Settembre 11, 2025
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Vendita qualificata, la crisi dei talenti fa male all’Economia. Maggiori risorse dal Recovery Plan

Vendere è uno dei mestieri più gratificanti al mondo e, con le giuste condizioni di trasparenza e professionalità, crea un valore inestimabile per la Società e per l’Economia.

Di Valerio Giunta*

Da sempre, la vendita di beni e servizi incide fortemente sui settori che rappresentano l’eccellenza dell’Italia nel mondo, come l’Agricoltura, l’Artigianato ed il Turismo. Per questa ragione, esattamente come accade nelle altre professioni, occorre tutelare chi vende professionalmente, valorizzarne il talento, svilupparne le competenze e, soprattutto, attrarre i giovani per la crescita del settore e per il suo necessario ricambio generazionale.

A fronte di queste esigenze non rinunciabili, il Recovery Plan “Next Generation”, che avrà il compito di disciplinare la distribuzione di risorse finanziarie pari a oltre 200 miliardi, dedica al “Piano strategico Nazionale per le nuove competenze per il mantenimento dei posti di lavoro, le transizioni occupazionali e il supporto alla ricollocazione dei disoccupati” solo 3 miliardi, pari all’1,5% dello stanziamento complessivo. Questo dato – spiace dirlo – è in netta contraddizione con lo scopo stesso del Piano, perché con risorse così marginali (in proporzione alla misura totale) dovrebbe garantire un rilancio in termini di “mantenimento dei posti di lavoro, transizioni occupazionali e supporto alla ricollocazione dei disoccupati” che, in relazione allo stato dell’arte dell’Economia, sarà difficile – se non impossibile – assicurare senza un intervento più incisivo.

Invece, proprio in relazione alle finalità richieste – in particolare le transizioni occupazionali e la riallocazione dei disoccupati – il settore della Vendita potrebbe essere idoneo ad accogliere molte risorse umane, in quanto la figura di venditore qualificato continua ad essere fra le più richieste a livello globale. Infatti, nel rapporto LinkedIn “Emerging Job Report” del 2018, 3 tra le 10 professioni emergenti erano legate all’ambito commerciale. Secondo quanto riportato dal Rapporto SIM (Società Italiana di Marketing) già nel  2017, le figure più ricercate dalle imprese sono quelle specializzare nella vendita (67% nel 2010, 71% nel 2015). Eppure, come scrive il Prof. Silvio Cardinali in Contemporary professional selling: Percorsi di ricerca e riflessioni sul nuovo ruolo dei professionisti delle vendite “a questa disponibilità di offerta nel mercato del lavoro non si è sviluppata una “cultura” italiana in ambito commerciale, e gli studenti universitari non considerano come una opportunità la carriera in questo ambito professionale così pieno di soddisfazioni. Negli ultimi dieci anni, diversi studi (Karakaya, Quigley e Bingham, 2011; Manning, Reece e Ahearne, 2010) hanno dimostrato che la reticenza degli studenti verso la scelta di una carriera nella Vendita è rimasta costante, sebbene questo percorso possa offrire risultati economici gratificanti, soprattutto nei contesti BtoB (Business to Business)”.

Pertanto, le aziende cercano venditori qualificati ma non li trovano, e la domanda di lavoro è costantemente inferiore all’offerta. La “barriera all’entrata” per i giovani, inoltre, è sempre più legata agli investimenti in formazione. Infatti, la Sales Education Foundation (SEF) valuta che la quantità di risorse finanziarie richieste per la formazione di un singolo dirigente alle vendite è pari, negli anni, a circa 160.000 euro, determinando quel fenomeno in base al quale le aziende sono costrette ad indirizzare le loro ricerche nei confronti di candidati già formati e operativi sul mercato. Questa situazione – molto marcata in Italia – è una delle cause della “crisi di talenti” che le reti di Vendita stanno attraversando (Miller Heiman Group, report del 2018, “Reti di Vendita e Crisi di Talento“): i costi tangibili di reclutamento, assunzione e formazione associati alle nuove assunzioni e che non vanno a buon fine ammontano al 15,7%, dei quali il 10% è rappresentato dai venditori che abbandonano volontariamente la professione.

