Alla morte dell’ex marito, la ex moglie titolare di un assegno divorzile può chiedere un assegno a carico dell’eredità, ma solo se è in stato di bisogno. Il diritto di abitazione della casa familiare non si elimina automaticamente.
Di Massimo Bonaventura
In materia di matrimonio, “finchè morte non vi separi” è oggi una formula ritenuta sempre più obsoleta per via delle impietose statistiche sui destini delle coppie in Italia: più di un terzo di esse – ivi comprese quelle ben patrimonializzate – è destinato ineluttabilmente al divorzio che, come tutti i fatti umani, muta i suoi effetti giuridici allorquando l’ex coniuge oberato dell’assegno di mantenimento – ossia l’ex marito – viene a mancare. Infatti, con la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio o della unione civile, ciascun coniuge perde i diritti successori nei confronti dell’ex coniuge che muore. Tuttavia, l’art. 9 bis della l. n. 898/1970 prevede che il coniuge divorziato superstite, già titolare di un assegno divorzile, possa chiedere al tribunale di stabilire un assegno periodico a carico dell’eredità purché si trovi in stato di bisogno.
Pertanto, nel caso in cui entrambi gli ex coniugi abbiano vissuto nel benessere economico e nell’agiatezza anche successivamente al divorzio, si pone un interrogativo profondo sulla effettiva applicazione di questa previsione normativa. Questo perché, innanzitutto, l’assegno da chiedere giudizialmente a carico dell’eredità non è una semplice continuazione di quello che la titolare percepiva mentre l’ex marito era in vita, ma costituisce un diritto nuovo ed autonomo, che poggia la sua ratio su basi differenti da quelle che sostengono la natura dell’assegno divorzile. Per questo motivo, è necessario un nuovo pronunciamento giudiziale per avere riconosciuta questa misura a carico degli altri eredi e, soprattutto, la sua entità. Sarà il tribunale ad accertare discrezionalmente la sussistenza dei suoi presupposti, e cioè che:
a) l’ex coniuge divorziato sia in stato di bisogno,
b) non sia convolato a nozze dopo il divorzio,
c) la precedente liquidazione dell’assegno divorzile non sia avvenuta in unica soluzione. In quest’ultima ipotesi, infatti, cessa per patto espresso ogni forma di tutela economica del “coniuge debole”.
Relativamente al presupposto dello stato di bisogno, esso va interpretato in maniera restrittiva, di modo che l’assegno a carico dell’eredità debba essere attribuito solo quando la ex moglie divorziata non è in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze minime di vita; questa ultime, a loro volta, vanno analizzate secondo la sua posizione sociale, per cui il giudice dovrà condurre una analisi dei bisogni minimi – non del tenore di vita! – della ex moglie superstite avendo rispetto “delle sue essenziali e primarie esigenze esistenziali, che non possono rimanere insoddisfatte se non a costo di un deterioramento fisico o psichico” (Cass. civ., 17 luglio 1992, n. 8687). Questo, ovviamente, se le risorse economiche e patrimoniali già possedute dal coniuge divorziato superstite non consentano di soddisfare in totale autonomia tali esigenze.
Relativamente alla quantificazione di tale assegno, i parametri utilizzabili devono ricomprendere altri fattori, come l’importo dell’assegno di divorzio percepito finchè l’ex marito era in vita, l’eventuale pensione di reversibilità, l’entità del patrimonio lasciato agli eredi, il numero di questi ultimi e, soprattutto, le loro condizioni economiche. In particolare, il limite massimo dell’assegno di cui potrebbero essere gravati gli eredi è costituito dall’importo dell’assegno divorzile di cui era titolare il coniuge divorziato superstite, in modo tale da evitare che qualche giudice “creativo” possa stabilire una somma maggiore rispetto a quella di cui era gravato il de cuius. Infine, l’assegno graverà solo sulla quota disponibile, cioè su quella parte di patrimonio di cui il defunto poteva disporre liberamente per testamento, tutelando così quella parte di eredità che la legge necessariamente riserva ai legittimari.
Naturalmente, il diritto della ex moglie divorziata sarà tanto minore quanto più numerosi sono gli eredi e quanto più stretti i loro vincoli di parentela con il defunto.
Relativamente alla sorte della casa familiare assegnata dal tribunale alla ex moglie (avviene nel 92% circa dei casi), c’è da dire che Il diritto di abitazione non può essere eliminato automaticamente alla morte dell’ex marito, poiché si tratta di un diritto personale di godimento concesso alla ex moglie in funzione del “vincolo di destinazione collegato all’interesse dei figli”; i quali nel 95% dei casi vengono collocati dai tribunali con la madre. Di conseguenza, tale diritto si estingue soltanto per il venir meno dei presupposti che ne hanno determinato l’assegnazione, e cioè la morte della ex moglie assegnataria, il compimento della maggiore età dei figli o il conseguimento da parte degli stessi dell’indipendenza economica, il trasferimento ad altra abitazione, il passaggio a nuove nozze o ad una convivenza more uxorio della ex moglie oppure, infine, la sua mancata utilizzazione (Cassazione n. 772/2018).
Tale previsione è valida anche se la casa coniugale assegnata “per cieca prassi” dai tribunali alla ex moglie separata/divorziata è interamente di proprietà dell’ex marito e, una volta venuto a mancare quest’ultimo, altri soggetti (eredi non legittimari, terzi acquirenti) ne reclamano la proprietà e il possesso per successione o per titolo di proprietà. Infatti, accade spesso che la casa familiare, precedentemente assegnata dal tribunale alla ex moglie per via della presenza dei figli, rimanga alla stessa anche dopo il divorzio ed anche quando i figli, nel frattempo, ne sono usciti perchè diventati economicamente autonomi. Ebbene, non godendo più la ex moglie divorziata dei diritti successori, che fine fa il diritto di abitazione nel caso in cui il de cuius abbia lasciato in eredità a terzi proprio quella casa, utilizzando la quota disponibile? Quest’ultima, in assenza di figli è pari fino al 100% (in assenza di genitori superstiti) mentre in loro presenza è uguale al 50% del patrimonio (con un solo figlio) o al 33,3% (con due o più figli). Ebbene, non è raro che, quando l’ex marito divorziato possiede un ingente patrimonio, venda mentre è ancora in vita la proprietà della casa familiare a terzi (di solito un parente stretto) oppure, se esistono figli legittimari, attribuisce a questi per via testamentaria altri beni, diversi dalla casa familiare, fino a concorrenza della quota “di riserva”, ossia della quota da attribuire necessariamente agli eredi legittimi.
In casi come questi, è pacifico che il diritto di abitazione della ex moglie si estingua e che la casa coniugale debba essere lasciata ai nuovi proprietari. Sempre che il tribunale non ci metta una pezza, e scateni l’inferno.