Ottobre 12, 2025
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Asset allocation: aumentare il settore bancario cinese dopo l’annuncio del nuovo pacchetto di misure fiscali

Le valutazioni azionarie in Asia sono molto interessanti in una prospettiva di medio-lungo termine. Abbiamo iniziato ad accumulare posizioni in società che si prevede faranno parte dell’indice Value-up.

di Marcel Zimmermann, gestore del fondo Lemanik Asian Opportunity di Lemanik

In portafoglio abbiamo preso profitto sugli investimenti tecnologici cinesi e aumentato l’esposizione al settore bancario e immobiliare. Ci aspettiamo che il nuovo pacchetto di stimoli fiscali cinesi sia positivo a lungo termine per la stabilità del settore bancario, che è attualmente scambiato a forte sconto rispetto al book value.

A ottobre i mercati azionari asiatici si sono ritirati con prese di profitto dopo la forte performance di settembre. Le ragioni della debolezza possono essere attribuite a diversi fattori. La situazione geopolitica in Medio Oriente e in Ucraina continua a deteriorarsi. I dati relativamente forti sull’occupazione negli Stati Uniti, insieme all’aspettativa e alla poi confermata vittoria di Trump, hanno continuato a spingere al rialzo il dollaro Usa. La forte correlazione negativa con un dollaro forte ha spinto al ribasso i titoli azionari dell’Asia emergente.

I titoli del sud-est asiatico hanno sofferto maggiormente, mentre i mercati asiatici sviluppati hanno registrato una performance migliore, con e Taiwan che hanno chiuso in rialzo. Il quadro economico di ottobre è rimasto contrastante per la regione asiatica. L’indice PMI è stato espansivo nelle Filippine, in Thailandia, a Taiwan, in India, a Singapore e a Hong Kong. Una lettura negativa è arrivata da Cina, Giappone, Indonesia, Vietnam e Corea del Sud. La Cina ha annunciato ulteriori misure di stimolo fiscale da 10mila miliardi di yuan durante l’Assemblea Nazionale del Popolo (NPC) di inizio novembre. Lo stimolo è inferiore all’enorme sostegno annunciato nel 2008, ma è comunque impressionante.

In portafoglio abbiamo aumentato l’esposizione al settore bancario e immobiliare cinese e sono stati apportati ulteriori aggiustamenti alla nostra allocazione coreana. Abbiamo iniziato ad accumulare posizioni in società che si prevede faranno parte dell'”indice Value-up“. Si tratta di società con una maggiore sensibilità verso i valori degli azionisti, ma le cui valutazioni non riflettono ancora l’orientamento positivo. Continuiamo a ritenere che le valutazioni azionarie in Asia, in particolare nell’Asia emergente, siano molto interessanti in una prospettiva di medio-lungo termine. Non solo le valutazioni sono a sconto rispetto ai mercati sviluppati, ma gli investitori continuano a trascurare i mercati emergenti. Ciò si riflette nell’asset allocation degli investitori globali, che si attesta a circa il 40% al di sotto della ponderazione media storica in questa asset class.

Michael Blümke: recessione improbabile, ma il taglio dei tassi è rimandato

Economia statunitense solida, ma l’obiettivo del 2% di inflazione rimane lontano. Eurozona in recessione tecnica, ma il peggio è passato. Cina zavorrata dalle difficoltà del settore immobiliare.

