Settembre 11, 2025
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Grandi patrimoni e ricchi divorzi: che sorte hanno assegno divorzile e casa coniugale alla morte dell’ex?

Alla morte dell’ex marito, la ex moglie titolare di un assegno divorzile può chiedere un assegno a carico dell’eredità, ma solo se è in stato di bisogno. Il diritto di abitazione della casa familiare non si elimina automaticamente.

Di Massimo Bonaventura

In materia di matrimonio, “finchè morte non vi separi” è oggi una formula ritenuta sempre più obsoleta per via delle impietose statistiche sui destini delle coppie in Italia: più di un terzo di esse – ivi comprese quelle ben patrimonializzate – è destinato ineluttabilmente al divorzio che, come tutti i fatti umani, muta i suoi effetti giuridici allorquando l’ex coniuge oberato dell’assegno di mantenimento – ossia l’ex marito – viene a mancare.  Infatti, con la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio o della unione civile, ciascun coniuge perde i diritti successori nei confronti dell’ex coniuge che muore. Tuttavia, l’art. 9 bis della l. n. 898/1970 prevede che il coniuge divorziato superstite, già titolare di un assegno divorzile, possa chiedere al tribunale di stabilire un assegno periodico a carico dell’eredità purché si trovi in stato di bisogno.

Pertanto, nel caso in cui entrambi gli ex coniugi abbiano vissuto nel benessere economico e nell’agiatezza anche successivamente al divorzio, si pone un interrogativo profondo sulla effettiva applicazione di questa previsione normativa. Questo perché, innanzitutto, l’assegno da chiedere giudizialmente a carico dell’eredità non è una semplice continuazione di quello che la titolare percepiva mentre l’ex marito era in vita, ma costituisce un diritto nuovo ed autonomo, che poggia la sua ratio su basi differenti da quelle che sostengono la natura dell’assegno divorzile. Per questo motivo, è necessario un nuovo pronunciamento giudiziale per avere riconosciuta questa misura a carico degli altri eredi e, soprattutto, la sua entità. Sarà il tribunale ad accertare discrezionalmente la sussistenza dei suoi presupposti, e cioè che:
a) l’ex coniuge divorziato sia in stato di bisogno,
b) non sia convolato a nozze dopo il divorzio,
c) la precedente liquidazione dell’assegno divorzile non sia avvenuta  in unica soluzione. In quest’ultima ipotesi, infatti, cessa per patto espresso ogni forma di tutela economica del “coniuge debole”.

Relativamente al presupposto dello stato di bisogno, esso va interpretato in maniera restrittiva, di modo che l’assegno a carico dell’eredità debba essere attribuito solo quando la ex moglie divorziata non è in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze minime di vita; questa ultime, a loro volta, vanno analizzate secondo la sua posizione sociale, per cui il giudice dovrà condurre una analisi dei bisogni minimi – non del tenore di vita! – della ex moglie superstite avendo rispetto “delle sue essenziali e primarie esigenze esistenziali, che non possono rimanere insoddisfatte se non a costo di un deterioramento fisico o psichico” (Cass. civ., 17 luglio 1992, n. 8687). Questo, ovviamente, se le risorse economiche e patrimoniali già possedute dal coniuge divorziato superstite non consentano di soddisfare in totale autonomia tali esigenze.

Relativamente alla quantificazione di tale assegno, i parametri utilizzabili devono ricomprendere altri fattori, come l’importo dell’assegno di divorzio percepito finchè l’ex marito era in vita, l’eventuale pensione di reversibilità, l’entità del patrimonio lasciato agli eredi, il numero di questi ultimi e, soprattutto, le loro condizioni economiche. In particolare, il limite massimo dell’assegno di cui potrebbero essere gravati gli eredi è costituito dall’importo dell’assegno divorzile di cui era titolare il coniuge divorziato superstite, in modo tale da evitare che qualche giudice “creativo” possa stabilire una somma maggiore rispetto a quella di cui era gravato il de cuius. Infine, l’assegno graverà solo sulla quota disponibile, cioè su quella parte di patrimonio di cui il defunto poteva disporre liberamente per testamento, tutelando così quella parte di eredità che la legge necessariamente riserva ai legittimari.

Naturalmente, il diritto della ex moglie divorziata sarà tanto minore quanto più numerosi sono gli eredi e quanto più stretti i loro vincoli di parentela con il defunto.

Relativamente alla sorte della casa familiare assegnata dal tribunale alla ex moglie (avviene nel 92% circa dei casi), c’è da dire che Il diritto di abitazione non può essere eliminato automaticamente alla morte dell’ex marito, poiché si tratta di un diritto personale di godimento concesso alla ex moglie in funzione del “vincolo di destinazione collegato all’interesse dei figli”; i quali nel 95% dei casi vengono collocati dai tribunali con la madre. Di conseguenza, tale diritto si estingue soltanto per il venir meno dei presupposti che ne hanno determinato l’assegnazione, e cioè la morte della ex moglie assegnataria, il compimento della maggiore età dei figli o il conseguimento da parte degli stessi dell’indipendenza economica, il trasferimento ad altra abitazione, il passaggio a nuove nozze o ad una convivenza more uxorio della ex moglie oppure, infine, la sua mancata utilizzazione (Cassazione n. 772/2018).

