mai stata così costosa per l’economia mondiale. Il controllo dell’inflazione USA sarà pagato da tutti con una recessione piuttosto pesante e di non breve durata. La Cina, grazie all’accordo di fornitura di energia con la Russia, è meno esposta all’inflazione importata e può implementare politiche monetarie espansive; tuttavia l’economia cinese rimane esposta al rallentamento dell’economia mondiale e non riuscirà a sottrarsi alla difficile congiuntura internazionale.

Bank of Japan è un’ulteriore dimostrazione della fase di crisi delle Banche Centrali: BOJ non può modificare la politica monetaria per evitare di provocare il collasso dei carry trades in yen, che non farebbero che accentuare il movimento ribassista dei Treasury Bond USA e dei mercati finanziari. BOJ si trova così nell’angolo a subire un attacco speculativo contro yen senza poter intervenire, costretta a subire una svalutazione che produce ormai inflazione anche in Giappone ed erode il potere d’acquisto di un Paese abituato da lungo tempo all’inflazione zero.

Appare evidente che la mancanza di coordinamento tra Banche Centrali sul livello del dollaro è ormai una fonte di problemi che non si può risolvere innescando rialzi dei tassi a livello mondiale per fermare l’inflazione importata da Europa, Giappone ed EM. Si delinea dunque uno scenario di alta instabilità, sia per il ciclo economico che per le variabili finanziarie. Quando la FED dice che ci sarà un conto da pagare per rimettere l’inflazione sotto controllo, gli operatori dei mercati pensano che il conto verrà pagato da qualcun altro o che, dato l’attuale ribasso subìto dal mercato azionario, il conto è già stato pagato. Nella realtà, a giudicare dai problemi che stanno emergendo in alcuni segmenti del mercato finanziario, sembra che il conto finale potrebbe essere molto più alto di quello che la “consensus view” tende, come al solito, a credere.

In base a tali considerazioni, la FED dovrà fermarsi nel rialzo dei tassi davanti all’inesorabile cedimento del ciclo mondiale, ma questo sarà fatto quando ormai la recessione sarà inevitabile (fine 2022). I probabili rimbalzi degli indici all’annuncio del cosidetto “Pivot”, potranno partire da 3400 di SPX e 3000 di Eurostoxx. Il rimbalzo dei mercati sarà però ostacolato successivamente da aspettative di netta revisione al ribasso dei profitti attesi, innescando quindi un’ulteriore fase ribassista che potrebbe culminare a 2500 di SPX, 2500 di Eurostoxx, 10.000 di DAX e 9000 di Nasdaq 100. I bonds governativi (US Treasury e BUND), attualmente in fase ribassista, inizieranno a recuperare terreno grazie al fatto che la recessione procurerà una decisa caduta dei tassi a 10 anni e oltre. Il dollaro avvierà quindi un trend di forte svalutazione contro le principali divise, correggendo l’eccesso di valutazione raggiunto in questi mesi e consentendo a BOJ di uscire dall’impasse, e consentendo alla BCE di essere meno restrittiva.

Le asset class che potranno uscire vincenti alla fine di questo disordine saranno quelle degli Emerging Market che, nel frattempo, avranno accentuato la loro svalutazione relativa verso tutti i principali mercati, e si presenteranno all’inizio di discesa del dollaro con le valutazioni migliori in termini relativi. Le strategie d’investimento devono essere pronte a cogliere questi importanti eventi che ormai sembrano inevitabili, fatti salvi eventuali ulteriori peggioramenti del quadro geopolitico, che imporrebbero una ulteriore spinta al dollaro e quindi un ulteriore peggioramento del contesto finanziario globale.  

* Vice Chairman of Lemanik Invest SA, member of the ASG (Swiss Association of Asset Managers)

Siamo già con un piede in recessione, ma tutti lo negano

Le posizioni di rischio che si sono accumulate in questi 15 anni di Quantitative Easing non sono paragonabili a nessuna fase precedente di bull market. Il rapido deterioramento della congiuntura internazionale preannuncia l’arrivo di una recessione che i policy makers cercano di negare in tutti i modi.

Di Maurizio Novelli*

Ad oggi, le previsioni degli analisti sui profitti delle società quotate USA non sembrano prevedere nessun problema in arrivo, dato che le attese di consenso evidenziano, per ora, una crescita di circa un 8% degli EPS nel 2023. Tutto questo “ottimismo” sembra poco credibile, ma evidenzia un sistema che fatica a riconoscere il cambiamento di scenario in corso.