di Michael Blümke*

“L’attuale stima del Fmi in merito alla crescita economica globale nel 2024 si attesta al 3,1%, al di sotto della media di lungo periodo. Sebbene la crescita solida e il il calo dell’inflazione rendano sempre più improbabile una recessione globale, i consistenti stimoli fiscali, la solidità dei mercati del lavoro e le incertezze geopolitiche potrebbero compromettere il processo disinflazionistico nel medio periodo. Nei prossimi mesi le banche centrali cominceranno a ridurre i tassi di riferimento, ma lo faranno più lentamente e gradualmente di quanto i mercati abbiano finora previsto. Nel 2024, più della metà della popolazione mondiale sarà chiamata alle urne in oltre 70 Paesi. Gli attuali governanti vareranno stimoli fiscali con l’intento di assicurarsi la rielezione e i risultati elettorali avranno ripercussioni sugli sviluppi fiscali, commerciali e geopolitici del mondo e su quelli legati alle politiche sull’immigrazione.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti, il trend disinflazionistico perde vigore ma resta finora intatto. Siamo tuttavia convinti che il mercato sbagli ad attendersi un taglio dei tassi già a marzo e che ulteriori dati economici positivi getteranno un’ombra sulle aspettative ottimistiche di un allentamento monetario. Con un aumento del Pil del 3,3 % nel quarto trimestre 2023, l’economia statunitense ha ancora una volta sorpreso i mercati in positivo. Negli Stati Uniti, la congiuntura è cresciuta a ritmi che non si vedevano da sette mesi, sospinta dall’elevato numero di ordinativi. Le prospettive del primo trimestre 2024 fanno prevedere una robusta espansione. Infatti, se l’attività industriale ristagna, il sentiment dei consumatori è decisamente migliorato, per cui non sorprende che la crescita economica continui a beneficiare delle solide vendite al dettaglio.

Anche il mercato del lavoro continua il proprio processo di normalizzazione ritornando ai precedenti equilibri. Il mercato immobiliare è sostenuto dal ribasso dei tassi ipotecari e dovrebbe quindi esibire un miglioramento nei prossimi mesi. Mentre a dicembre l’indice dei prezzi al consumo è salito al 3,4%, i dati sul PCE (spesa per consumi personali) forniti dalla Fed sono più incoraggianti. A dicembre, il PCE core è sceso al di sotto del 3% e anche le aspettative di inflazione sembrano tuttora ben ancorate. Il rallentamento dell’inflazione rappresenta uno sviluppo positivo. In particolare, la solidità del mercato del lavoro, i consumi robusti e gli ulteriori stimoli fiscali in vista delle elezioni presidenziali di novembre determineranno probabilmente il prolungamento del ciclo disinflazionistico, rendendo più difficile un rapido ritorno all’obiettivo di inflazione del 2%. Pertanto, mancano le premesse per un taglio dei tassi, malgrado le notizie positive. La Fed dovrebbe ancora attendere il pieno dispiegarsi degli effetti della sua campagna di inasprimento. L’istituto centrale resta naturalmente alle prese con un dilemma: una reazione troppo tardiva rischierebbe, in primo luogo, di causare un eccessivo rallentamento economico e, in secondo luogo, di far apparire l’istituto come politicamente motivato in vista delle elezioni.

Eurozona. “Nell’Eurozona, i dati macroeconomici fanno presagire una stabilizzazione dell’economia fino a metà anno e gli spread dei titoli di Stato non danno adito a timori di frammentazione, pertanto nemmeno qui vediamo motivi per cui la Bce dovrebbe agire frettolosamente”. I dati del quarto trimestre 2023 provenienti dall’Eurozona restano deboli. Nella seconda metà del 2023, l’economia della regione è scivolata in una recessione tecnica, ma i dati disponibili ci inducono a ritenere che il peggio sia passato. La crescita rimarrà debole anche nella prima metà del 2024, ma non prevediamo una grave recessione, semmai una crescita economica stagnante. A dicembre, la disoccupazione nell’Eurozona è scesa al 6,4%, un livello mai registrato prima. A differenza degli Stati Uniti, a gennaio la fiducia dei consumatori dell’area euro è diminuita ulteriormente e a fine 2023 le vendite al dettaglio si sono ulteriormente ridotte. L’aumento dei salari reali e la disoccupazione ai minimi storici dovrebbero tuttavia sostenere la domanda privata nei prossimi mesi. L’incremento della domanda dei consumatori e i crescenti costi del lavoro potrebbero però rendere più vischiosa l’inflazione, impedendo un rapido processo disinflazionistico.