Tale previsione è valida anche se la casa coniugale assegnata “per cieca prassi” dai tribunali alla ex moglie separata/divorziata è interamente di proprietà dell’ex marito e, una volta venuto a mancare quest’ultimo, altri soggetti (eredi non legittimari, terzi acquirenti) ne reclamano la proprietà e il possesso per successione o per titolo di proprietà. Infatti, accade spesso che la casa familiare, precedentemente assegnata dal tribunale alla ex moglie per via della presenza dei figli, rimanga alla stessa anche dopo il divorzio ed anche quando i figli, nel frattempo, ne sono usciti perchè diventati economicamente autonomi. Ebbene, non godendo più la ex moglie divorziata dei diritti successori, che fine fa il diritto di abitazione nel caso in cui il de cuius abbia lasciato in eredità a terzi proprio quella casa, utilizzando la quota disponibile? Quest’ultima, in assenza di figli è pari fino al 100% (in assenza di genitori superstiti) mentre in loro presenza è uguale al 50% del patrimonio (con un solo figlio) o al 33,3% (con due o più figli). Ebbene, non è raro che, quando l’ex marito divorziato possiede un ingente patrimonio, venda mentre è ancora in vita la proprietà della casa familiare a terzi (di solito un parente stretto) oppure, se esistono figli legittimari, attribuisce a questi per via testamentaria altri beni, diversi dalla casa familiare, fino a concorrenza della quota “di riserva”, ossia della quota da attribuire necessariamente agli eredi legittimi.

In casi come questi, è pacifico che il diritto di abitazione della ex moglie si estingua e che la casa coniugale debba essere lasciata ai nuovi proprietari. Sempre che il tribunale non ci metta una pezza, e scateni l’inferno.

“Morto io, morti tutti”: gli italiani non amano la pianificazione successoria

Nonostante i divorzi in aumento e gli over 54 in crescita sostenuta, in Italia c’è una basso ricorso agli strumenti per la gestione del passaggio generazionale.

In Italia c’è una bassa attitudine alla pianificazione successoria rispetto ad altri Paesi. Infatti, è stato stimato che solamente l’8% della popolazione italiana effettua una pianificazione successoria dei propri beni, mentre in Gran Bretagna, ad esempio, questa percentuale sale all’80%. Eppure, negli ultimi dieci anni l’età media dei componenti delle famiglie è aumentata e, secondo l’ISTAT, la fascia di popolazione di età superiore ai 54 anni rappresenta ad oggi circa il 36% degli individui, mentre nel 2007 era circa il 27%. In più, nello stesso periodo circa il 30% dei matrimoni si è concluso con la separazione e circa il 15% con il divorzio.

Dal contesto descritto finora, è possibile riassumere che i rapporti familiari sono sempre più articolati e complessi da gestire, e che c’è una basso ricorso agli strumenti per la gestione del passaggio generazionale. Oggi più che mai, pertanto, c’è un grande spazio di consulenza professionale che porti avanti l’importanza di una corretta pianificazione successoria e la conseguente necessità di un supporto specialistico per la gestione del passaggio generazionale del proprio patrimonio. Pianificare correttamente (e in tempo) la futura trasmissione del patrimonio, infatti, consente di evitare una eccessiva frammentazione del proprio patrimonio immobiliare e aziendale in presenza di più eredi legittimi generati da diversi matrimoni e, conseguentemente, di generare eventuali liti tra gli eredi. Inoltre, la pianificazione patrimoniale consente di tutelare e proteggere persone che non sarebbero tutelate dalla legge in caso di premorienza in assenza di testamento (ad esempio conviventi more uxorio).

Su tutto, in ogni caso, domina il processo di Successione, che è l’evento attraverso il quale più soggetti subentrano in tutti i rapporti giuridici in cui era titolare un’altra persona (c.d. de cuius). Gli eredi prendono il posto nei rapporti giuridici di carattere patrimoniale attivi e passivi facenti capo al defunto tranne per quanto riguarda i diritti personali che, come tali, si estinguono con la morte (come ad esempio l’usufrutto, il diritto di abitazione, la rendita vitalizia). La successione può essere di due tipi: legittima o testamentaria. La successione si definisce legittima quando l’eredità si devolve per legge, quindi non vi è esistenza di un testamento oppure, pur essendoci, è stato annullato a seguito di vizi presenti sullo stesso. Diversamente, la successione si definisce testamentaria (o testata) quando l’eredità viene devoluta a seguito di un testamento, stilato dal de cuius.

Cosa prevede la legge italiana in merito alle imposte di successione, e come si posiziona il nostro Paese in un confronto internazionale? In base alla dichiarazione di successione presentata all’Agenzia delle Entrate competente, gli eredi sono obbligati in solido alla liquidazione delle corrispondenti imposte:
– 4% (con una franchigia di 1.000.000 euro) per coniuge e parenti in linea retta (discendenti e ascendenti);
– 6% (con una franchigia di 100.000 euro) per fratelli e sorelle;
– 6% (senza franchigia) per altri parenti fino al quarto grado o affini fino al terzo grado;
– 8% (senza franchigia) per altri senza alcun grado di parentela (compresi conviventi more uxorio).