Di fronte a questo scenario, di tassi di turnover bassi e quindi di scarsa mobilità delle risorse umane, i costi connessi all’acquisizione e alla formazione delle risorse commerciali rimangono alti. Si pensi, per esempio, ai costi connessi al mancato servizio di assistenza ai clienti gestiti dai venditori che hanno “abbandonato”: le posizioni aperte per i ruoli di vendita rimangono vacanti per una media di 3,7 mesi, e ci vogliono circa 9,2 mesi prima che un neo-assunto raggiunga la piena produttività. Per coprire le posizioni vacanti senza sostenere gli alti costi per la ricerca e selezione, le piccole e medie imprese ricorrono al tradizionale “passa parola” per individuare i possibili candidati, riuscendo ad individuare un numero estremamente esiguo di candidati che, il più delle volte, non consente di individuare le risorse migliori per assicurare che la posizione, dopo poco tempo, sia nuovamente vacante.

Valerio Giunta

In Italia, com’è noto, il fulcro di gran parte della distribuzione commerciale è rappresentato dagli agenti di commercio e, relativamente agli strumenti di risparmio e investimento, dai consulenti finanziari. In totale, si tratta di circa 218.000 professionisti che intermediano il 70% del PIL nazionale, veri e propri imprenditori che dichiarano per intero tutti i redditi – senza alcuna possibilità di evasione, neanche a volerlo fare – e pagano un pesante fardello allo Stato tra imposte e contributi pensionistici obbligatori (doppi: INPS ed Enasarco). A tutti questi, peraltro, si aggiungono tutti i professionisti della vendita che alcune aziende inquadrano con contratto di lavoro subordinato (i c.d. commerciali), ma che svolgono attività di vendita qualificata.

Da anni, ormai, il saldo tra abbandoni e nuovi ingressi è ampiamente negativo, e ciò determina non solo problemi di sostenibilità finanziaria per la cassa di previdenza Enasarco, ma anche la prospettiva di ulteriori uscite dal settore. Senza un massiccio intervento pubblico sulla formazione – in affiancamento alle aziende, con garanzie e verifiche di buon utilizzo dei fondi – che ristabilisca attrattività per i giovani nel settore della Vendita, ogni piano di sviluppo del nostro paese è destinato a fallire.

* CEO di Startup Italia Srl, esperto di formazione e Delegato all’Assemblea di Enasarco

Top Management, anche nelle aziende lo spettro della parità forzosa di genere. E la meritocrazia?

Che fine sta facendo la meritocrazia in azienda e nelle professioni? Perché oggi si rende quasi imprescindibile imporre anche alle imprese il credo della parità forzosa tra genere femminile e maschile? Quali sono le tecniche di comunicazione dei media che favoriscono questo pericoloso cambio di passo?

Editoriale di Alessio Cardinale*

C’era una volta il principio di pari opportunità tra uomini e donne. Fu salutato, a suo tempo, come una giusta conquista di civiltà, grazie alla quale anche le donne avrebbero potuto godere, in tutti gli ambiti della Società Civile, delle stesse prerogative legislative e regolamentari per ambire, esattamente come gli uomini, ad un lavoro soddisfacente, ad una posizione di carriera e ad un identico trattamento economico, a tutti i livelli. Per arrivarci c’è voluto un po’ di tempo, ma l’obiettivo è stato raggiunto, ed oggi possiamo già annoverare tantissime donne in posizioni apicali e di vera leadership in economia, in politica e nei media (per non dire dei magistrati donna, che sono il 53% del totale in Italia).

Qual è il comune denominatore che ha portato queste donne ai vertici della carriera? Semplice: un mix di qualità personali, competenza, esperienza, ambizione, impegno e un pizzico di fortuna. In poche parole, lo hanno meritato. Si tratta di donne che si sono messe in gioco, si sono impegnate senza pensare neanche per un attimo di poter avere una corsia preferenziale. Di più, nessuna di loro avrebbe mai sopportato l’umiliazione derivante da una sorta di “raccomandazione di genere“.