La debolezza della domanda globale crea problemi ai paesi e ai settori orientati alle esportazioni. Il settore manifatturiero tedesco ne risente particolarmente. Gli ordini in entrata e la produzione nel settore industriale hanno subito un’ulteriore contrazione. L’indagine della Bce sull’erogazione del credito mostra condizioni di prestito ancora tese, ma indica anche che ci siamo ormai lasciati alle spalle il picco dell’inasprimento. A quota 3,6%, l’inflazione di fondo è scesa su base annua, pur restando nettamente al di sopra dell’obiettivo della banca centrale. La Bce manterrà un atteggiamento dipendente dai dati, attendendo di vedere gli sviluppi dei prossimi mesi.

Cina. Le prospettive della Cina sono leggermente migliorate rispetto agli scorsi mesi, ma i futuri sviluppi continueranno a dipendere dalla velocità con cui si risolveranno i problemi del settore immobiliare. L’economia cinese resta debole. L’anno scorso la crescita complessiva del paese ha raggiunto il 5,2%, in linea con l’obiettivo ufficiale di crescita del 5% circa. Il 2023 si è chiuso con risultati eterogenei: inflazione debole, calo del settore dei servizi e livelli ancora modesti di erogazione del credito da parte delle banche a fronte della stabilizzazione del settore manifatturiero e del miglioramento delle esportazioni rispetto ai precedenti bassi livelli. I consumi restano uno dei principali motori della crescita grazie anche al solido aumento delle vendite al dettaglio nel terziario.

Anche nell’industria si delinea un trend ascendente, mentre il settore immobiliare resta il fanalino di coda, nonostante il lancio di progetti di edilizia residenziale a prezzi accessibili, diverse misure di allentamento e iniezioni di liquidità. Il contesto economico resta deflazionistico, mentre l’inflazione di fondo a +0,6% rimane positiva su base annua. I sondaggi sull’attività economica futura sono ancora deboli e fotografano un’economia stagnante. In reazione a tali risultati, le autorità politiche si stanno dando maggiormente da fare. Pur in assenza di notizie più dettagliate, il deficit di bilancio dovrebbe rimanere intorno all’8% del Pil. Le autorità monetarie sosterranno la politica fiscale espansiva. La Banca centrale cinese ha di recente sorpreso i mercati riducendo di 50 punti base i coefficienti di riserva minima, un taglio superiore alle aspettative e preannunciando il varo di ulteriori misure.

*portfolio manager di Ethenea Independent Investors

Posizione d’investimento ultra difensiva nel 2024. Oro da preferire a equity e bond

Ridurre i tassi troppo presto per salvare le bolle speculative può innescare un pericoloso ritorno di una inflazione stavolta strutturale. L’Oro rimane l’unica asset class affidabile.

Di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy

I mercati finanziari hanno iniziato a scontare un ribasso dei tassi d’interesse, ma ci sono tre fattori importanti che impediranno significative riduzioni, salvo una eventuale crisi economico-finanziaria innescata dal colossale debito speculativo emesso durante il Quantitative Easing.

Il primo fattore è che la traiettoria del debito pubblico USA è, allo stato attuale, difficile da fermare. I motivi principali sono dovuti al fatto che i sussidi sui redditi medio bassi non possono essere rimossi senza provocare un’ondata di default sul credito al consumo (Carte di Credito, Prestiti Auto, Student Loans e Mutui) che è pari a 17,3 trilioni di dollari, ossia il 72% del PIL. Attualmente il governo federale eroga sussidi settimanali compresi tra i 400 e gli 800 dollari per nucleo famigliare con redditi sotto i 40.000 dollari lordi all’anno. Il 30% delle famiglie americane riceve tale assistenza per poter pagare Medicare, bollette energetiche, affitti e spese correnti o per pagare semplicemente i debiti in essere. Circa il 30% delle famiglie americane è nella categoria Subprime e quindi il 30% di 17,3 Trilioni di debito, (5,2 Tr) è debito Subprime (pari al 20% del PIL).