Se a beneficiare del trasferimento è una persona portatrice di handicap grave, riconosciuta tale ai sensi della legge n. 104/1992, l’imposta si applica sulla parte del valore della quota che supera 1.500.000 euro. Le ONLUS, ODV (organizzazioni di volontariato) e APS (associazioni di promozione sociale) sono esenti dal pagamento di imposte di successione. La legge 112/2016 sul «dopo di noi», riconosce la non applicazione delle imposte di successione sui beni gravati da un vincolo di destinazione in favore di una persona portatrice di handicap grave: è possibile istituire, attraverso il testamento, il “Trust dopo di noi” che prevede una serie di requisiti tra cui la finalità esclusiva dell’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità grave.

Ma quali sono le aliquote previste dagli altri Paesi? Abbiamo visto come in Italia le imposte oscillano tra il 4% e l’8% a seconda del grado di parentela tra eredi e de cuius. Negli altri Paesi però le imposte sono ben più elevate. Infatti, si arriva ad applicare – in alcuni casi – anche una tassazione maggiore del 50%. Andando nello specifico, in Germania ad esempio le imposte di successione oscillano tra il 7 ed il 50%. In Gran Bretagna l’Inheritance Tax Act applica una tassazione del 40%, mentre in Francia l’aliquota varia dal 5 al 60%.

Consulenza patrimoniale

Come viene calcolato l’asse ereditario? L’asse ereditario si ottiene considerando il patrimonio complessivo del de cuius, sottraendo i debiti e sommando il valore, al momento dell’apertura della successione, delle donazioni (dirette e indirette) fatte in vita. All’interno del patrimonio complessivo rientra dunque non solo la componente finanziaria ma anche il valore del patrimonio immobiliare (pro-quota), eventuali quote di partecipazioni societarie, automobili, barche a vela, opere d’arte, collezioni di orologi etc. Il patrimonio del de cuius è anche detto “relictum”. Al relictum vanno poi sottratte le eventuali passività (debitum) ed aggiunte le donazioni fatte (donatum), per arrivare ad una rappresentazione definitiva dell’asse ereditario.

Ai fini della determinazione dell’asse ereditario, è necessaria anche la definizione del regime patrimoniale dei coniugi, ove esistenti. Dal vincolo del matrimonio discendono infatti conseguenze di fondamentale rilievo sul piano patrimoniale e successorio.

È possibile distinguere due possibili convenzioni matrimoniali secondo il codice civile:
a) il regime di Comunione legale, nel quale i beni acquistati durante il matrimonio, insieme oppure individualmente, entrano a far parte di un unico patrimonio comune ai due coniugi i quali, indipendentemente dall’apporto reale di ognuno, ne sono proprietari al 50%; sono esclusi dalla comunione i beni acquistati precedentemente al matrimonio e i beni personali acquistati da un coniuge per una successione o donazione e quelli acquistati reinvestendo il ricavato della vendita di beni personali.  
b) il regime di Separazione dei beni: ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio e ne mantiene il godimento e l’amministrazione esclusiva. I coniugi mantengono invariati i loro patrimoni personali, sia per i beni acquistati prima del matrimonio sia durante la vita matrimoniale.

In base al primo regime (Comunione), in caso di morte di uno dei genitori la successione imputa il 50% al coniuge superstite e l’altro 50% a tutti i componenti superstiti, coniuge compreso, in parti uguali (salvo diverso utilizzo della quota disponibile da parte del testatore). In base al regime della separazione dei beni, invece, nel classico esempio di famiglia composta da quattro persone (due genitori e due figli) la morte di uno dei genitori fa aprire una successione che imputa il 33% a tutti i componenti superstiti, coniuge compreso (salvo diverso utilizzo della quota disponibile da parte del testatore).

Patrimonio personale e assegno divorzile: la Cassazione risolve un problema e ne crea altri dieci

Interpellata per dirimere la questione della variegata natura dell’assegno divorzile, la Cassazione a Sezioni Unite ha perso l’ennesima occasione per imporre ai tribunali di merito una soluzione definitiva, ponendo invece le basi per una ulteriore crescita del contenzioso patrimoniale tra ex coniugi.

Di Alessio Cardinale

L’Ordinamento giuridico italiano ha disegnato, di anno in anno, un complesso di norme dove ogni strumento di protezione patrimoniale ha un suo ambito di applicazione e, a seconda degli strumenti utilizzati, offre un diverso livello di protezione a ciascun componente della famiglia, generalmente nei confronti dei terzi. In questo particolare ambito, lo status di “debitore” ha una doppia origine, e va dal caso tipico di colui che contrae un debito per acquistare un bene (casa, auto), a quello di chi diventa debitore non per sua scelta, ma in forza di una sentenza di risarcimento a suo carico o, anche più spesso, per via di un divorzio, a causa del quale gli ex coniugi diventano vicendevolmente “terzi”, con effetti durevoli e di segno opposto sul proprio patrimonio.