Il principio di meritocrazia, pertanto, associato a quello delle pari opportunità, ha consentito di raggiungere questo risultato che si è consolidato negli anni, e di fronte al quale le continue rivendicazioni di genere – alimentate da una certa politica  senza troppi scrupoli e molto attenta a fidelizzare il voto femminile – dovrebbero finalmente avere un termine.

La normalità, oggi, dovrebbe essere quella di una civile competizione tra professionisti – non distinguendo affatto per il loro genere – senza che nessuno di essi vada a ricercare delle scorciatoie per ottenere dei privilegi. Invece, in Italia si sta andando pericolosamente oltre il concetto di meritocrazia. Dopo l’affermazione dei principi di pari opportunità, infatti, a molti fu chiaro che qualcosa non aveva funzionato benissimo nel tradurre gli enunciati di principio in ordini di realtà. Infatti, l’Italia si è ritrovata con una pletora di commissioni P.O. costituite in ogni anfratto della Società Civile e delle attività produttive, composte ope legis solo da donne, in evidente contrasto con la più elementare delle regole costituzionali, quella che vieta espressamente anche la discriminazione per genere. Successivamente, è arrivato il turno delle “quote rosa” in politica, e lì fu subito chiaro che il corposo universo che sostiene questo modo di intendere le relazioni uomo-donna non puntava all’affermazione delle “antiquate” pari opportunità di genere, ma ad un arbitrario e ingannevole superamento di esse, individuabile nel concetto di “Parità Forzosa”.

Cosa intendiamo per “parità forzosa”? Per renderla più simpatica, gli illuminati della (dis)informazione la chiamano “diversity“, ma il suo vero nome dovrebbe essere “shortcut” (scorciatoia). Per chiarire meglio, facciamo un esempio: se una donna studia, si impegna, prende la laurea, frequenta con successo un master, fa la giusta gavetta, mostra di essere brava ed avere “i numeri” per ricoprire un certo ruolo, e lo ottiene, questo è frutto delle pari opportunità; se una donna ottiene il ruolo solo “in quota”, e cioè in virtù della sua appartenenza al genere femminile, senza aver prima dimostrato di avere studiato, di essersi impegnata, di avere una laurea, di aver frequentato un master, di aver fatto la gavetta, di essere brava ed avere i numeri, questo è frutto della parità forzosa, ed è quello che sta succedendo in Italia anche nel mondo aziendale (in politica nazionale e regionale ormai è la norma).

In pratica, il criterio della meritocrazia, che nei secoli dalla rivoluzione industriale ha fatto andare avanti il mondo, viene sostituito dal criterio di raggiungimento della parità forzosa in tutti gli ambiti della Società Civile, nel nome di un evidente “diritto alla scorciatoia e al privilegio” di cui TUTTE le donne – anche quelle senza arte né parte – dovrebbero beneficiare. Nella pratica, ciò equivale alla creazione di una immensa categoria protetta il cui “handicap” sarebbe quello di essere donna e che, in relazione alle sue proporzioni, non può che sopraffare l’opposto genere condannato, invece, alla “normalità”.   

Gli esempi di quanto sopra si trovano a decine, ogni giorno, sui media, grazie ad un elevatissimo livello di omologazione cui l’informazione in Italia si presta volentieri sul tema. Di solito, la notizia viene data con le seguenti modalità: “…Ancora bassa la percentuale di donne tra i dirigenti d’azienda nel settore farmaceutico…”, oppure “….Solo il 12% di donne tra la classe arbitrale nel mondo del calcio…”, oppure ancora “….soltanto 10 donne su 100 sono a capo di una filiale bancaria…” (ed altre, che replicano il medesimo stile). Peraltro, anche il settore della Consulenza Finanziaria non è esente da questa modalità di narrazione. Non è raro, infatti, leggere titoli come “Consulenti finanziari, solo il 25% è donna“. In pratica, la “notizia” è che sarebbero poche, in determinati settori, le donne in posizione di rilievo, ma quali siano le cause di queste percentuali non viene minimamente detto, facendo però intendere il lettore che tutto ciò sia il risultato di una forma di discriminazione ai danni delle pari opportunità delle donne, per cui è necessario imporre il modello della “parità forzosa”, con buona pace della meritocrazia.