Il secondo motivo è che lo stock di titoli pubblici da emettere mensilmente è così ingente che per sottoscriverli deve rimanere un “incentivo” di remunerazione tale che impedirà di fatto una significativa riduzione dei rendimenti, specialmente se la FED vuole proseguire, come dice, con il Quantitative Tightening. Il terzo problema è che lo stimolo fiscale costantemente in essere è finalizzato a sostenere la domanda e quindi è sempre reflazionistico. Implementare una riduzione dei tassi con una politica fiscale reflazionistica in corso non depone certo a favore di una discesa dell’inflazione e potrebbe innescare un ulteriore sell off sui bond, provocando quindi un rialzo dei tassi anziché una sua discesa, con tutte le conseguenze del caso. Quindi, le dichiarazioni della FED sono una ulteriore conferma che non esiste una visione strategica dei problemi in cui si è infilato il sistema dopo 14 anni di incompetenti politiche monetarie “populiste”, prevalentemente mirate a sostenere la speculazione finanziaria. Mentre si festeggia il “Cavaliere Bianco” che arriva in soccorso alle bolle speculative, non si tiene conto in nessun modo di quali problemi possono arrivare da queste decisioni, ma credo che il mercato dei Treasuries inizierà presto a soppesare le intenzioni della FED.

Poiché tutte le scelte degli attuali policy makers sono condizionate dalle bolle speculative che hanno creato, non c’è alcun dubbio che il prossimo policy mistake sarà quello di cercare di salvare le bolle speculative innescando un pericoloso ritorno dell’inflazione, che a quel punto però potrebbe diventare strutturale. Anche i costi indotti dalla transizione energetica puntano purtroppo in quella direzione. Per evitare il rischio di un rigurgito inflazionistico, l’unica decisione sensata sarebbe quella di mantenere i tassi dove sono, attendere un aumento della disoccupazione e un deciso rallentamento dell’economia e procedere poi ad un allentamento monetario. Ma la decisione “sensata” si scontra con il fatto che i default nell’economia stanno iniziando a salire decisamente (nonostante i sussidi governativi), lo Shadow Banking System è letteralmente piegato dai crediti speculativi inesigibili e il 2024 è un anno elettorale.

Fine dell’indipendenza delle banche centrali. Tutto questo non è a conferma “dell’indipendenza” della Banca Centrale. Le Banche Centrali hanno perso la loro indipendenza dopo la crisi del 2008 e il controllo dei rischi finanziari è completamente saltato, dato che le politiche monetarie implementate hanno innescato un ondata di speculazione finanziaria difficile da domare. Il sentiero per evitare una crisi si fa dunque sempre più stretto e i problemi strutturali sempre più evidenti. Da una parte un debito pubblico crescente generato da sussidi a una rilevante parte della popolazione che vota per Biden, dall’altra parte bolle speculative che devono essere sostenute a ogni costo, con default e fallimenti in salita verticale, economia che dipende solo dalla spesa pubblica, banche in difficoltà che devono essere salvate, credito in contrazione e contesto geopolitico poco favorevole alla crescita economica globale.

I motivi per essere molto bullish su questo modello economico-finanziario li lasciamo ai “Passive Investors” che, senza offesa, basano le strategie d’investimento solo sul salvataggio a oltranza del sistema con i soldi pubblici. Per entrare maggiormente nel dettaglio, si tenga conto anche che nel terzo trimestre il PIL USA ha fatto registrare un + 5% su base annua, pari a 588 miliardi di dollari nominali così composti: 566 mld di contributo proveniente dal deficit spending e 22 mld dal settore privato. In sintesi, lo stimolo fiscale ha prodotto il 96% della crescita, mentre il settore privato è già a crescita zero. Analizzando il dato in dettaglio, non sembra poi così positivo.