Relativamente agli effetti derivanti dal divorzio, nel corso del 2021 la giurisprudenza di legittimità, in un rapido susseguirsi di decisioni dalla portata storica, ha aggiornato i criteri e le modalità ai quali la magistratura di merito dovrà necessariamente uniformarsi nel gravare uno dei coniugi – notoriamente l’uomo, salvo rarissime e quasi introvabili (nella giurisprudenza) eccezioni – dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge. Infatti, nel mese di Maggio 2021 la Cassazione (ordinanza n. 28995/2020) sollecitava l’intervento delle Sezioni Unite per chiarire se l’estinzione del diritto all’assegno fosse automatica in caso di nuova convivenza del suo percettore, spinta dal fatto che, sebbene la Suprema Corte avesse già “virato” dal folle principio del mantenimento del tenore di vita, nei tribunali di merito si era continuato a statuire secondo la regola che chi avesse iniziato una convivenza avrebbe perduto il diritto all’assegno di divorzio, applicando una modalità che di fatto rispondeva ancora alla decaduta prassi di collegare l’assegno al tenore di vita.

Pertanto, occorreva un aggiornamento della disciplina, e l’occasione è scaturita da un divorzio incardinato nel distretto di Corte di Appello di Venezia, che respingeva la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile proposta da una ricorrente sulla scorta del fatto che la stessa avesse instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno, da cui aveva avuto anche una figlia. E così, la Cassazione è intervenuta a Sezioni Unite (sentenza n. 32198/2021), declinando i principi a cui i tribunali di merito dovranno attenersi. In particolare, se l’assegno è dovuto in funzione “assistenziale” – ossia per le esigenze di puro sostentamento del coniuge più debole – la convivenza ne determina automaticamente l’estinzione; se la finalità è di tipo “compensativo“, lo status di convivente è irrilevante di fronte alla circostanza che il coniuge “debole” abbia sacrificato la propria vita per far fronte alla gestione della famiglia, contribuendo così indirettamente alla creazione del patrimonio dell’altro coniuge e non perdendo, quindi, il diritto alla compensazione economica rappresentata dall’erogazione di un assegno per un periodo di tempo circoscritto o la sua “capitalizzazione”.

La Corte, però, anche in questa occasione ha peccato di quella tipica indeterminatezza che, come un virus inarrestabile, si trasmette poi ineluttabilmente alle decisioni dei tribunali di merito, per i quali sarà molto difficile adesso determinare l’entità proporzionale della “compensazione” senza commettere errori o senza dover applicare nuove e arbitrarie prassi – molto comode, però – con cui regolare sbrigativamente le questioni. Tutto ciò, naturalmente, con l’inevitabile seguito di ricorsi giudiziali – che tra qualche anno potrebbero richiedere un ulteriore richiamo alle Sezioni Unite – che difficilmente riceveranno una risposta adeguata.

Ne cito alcune, solo a titolo di esempio:
– L’assegno divorzile di natura compensativa potrebbe durare anche tutta la vita?
– Potrà essere aggiornato o annullato, in base alle migliorate condizioni economiche del coniuge percettore?
– Se sì, con quali modalità ed in base a quali parametri?
– Se il matrimonio è durato pochissimi anni, durante i quali il coniuge c.d. debole ha comunque sacrificato il proprio tempo alla gestione di casa e famiglia, in che modo potrà essere determinato con esattezza il periodo temporale di corresponsione dell’assegno?  
– Se il presupposto dell’assegno compensativo è l’aver contribuito, con il proprio sacrificio, alla creazione di patrimonio da parte dell’altro coniuge, qual è la forza misteriosa che impedisce di misurare con esattezza l’entità di tale contributo, dal momento che il patrimonio creato ex novo è facilmente misurabile?
– Esiste un coefficiente, o una scala di coefficienti, in base ai quali determinare con trasparenza ed omogeneità l’esatta misura del contributo apportato dal coniuge debole alla creazione di ricchezza?
– I tribunali adotteranno un criterio uguale in tutto il Paese, oppure seguiteranno ad applicare decisioni differenti a seconda del distretto di Corte di Appello in cui ricadono o, come spesso accade, a seconda del magistrato?

La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, pertanto, solo apparentemente ha rimesso le cose al loro posto. In realtà – com’è tipico costume della Giustizia Civile italiana in tema di famiglia – essa ha risolto un problema e ne ha creato altri dieci, soprattutto per i coniugi ben patrimonializzati, che potrebbero essere gravati, da oggi in poi, di un assegno divorzile di proporzioni inusitate e durata indeterminata (o determinata in modo frettoloso e inesatto). Per non citare il fatto che una tale pronuncia amplifica ancora di più le differenze – ormai inaccettabili dal punto di vista sociale – tra le tutele prestate dall’Ordinamento alle coppie unite in matrimonio e quelle negate alle coppie sorrette da un solido e durevole rapporto di convivenza che, spesso, si rivela più stabile di quello delle coppie sposate.

I più maliziosi potrebbero sostenere che non è compito della Cassazione entrare nel merito di questioni numeriche che, invece, dovranno essere affrontate nei tribunali civili. L’osservazione è corretta, ma andrebbe accompagnata da un’altra: nessuno avrebbe potuto impedire alla Cassazione – soprattutto a Sezioni Unite – di statuire, rinviando ad altri organi tecnici, l’istituzione di un documento vincolante per tutti i tribunali che potesse rispondere alle domande sopra evidenziate e ridurre, così, l’ulteriore contenzioso che certamente scaturirà dall’applicazione di principi così indeterminati. Invece, l’unica accortezza usata dalle Sezioni Unite è stata quella di decidere che l’ex coniuge, in virtù del suo nuovo progetto di vita derivante dalla convivenza stabile e dal principio di auto-responsabilità, non potrà più pretendere di ricevere l’eventuale somma riferita alla componente assistenziale dell’assegno.