Capovolgendo l’esempio al maschile, e facendo riferimento a statistiche autentiche riguardanti il mondo del lavoro, avete mai letto una notizia dal titolo “Solo 15 uomini su 100 svolgono il lavoro di insegnante“? Ovvio che no, così come scommetto che nessuno di voi abbia mai letto una notizia che dica “Quasi nulla la percentuale di donne presenti nell’industria estrattiva e nei trasporti di lunga percorrenza“. Nel primo caso, nessun uomo grida allo scandalo, nè si sente discriminato; quella statistica è frutto di scelte, non di una discriminazione verso il genere maschile nel mondo della Scuola. Relativamente al secondo titolo ipotetico – quello del lavoro in miniera o su un TIR – ci si chiede perchè le donne, in termini di genere, rivendicano (legittimamente) posizioni di vertice nelle aziende, ma non si ritengono idonee a svolgere lavori pesanti. Anche questo, mi pare, è tutto frutto di una scelta.

I comunicati stampa, poi, ci danno esempi di rara bellezza stilistica su questo tipo di informazione strumentale. Lo scorso 7 Ottobre, per esempio, Askanews usciva con questa agenzia: “…In Esselunga solo il 15% dei dirigenti sono donne: in pratica su un totale di 80, le dirigenti sono appena 12. E’ quanto emerso durante la conferenza stampa di Esselunga, che ha per presidente proprio una donna, Marina Caprotti, organizzata in occasione della presentazione, tutta al maschile, del primo bilancio di sostenibilità aziendale…”. Per chi studia la materia della comunicazione – ivi compresa quella che si genuflette al politicamente corretto e agli ordini di scuderia – questo comunicato è oro colato. Peraltro, Luca Lattuada, chief Human resources office di Esselunga, ci teneva a precisare che “…Noi siamo una azienda di circa 25mila persone, che per circa il 50% è fatta da donne, ma ci sono aree dove i ruoli di responsabilità dati alle donne, come quelle degli store, sono sicuramente da migliorare. Abbiamo avviato un percorso di formazione e sviluppo della leadership femminile per fare crescere questa quota“.

Ebbene, chi ha pronunciato questo virgolettato –e stiamo parlando di un top manager, mica poco – si è semplicemente limitato a ripetere senza riflettere il mantra della parità forzosa e delle quote (rosa), ma non sa neanche il motivo per cui si renderebbe necessario un “miglioramento”. Del resto, come potrebbe mai spiegare la questione, se non essendo costretto ad affermare la priorità di assegnare ruoli decisionali alle donne solo per la circostanza di essere tali, in barba al millenario principio di meritocrazia che ha sempre dominato le dinamiche ed il successo delle aziende?

C’è da dire che nel 2019 Esselunga ha registrato un aumento di donne nei ruoli chiave pari al 17% rispetto all’anno precedente. A questo punto, verrebbe da chiedersi se queste manager, quel ruolo, lo abbiano meritato davvero, oppure lo abbiano ricevuto in base al criterio della parità forzosa, e cioè per via della propria appartenenza al genere femminile. “Questo non è un cambiamento che si fa nel breve” – ha sottolineato Lattuada – “In questo percorso di cambiamento si inseriscono iniziative che prevedono workshop aziendali e interaziendali per superare gli stereotipi e creare organizzazioni più inclusive…”.

Forse la meritocrazia in azienda, secondo il top manager Lattuada, è diventata un vecchio stereotipo ormai superato e privo di valore? Così, per capire.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, dice la nostra Costituzione all’art. 3. Forse è il caso che questo concetto venga fatto proprio dai CdA delle grandi aziende, affinchè se ne ricordino prima di far celebrare l’elogio della parità forzosa ai propri top manager.

* Direttore editoriale di Patrimoni&Finanza