Nel frattempo i cinesi non sembrano avere tutta questa fretta per introdurre lo stimolo fiscale che le banche d’investimento americane invocano tutti i giorni. Forse pensano che tale stimolo potrebbe essere spazzato via da un rischio di crisi negli Stati Uniti e preferiscono tenere da parte gli stimoli per intervenire in caso di problemi che possono arrivare ora dall’emisfero occidentale. D’altronde l’Europa è già in recessione, il Giappone cresce di 1,2% dopo stimoli fiscali e monetari stellari, e l’America, se vuole galleggiare, deve far esplodere il debito pubblico, dato che quello privato già scricchiola sotto i colpi dei default.

A proposito di default, occorre tenere presente che le statistiche sui fallimenti che vediamo ora si riferiscono ad almeno 6/9 mesi prima, dato che le procedure legali che dichiarano lo stato di insolvenza non sono così rapide e immediate. La stessa cosa è accaduta nel 2008, dove i livelli di insolvenza del sistema hanno toccato il picco due anni dopo la crisi, anche se, di fatto, si riferivano a situazioni di fallimento già evidenti nei due anni precedenti. Quindi, mentre oggi stiamo guardando a tali statistiche con qualche preoccupazione, occorre considerare che non sappiamo esattamente dove si trovano ora tali percentuali, dato che i meccanismi con i quali un credito si trasforma da semplice “partita incagliata” a sofferenza e poi insolvenza è particolarmente lungo. È però evidente che in un contesto di crescita del 5% sul terzo trimestre 2023, risulta alquanto strano che ci sia in corso invece una tale dinamica da crisi economica ormai evidente.

Come sta il sistema finanziario Usa? Per dare una fotografia più completa possibile di come è effettivamente messo il sistema finanziario americano dopo 14 anni di Quantitave Easing, occorre tenere conto che il totale del debito speculativo nel sistema è oggi pari a 12,6 Trilioni di USD su un PIL di 24 Trilioni, e cioè il 52% del PIL. Invece, nel 2007 il debito speculativo presente nel sistema era pari a 4,675 Tr di USD su un PIL di 15 Trilioni, ossia il 31% del PIL. Non è noto quanto di questo debito speculativo sia già ora insolvente, ma appare abbastanza evidente che il sistema è letteralmente saltato e opera, per ora, in modalità “sopravvivenza”. Purtroppo non siamo messi così bene per affrontare un rallentamento dell’economia, o peggio una recessione, e quindi ora, dopo il rialzo dei tassi che ha messo in crisi tutto questo credito speculativo emesso in anni di tassi a zero, si cerca di prefigurare una discesa dei tassi. Ma se non vuoi affrontare una recessione e una “pulizia” del sistema dai problemi che hai creato durante l’era del Quantitative Easing, sei obbligato a rincorrere un ulteriore stimolo monetario mentre sei ancora in piena occupazione, con l’economia che non ha iniziato ancora la fase di deleverage, ma anzi, insiste sugli stimoli fiscali per sostenere una crescita non sostenibile.

Ricordo che attualmente, per ottenere un dollaro di PIL bisogna creare cinque dollari di nuovo debito. Questa scelta può procurare comunque problemi alla discesa dell’inflazione, destabilizzare il mercato dei bond e innescare una ulteriore impennata dei tassi a lunga scadenza. A tutti questi problemi si aggiunge la necessità di difendere il dollaro come divisa di riserva. Le decisioni di fare nuovo debito e contestualmente far scendere i tassi non sembrano far ben sperare per la tenuta della divisa USA e dei Treasuries.

Maurizio Novelli (Lemanik)

Davanti a problemi sempre meno gestibili, l’America ha giocato le carte dell’instabilità geopolitica globale, innescando una crisi con la Russia che ha messo in ginocchio l’economia UE, ha aperto una guerra commerciale con la Cina che ha portato ad un deflusso di capitali occidentali dalla Cina, ha beneficiato di una BOJ orientata a svalutare lo Yen. Per difendere il dollaro abbiamo bisogno di pericolosa instabilità geopolitica costante e che tutto il resto del mondo sia in una crisi perenne. Pertanto, ci sono molteplici ragioni per assumere una posizione d’investimento ultra difensiva, nonostante le dichiarazioni dei policy makers che il sistema è solido e che l’economia è forte. I numeri purtroppo non confermano questa narrazione, e forse per questo motivo l’Oro rimane attualmente l’unica asset class sulla quale fare affidamento. Per quanto riguarda equity e bond, infatti, le tendenze non sembrano così solide come si tende invece a far credere.