Questo aspetto, almeno, non lo hanno dimenticato. In “compensazione”, hanno lasciato sul tavolo tutti gli altri.

La versatilità del Trust nella consulenza patrimoniale: formazione di ricchezza, azienda e divorzio

Il Trust somiglia ad una sorta di “polizza vita patrimoniale”, e rivela grande versatilità nell’assicurare la trasmissibilità del patrimonio familiare ed aziendale alle generazioni successive, anche in caso di divorzio.

Qual è l’elemento fondamentale che qualifica – e fa sentire – un bene come “nostro”? Il possesso ed il godimento, naturalmente. E chi ci assicura che quel bene, o complesso di beni, verrà trasmesso intatto ai nostri discendenti? Nessuno, volendo considerare le variabili esogene (congiuntura economica, concorrenza, pandemie, pressione fiscale etc) che non ricadono sotto il nostro diretto controllo. Spesso, poi, siamo noi stessi ad aggiungere una variabile – questa volta endogena – che contribuisce non poco alla distruzione di un patrimonio, e cioè la nostra cattiva gestione, o gli errori compiuti in buona fede ma “letali”.  

Non potendo assicurare la sua infallibilità, quindi, sembra utile “assicurare” il patrimonio mobiliare, immobiliare e aziendale per mezzo di uno strumento che somiglia ad una sorta di “polizza vita patrimoniale”, ma che rivela una maggiore elasticità e grado di inclusione patrimoniale rispetto alla semplice polizza vita, nonostante preveda uno spossessamento del titolo di proprietà (non della fruizione) dei beni conferiti. Stiamo parlando del Trust, istituto giuridico non disciplinato all’interno del codice civile – ma presente nel nostro Ordinamento dal 1989, in occasione della ratifica della Convenzione de l’Aja (legge n. 364/89) – che si rivela molto più efficace di altri strumenti di tutela del patrimonio (come il fondo patrimoniale).

Difesa del patrimonio familiare

In un trust, una o più persone (i c.d. disponenti) trasferiscono i propri beni nella disponibilità di un Trustee, ossia un soggetto esterno, il quale assume l’obbligo di  amministrarli nell’interesse di alcuni beneficiari individuati dai disponenti per un fine determinato. Inoltre, l’atto costitutivo può prevedere la presenza di un Guardiano, che è una sorta di controllore, nell’interesse del disponente, degli atti del trustee. Si tratta, pertanto, di uno strumento giuridico che consente di affrontare diverse esigenze nei più svariati campi del diritto e del patrimonio, sia familiare che aziendale, e può essere utilmente impiegato per affrontare le problematiche poste dalla famiglia di diritto così come da quella di fatto.

Patrimonio familiare

Il Trust, inoltre, può trovare applicazioni volte alla tutela di particolari soggetti all’interno della famiglia, costituendo un’altra forma di atto di destinazione, sebbene si differenzi da quest’ultimo per via della sua natura di atto di spossessamento. Viene usato anche per trasmettere la ricchezza familiare e per pianificare la trasmissione della leadership in campo imprenditoriale alla generazione successiva, e trova particolare applicazione anche nel campo delle garanzie patrimoniali e della segregazione di partecipazioni societarie.

Nella pratica, lo strumento del trust rivela tutta la sua efficacia in relazione alla sua capacità di contenere e segregare beni di diversa natura: immobili, conti correnti, depositi, investimenti mobiliari, quote societarie e partecipazioni azionarie, e persino beni mobili soggetti a registrazione come auto e motoveicoli, navi, aerei, auto d’epoca e opere d’arte.

In relazione al conferimento di beni immobiliari, vale la pena mettere a confronto il trust con una società di persone, per verificarne l’efficacia. La società di persone, all’atto del conferimento di beni immobili e di diritti su di essi, sconta una imposta piuttosto elevata, pari al 9% del valore venale di perizia, salva l’applicazione delle aliquote differenziate a seconda della natura dei beni conferiti. La base imponibile è costituita dal valore venale dei beni conferiti al netto delle passività (mutui o altri gravami) accollate alla società conferitaria. Il trust, invece, all’atto del conferimento sconta una imposta di registro minima in forma fissa, dal momento che l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate sulla natura donativa del conferimento in un trust è stata sconfessata ripetutamente dalla Corte di Cassazione. Infatti, nella costituzione di un trust, la dotazione dei beni che vengono conferiti in esso è un atto fiscalmente neutro, poichè non determina  un passaggio di ricchezza da un soggetto all’altro. Nel trust, in sintesi, questo fondamentale presupposto dell’imposizione tributaria non avviene né con l’atto istitutivo né con il conferimento dei beni al trustee, il quale non beneficia di un incremento di ricchezza: egli acquista solo formalmente la titolarità dei beni, che dovranno essere amministrati e preservati al meglio per poi essere trasferiti ai beneficiari finali. Solo in quel momento l’imposta potrà essere applicata, poiché la finalità di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito, nonchè l’assenza di personalità giuridica del trust, fanno sì che esso possa ritenersi come un qualunque soggetto passivo di imposta.