Prima della crisi del 2008, i mercati continuavano a salire nonostante gli evidenti segnali di crisi nel settore immobiliare e dei titoli subprime (infatti l’indice SPX si è mantenuto sui livelli vicini ai suoi massimi fino al dicembre del 2007) mentre le banche evidenziavano già significative perdite sui MBS da marzo 2007. La FED di Bernanke negava davanti al Congresso qualsiasi problema in arrivo e trasmetteva segnali rassicuranti ai mercati finanziari. La vera caduta del mercato è iniziata nell’autunno del 2008, quasi un anno dopo i primi evidenti segnali di crisi. Nella fase iniziale del ribasso, solo gli investitori più sofisticati uscirono dal mercato e aprirono posizioni short. Nella fase intermedia del ribasso alcuni investitori incrementarono le posizioni long credendo che il mercato fosse già sceso molto.

La psicologia di acquisto dell’investitore parte dal presupposto che il livello di riferimento del mercato siano i massimi storici, poco importa se tali massimi siano insostenibili.  Solo nella fase finale si procede alla liquidazione in massa delle posizioni. È in quest’ultima fase che si realizza il vero e proprio ribasso del mercato, dove tutti gli investitori diventano negativi e la caduta dei prezzi coincide con la costruzione dei veri minimi del ciclo ribassista. Siccome usciamo da 15 anni di Quantitative Easing e di politiche monetarie a tasso zero, le posizioni di rischio che si sono accumulate in questi anni non sono paragonabili a nessuna fase precedente di bull market. La soppressione dei tassi d’interesse e del costo del debito per lungo tempo ha gli stessi effetti sul sistema paragonabili alla sospensione del codice penale.

Nel momento in cui è possibile operare in un ambiente senza restrizioni e con la predisposizione a salvare chi prende più rischi, questo contesto innesca una predisposizione al rischio sempre più alta e permette di sostenere business che stanno in piedi solo grazie alla leva finanziaria (il 30% delle società quotate al Russell 3000 non faceva utili a fine 2021). Le Banche Centrali tendono a monitorare i rischi di sistema limitandosi a guardare nei bilanci delle banche, anche se prima del 2008 non facevano neppure quello. Attualmente però, i principali rischi di sistema non sono più ovviamente nelle banche, ma nello Shadow Banking System, ossia quella parte di mercato finanziario che comprende Mutual Funds, Private Equity, Pension Funds, Private Credit, SPAC, Cryptovalute, ecc.

Per avere un’idea della deregulation che ha portato alla creazione di un sistema finanziario totalmente non monitorato, basta guardare alla dimensione di questi segmenti del mercato finanziario. Oggi la maggior parte dei mutui erogati negli Stati Uniti non passa dal sistema bancario, la maggior parte del credito subprime passa dal Private Credit (1,5 trilioni), e i Leverage Loans (1,4 Trilioni) emessi per sostenere le attività di Private Equity (6 Trilioni) è solo in parte sui bilanci delle banche, dato che la maggior parte è collocata a Mutual Funds e Fondi Pensione. Solo nel sistema finanziario USA, la dimensione dei mercati che sfuggono a qualsiasi regolamentazione – e quindi a qualsiasi monitoraggio del rischio di sistema – è pari a circa 9 trilioni di dollari su 20 trilioni di PIL. I Fondi Pensione e i Mutual Funds sono i principali investitori di tali asset, e acquistano direttamente – o tramite cartolarizzazioni – gli strumenti ad alto rendimento emessi, in particolare, da Private Equity e Private Credit.

Il problema è che la deregulation e i tassi a zero hanno creato una bolla di credito di dimensioni gigantesche in un settore che sfugge a qualsiasi controllo e monitoraggio da parte delle autorità monetarie. In caso di recessione, le ripercussioni generate da un credit crunch in tali settori avrebbe un effetto molto pesante sull’economia reale, dato che è nel driver della crescita economica che si concentra la maggior parte del credito speculativo all’economia (il Private Equity vale oggi il 30% del PIL USA). Poiché in questo segmento di mercato operano soggetti non sottoposti a regolamentazioni, gli interventi di salvataggio semplicemente non sono possibili.

* Nella foto Maurizio Novelli, Vice Chairman of Lemanik Invest SA, member of the ASG (Swiss Association of Asset Managers)