USA, la recessione è già in corso ma i dati macro “politicizzati” la nascondono

I dati macro USA camuffati per gestire l’opinione pubblica, i mercati e la propensione al rischio. il sistema privato Usa, dopo 14 anni di QE, è esposto ad un elevato rischio di insolvenza. 

Di Maurizio Novelli, gestore Lemanik Global strategy fund

I mercati azionari tornano sui massimi storici mentre i fondamentali continuano a deteriorarsi sia a livello macro che micro. Purtroppo il contesto nel quale ci troviamo a operare è sempre più inficiato dal fatto che alcuni dati macro sono ormai platealmente “politicizzati“. Infatti appare abbastanza evidente che, mentre i principali indicatori che utilizziamo da anni per interpretare il trend dell’economia americana confermano uno scenario di recessione già in atto (PMI, Leading Indicators, fiducia dei consumatori e delle imprese, ciclo del credito, profitti societari e commercio internazionale), i dati del Pil e del mercato del lavoro sembrano andare dall’altra parte.

Ormai i dati del mercato del lavoro Usa sono diventati indecifrabili a causa delle continue revisioni e modifiche di calcolo, tanto che il Bureau of Labor Statistics ha dichiarato che questi dati non sono confrontabili con quelli dell’anno scorso a causa delle modifiche apportate al meccanismo di calcolo. Tra il 2022 e il 2023 le grandi società tecnologiche di Wall Street hanno licenziato 565.000 dipendenti. Poiché la tecnologia è il settore trainante dell’economia ma riduce la forza lavoro come se fosse in recessione, trovo alquanto difficile che altri settori abbiano potuto assorbire questi licenziamenti. I dati sul Pil sono invece facilmente comprensibili nella loro “fabbricazione”, grazie al deflatore utilizzato per ottenere il Pil reale depurato dall’inflazione. Tuttavia, a parte questi aspetti ormai noti da tempo, appare sempre più evidente che il soft landing è già iniziato dall’inizio dell’anno in corso, mentre gli investitori pensano che sia uno scenario che deve ancora concretizzarsi. Infatti l’Europa è in recessione, la Cina è in crisi, il Giappone, nonostante poderose politiche reflazionistiche, chiude il Pil del terzo trimestre a -0,5%, con un tendenziale annuo a – 2,1%.

Un pessimo risultato per un’economia che ha impostato una strategia decisamente reflazionistica, al punto da mettere a rischio la stabilità valutaria e finanziaria. Germania, Giappone e Cina, le economie più esposte al ciclo economico internazionale, sono tutte in stagnazione ed evidenziano che l’economia mondiale è in stallo. Gli Stati Uniti hanno finora galleggiato grazie a politiche fiscali stratosferiche ma insostenibili, perseguite con l’intento di evitare il fallout di un sistema privato che è super indebitato e si sta sgretolando sotto il peso dei tassi d’interesse e delle insolvenze, che nonostante tutti gli interventi hanno iniziato a salire comunque in modo inesorabile. Infatti, analizzando il contributo fiscale alla crescita reale del Pil Usa, si scopre facilmente che, se gli Stati Uniti chiuderanno l’anno in corso con una crescita “ufficiale” al 2,2% circa (stime attuali), ben il 2,7% di crescita reale arriva dalla spesa pubblica (1% Federale e 1,7% Locale), evidenziando che l’intero settore privato ha espresso un contributo negativo di 0,1% in termini reali (sempre secondo i dati “ufficiali”). Analizzando i dati in termini nominali (non depurati dall’inflazione) si scoprono però cose interessanti. La spesa pubblica in termini nominali ha prodotto un contributo al Pil nominale pari a circa l’8,07% nel terzo trimestre con il Pil nominale che è cresciuto complessivamente dell’8%. Sembrerebbe dunque che il Pil nominale Usa del solo settore privato, senza la spesa pubblica, sarebbe in realtà a crescita zero in termini nominali, se da questo dato dovessimo sottrarre l’inflazione per ottenere il Pil reale del settore privato il numero sarebbe da panico (- 3,5% circa). In sintesi: mentre la spesa pubblica sostiene il Pil, il settore privato è già in pesante recessione. Questo ci fa capire quanto siano “politicizzati” certi dati per gestire l’opinione pubblica, i mercati e la propensione al rischio.