Sul tema, la Corte di Cassazione è intervenuta più volte sia in passato che recentemente (11/03/2020 n.7003, 29/05/2020 n.10256, 24/12/2020 n.29507, 12/01/2021 n.224, 16/02/2021 n.3986), e nonostante ciò l’Agenzia delle Entrate si ostina ancora ad applicare la maggiore imposta derivante da successione e donazione, salvo poi essere sconfessata dalla giurisdizione tributaria.

Naturalmente, anche in relazione al trust è necessario anteporre gli stessi concetti di credibilità e idoneità di chi voglia realmente tutelare e proteggere i propri familiari, poiché questo strumento, per quanto più difficile da “smontare” in un’aula di tribunale, non può essere interpretato come una “cura” immediata (e maldestra) per risolvere una imminente azione dei creditori o dello Stato. Infatti, l’utilizzo più tipico del trust, in passato, è stato quello di creare un contenitore per proteggere il proprio patrimonio da eventuali creditori e dalle imposte. Il supposto spossessamento dei beni, in linea teorica, costituisce una barriera anche per l’amministrazione finanziaria, e nessuno potrebbe venire a  pignorare dei beni che non sono più nella disponibilità del debitore.

In teoria, appunto.

Nella realtà “i trust istituiti e gestiti al fine di realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni e dei relativi redditi, non sono considerati validamente operanti” (Commissione Tributaria di Trento, sent. n. 88 del 26 maggio 2017). Pertanto, se il trustee non esercita in piena autonomia il proprio potere sui beni affidatigli, sul trust penderà il dubbio di validità e, più che “auto-dichiarato”, esso verrà rubricato come fittizio.

Lo strumento del trust rivelerebbe ancora di più la sua efficacia in caso di separazione o divorzio, data la sua natura di “neutralità e terzietà volontaria” che ne farebbe un meraviglioso mezzo di composizione immediata delle controversie, soprattutto economiche, in ambito separativo. Infatti, è nella natura stessa del trust la possibilità di coordinare le clausole in base a tutti i possibili mutamenti del nucleo familiare nel tempo e, sebbene in Italia non sia possibile perfezionare dei patti prematrimoniali, è lecito inserire nell’atto costitutivo di un trust la previsione che il trustee si debba attenere anche a quanto stabilito da nuovi e futuri accordi matrimoniali, estendendo quindi il suo raggio d’azione anche a quegli eventi straordinari (per quanto frequenti), come la separazione coniugale, che potrebbero arrecare disagio al lavoro del trustee effettuato nell’interesse dei beneficiari.

Tutela del patrimonio: in caso di divorzio è fondamentale la scelta del regime patrimoniale della coppia unita

Il regime di separazione dei beni scelto all’atto del matrimonio rappresenta una prima forma elementare di protezione del patrimonio familiare anche in caso di separazione.

Com’è noto, in caso di separazione l’Ordinamento garantisce l’esecuzione di tutti i provvedimenti disposti dal giudice nell’interesse della prole, e cioè l’assegnazione della casa coniugale, i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore e la quantificazione degli obblighi di mantenimento.

Come abbiamo già scritto a proposito della casa coniugale, tali provvedimenti, spesso presi senza il necessario approfondimento, sono alla base della distruzione di patrimoni anche di notevole entità, a tutto svantaggio delle generazioni successive. Relativamente ai diritti successori, infatti, il coniuge separato è equiparato a tutti gli effetti a quello non separato: tranne che in caso di addebito della separazione, egli godrà della medesima posizione che rivestiva in presenza del matrimonio con convivenza. Tale circostanza è amplificata dal lungo intervallo temporale che intercorre tra la redistribuzione (spesso frettolosa, per via giudiziale) del patrimonio familiare in seguito ad una separazione, ed il passaggio del medesimo patrimonio (o di ciò che rimane), alle generazioni successive, una volta intervenuto il divorzio; tale intervallo di tempo può determinare risultati ampiamente differenti a seconda dell’assetto patrimoniale che è stato dato dalla coppia all’origine.

In generale, i beni acquistati prima delle nozze e quelli personali restano di esclusiva proprietà del coniuge intestatario. La scelta del regime patrimoniale da adottare va fatta all’atto del matrimonio; in assenza di scelte, vale automaticamente il regime della comunione legale, e qualunque esclusione di beni acquistati durante la comunione può essere convenuta solo se:

  • il denaro impiegato per l’acquisto sia di esclusiva titolarità di uno dei coniugi fin dal periodo antecedente al matrimonio (e quindi la sua provenienza deve essere anche tracciabile),
  • il denaro era frutto di successione o di donazione,
  • il denaro era derivante dalla vendita di beni di proprietà del coniuge (Cassazione Sezioni Unite, sentenza n. 22755 del 28 ottobre 2009).

Di conseguenza, anche l’acquisto di beni strumentali all’esercizio della professione di uno dei coniugi ricade automaticamente in comunione se il denaro impiegato, sia pur “lavorato” e fatto fruttare da uno solo di essi, è invece riconducibile alla comunione (es. prelevato da un conto cointestato ad entrambi).

LEGGI ANCHE “Patrimoni (grandi e piccoli) sempre a rischio in caso di separazione e divorzio”

Riassumendo, al fine di scegliere il giusto regime patrimoniale, si fa riferimento all’art. 177 del Codice civile, secondo il quale costituiscono oggetto della comunione legale:

  1. gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
  2. i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.

Secondo l’articolo 179 del Codice civile, invece, non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:

  1. i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
  2. i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione;
  3. i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori;
  4. i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
  5. i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
  6. i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali di cui sopra o con il loro scambio, se la circostanza è espressamente dichiarata all’atto dell’acquisto.

I coniugi possono anche ricorrere alla comunione convenzionale, effettuata mediante un atto pubblico notarile, in presenza di due testimoni, che modifica il regime di comunione dei beni e consente di mettere in comunione anche le proprietà acquisite individualmente prima del matrimonio, che sono escluse dal regime di comunione legale.

La scelta del regime di separazione dei beni deve effettuarsi avendo ben presenti la normativa del Codice Civile relativa alla responsabilità per i debiti contratti dai coniugi. Infatti, secondo l’articolo 186, i beni della comunione sono destinati a soddisfare, in generale, tutti gli obblighi derivanti dalla loro gestione, ed in particolare le spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli, nonchè ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia e per qualsiasi ragione o finalità. Ne consegue che (articolo 189) i creditori di uno dei coniugi che non trovino capienza nel suo patrimonio individuale potranno soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, oppure (articolo 190) potranno agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti.

Invece, nella separazione dei beni, delle obbligazioni personali di uno dei coniugi risponde solo il patrimonio personale di costui, mentre quello dell’altro non viene coinvolto in nessun modo. Pertanto, nei confronti dei terzi creditori il regime di separazione dei beni rappresenta una prima forma elementare di protezione del patrimonio familiare della coppia unita.

Nel divorzio, però, esiste una inaccettabile e sproporzionata (rispetto alle reali esigenze) compressione del diritto di proprietà che di fatto interrompe il ciclo di vita naturale del patrimonio, privilegiando nel lunghissimo periodo le esigenze dei c.d. soggetti deboli (tra cui i figli ricadono solo in via indiretta). I giudici, del resto, sono protesi a dover decidere su scenari di breve termine, e si dimostrano poco inclini a valutare quei progetti educativi e familiari che, tanto agognati dai genitori, non trovano mai spazio nei tribunali italiani.

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Patrimoni (grandi e piccoli) sempre a rischio in caso di separazione e divorzio

Avvocati e magistrati non sono in grado di contenere la mancanza di lucidità che coglie i detentori di patrimonio quando si separano. E così, senza un team di professionisti a supporto della famiglia, la salvaguardia dei beni passa quasi sempre in secondo piano.

Ad eccezione dei c.d. divorzi-lampo, anche le coppie senza figli costituiscono un nucleo familiare tenuto saldamente in piedi da progetti in comune che diventano, in un certo senso, “prole”: casa coniugale, adozione di animali domestici, beni mobili, arredi, preziosi, risparmi, solo per fare un esempio; ma anche i ricordi dei momenti passati insieme, esperienze ed amicizie comuni, a volte persino il lavoro.

Quando si separano, molti coniugi mai diventati genitori si comportano allo stesso modo di quelli che hanno figli: distruggono tutto ciò che di terreno l’amore aveva creato, a volte con maggior furia rispetto a chi si è “riprodotto”.
Pertanto, pensare di poter eliminare la società/sodalizio familiare (con o senza prole) mediante la sentenza di un giudice, è una follia. Nonostante ciò, il nostro Ordinamento – che come tutti gli ordinamenti giuridici è imperfetto, e non è dotato di sentimenti – è stato progettato per questo, e cioè per dare una sforbiciata laddove, invece, servirebbe una squadra di ricamatrici, molto tempo, diplomazia e sensibilità; tanto è vero che le nostre leggi dispongono per l’istituto della separazione, anziché un percorso tecnico più ragionato, gli affollati corridoi di un tribunale.

Siete mai entrati in un tribunale, alla prima sezione civile?

Se lo farete, vi accorgerete che un numero insufficiente di magistrati ed un numero esorbitante di avvocati tentano l’impossibile, e cioè disciplinare sentimenti ed affetti a colpi di memorie e decreti. Purtroppo, nei tribunali si va per cercare una vittoria delle proprie ragioni, e non per risolvere rapidamente ed efficacemente questioni che, altrimenti, prendono molto tempo e serenità. Diversamente, ci sarebbero altri luoghi dove gestire le vicende coniugali, magari utilizzando la mediazione multi-disciplinare, relegando giudici e legali alla fase finale del procedimento.

Cosa c’entra tutto questo con i patrimoni?

Eccome se c’entra. L’esperienza dei tribunali in materia di separazione e divorzio è fatta di scelte e prassi a volte inspiegabili (spesso di paternità esclusivamente giurisprudenziale), frutto anche di una evidente crisi di lucidità dei coniugi che né gli avvocati né i magistrati sono in grado di contenere, non avendo ricevuto la formazione adatta (l’avvocato ed il giudice sono giuristi, non psicologi). Chi si separa è mosso esclusivamente dal risentimento personale, e si perde in una guerra senza esclusione di colpi in cui il patrimonio familiare – e a volte anche lo stesso denaro, perso in mille rivoli tra spese legali ed investigatori privati – sembra non avere più alcuna importanza tanto viene sacrificato sull’altare dell’odio.

E così la salvaguardia dei beni di famiglia passa in secondo piano, con tutte le conseguenze del caso in termini di perdita di valore e di trasmissione ai figli.