Sistema privato Usa a rischio insolvenza. La realtà è che il sistema privato Usa, dopo 14 anni di “festa del debito” supportata da QE e tassi a zero, si è esposto ad un elevato rischio di insolvenza. Infatti una elevata percentuale di tale debito (circa un 25%) è stato utilizzato per “misallocation of capital”, cioè per investimenti la cui redditività era compatibile solo in un contesto di costo del credito pari a zero o molto basso. Per calcolare la percentuale di “misallocation” basta guardare a come si è gonfiato il settore del Private Credit, del Venture Capital, del Private Equity e di tutto il settore dello Shadow Banking System americano, che attualmente è il principale “distributore di rischio” sui mercati finanziari e il principale fornitore di credito al sistema. Per distributore di rischio” si intende il ruolo che un intermediario ricopre nel collocare prodotti finanziari (credito, fondi o equity) a investitori istituzionali e non, attraverso cartolarizzazioni di loans, credito e strumenti finanziari. Nel 2005-2007 tale ruolo è stato ricoperto dalle banche Usa, che spargevano il rischio di credito nel sistema attraverso il collocamento di MBS (Mortgage Backed Securities), ABS (Asset backed securities) e CLO (Collateralized loan obligation). Attualmente tale attività si è spostata dal settore bancario (regolamentato) allo Shadow Banking (non regolamentato).

La concomitanza di credito facile (QE) e mancanza di regolamentazione e/o vigilanza ha prodotto un disastro ancora non visibile sui mercati ufficiali ma già molto visibile nei mercati non ufficiali, esattamente come nel 2006 si vedevano i problemi che sono poi esplosi nel 2008. Insolvenza di sistema e crescita del credito non sono mai andati nella stessa direzione e sono tra loro decorrelati. Se fosse vero che l’economia Usa cresce del 2%-3%, come si vuole far credere, non avremmo una contrazione del credito, un aumento delle insolvenze, crisi bancarie e la necessità di abnormi stimoli fiscali. In realtà il sistema è “saltato” con l’arrivo della pandemia del 2020, è stato temporaneamente “salvato” dagli interventi, e ora con la insostenibilità degli interventi sta tornando ancora nella situazione di insostenibilità.

Il problema principale è che i colossali interventi monetari e fiscali sono stati finalizzati a salvataggi. Gli stimoli fiscali e monetari di salvataggio non hanno gli stessi effetti degli stimoli fiscali per investimenti e tendono a perdere il loro effetto molto presto. Il paradosso è che l’effetto più rilevante di tali stimoli ha scatenato un’ulteriore ondata finanziaria speculativa di cui non avevamo bisogno, mentre l’economia reale è stata molto meno brillante, dato che per ottenere un dollaro di Pil degli ultimi due anni abbiamo fatto 5 dollari di nuovo debito. Questo conferma che i salvataggi hanno, nel medio periodo, un moltiplicatore fiscale negativo. A questo punto, considerando che il soft landing è già in corso da quasi un anno, fabbricato da alcuni dati macro “politicizzati”, occorre chiedersi se siamo nella condizione di uscire dal pantano o ci rimaniamo dentro per un bel po’ di tempo, con il rischio di affrontare in seguito un hard landing.