La separazione della coppia, invece, sebbene rappresenti una fase molto difficile dal punto di vista emotivo (del tutto paragonabile, in quanto a sofferenza, ad un lutto), potrebbe invece rappresentare, sia per i coniugi ben patrimonializzati che per quelli con un ammontare di beni più modesto, l’opportunità di anticipare con profitto il momento della pianificazione patrimoniale (trasmissione in vita di immobili e denaro, patti di famiglia per le quote aziendali ed altro ancora); contestualmente, anche l’occasione per costruire una struttura di protezione del patrimonio, a beneficio dei propri congiunti, da opporre in futuro ad un eventuale attacco dei terzi (creditori, Stato).

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In generale, se un patrimonio notevole è da considerarsi sempre a rischio, il patrimonio comune delle coppie che si separano, a rischio, lo è per definizione ontologica. Infatti, oggi le famiglie italiane si vanno internazionalizzando sempre di più, e spesso i figli vivono, studiano o formano un nuovo nucleo familiare fuori dall’Italia. Di conseguenza, si prevede che il numero di divorzi e di secondi matrimoni (con tutto ciò che comporta in termini di frammentazione dei diritti successori sul patrimonio) sarà crescente. Inoltre, le generazioni successive hanno sempre una visione totalmente diversa del patrimonio creato dai propri genitori, e un numero crescente di governi europei attua misure di austerità fiscale, monitorando così, innanzitutto, le persone benestanti.

Pertanto, esistono numerose situazioni in cui l’intero patrimonio, o parte di esso, possa essere messo a rischio o addirittura scomparire in seguito all’assenza di una pianificazione patrimoniale realmente efficace.

Per esempio, studi recenti hanno dimostrato che il patrimonio viene spesso costruito da una sola generazione, e che senza una visione strategica del futuro esso scompare completamente nel corso delle successive tre generazioni. Il trasferimento tramite successione, infatti, comporta quasi sempre la divisione del patrimonio tra diversi eredi, con la conseguenza che esso verrà frammentato con alterne fortune. Le imposte sui fabbricati o di successione, poi, possono prendersi una grande fetta del patrimonio familiare.

Quella fiscale non è certo l’unica minaccia esistente per chi si separa conflittualmente. Infatti, il congelamento dei beni in caso di morte, le possibili controversie matrimoniali, il passaggio di proprietà sui beni immobili, le dispute sul controllo dell’azienda familiare, sono tutte questioni che le famiglie benestanti dovrebbero considerare con largo anticipo, semplicemente perché esse si verificano sempre. Eppure, colpevolmente, tali questioni vengono affrontate quando ormai è troppo tardi.

Pertanto, se non si è sufficientemente lucidi, la differenza tra conservazione e distruzione di un patrimonio può farla solo un team di professionisti, che non può non comprendere, nella sua composizione più estesa, un consulente finanziario, un avvocato, un commercialista ed un notaio.

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La distruzione del sodalizio patrimoniale in caso di separazione e divorzio: l’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa ad uno solo dei coniugi ha risvolti giuridici di primissimo piano per i soggetti coinvolti, eppure non ha una propria catalogazione giuridica e non ha alcuna fonte se non nella giurisprudenza.

In ambito divorzile, il grande assente nell’Ordinamento è sempre stato la tutela del patrimonio familiare in senso stretto, quella, cioè, attuata per dare continuità alla funzione tipica del patrimonio: essere trasmesso nel tempo. Infatti, la conflittualità tipica delle fasi di separazione prima, e le nuove unioni conseguenti ai divorzi (e la nuova prole), determinano vere e proprie battaglie legali “postume” al divorzio, che si protraggono negli anni con effetti deleteri a livello patrimoniale.

L’imperfetta gestione del divorzio causata da questa lacuna del nostro sistema giuridico, quindi, continua a produrre interruzioni “letali” nella trasmissione dei beni; nessun freno viene posto alla conflittualità che, in questo modo, si trasmette, come una sorta di corredo genetico divorzile, anche ai consanguinei. Anche il patrimonio immobiliare, a cominciare dall’abitazione familiare, viene travolto in questa tempesta perfetta, e lascia dietro di sé strascichi durevoli. Infatti, nel caso di una coppia di patrimonials©[1] che si separa, l’abitazione coniugale viene quasi sempre assegnata ad uno dei coniugi, ritenuto “più debole”. Tale assegnazione, nelle famiglie benestanti, può coinvolgere anche unità immobiliari di pregio e molto grandi, la cui estensione in metri quadrati potrebbe facilmente consentire una perfetta divisione fisica tra ex coniugi ed assicurare ai figli una presenza pressoché paritetica (ed un ottimo grado di prossimità affettiva) da parte di entrambi i genitori. Invece, contro la più elementare delle logiche, le decisioni giudiziali assegnano tali abitazioni (a volte intere ville con parco, piscina e servitù) ad uno solo dei coniugi, in ciò costringendo l’altro a ricercare una differente soluzione abitativa per sé e per i figli (con i quali peraltro la frequentazione, da parte del genitore non convivente, diventa più rarefatta).

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Ebbene, in una famiglia ben patrimonializzata non ci saranno grosse difficoltà a reperire un’abitazione per colui che dovrà uscire da quella familiare, ma non è questo il punto. Il punto è, che a causa dei costi aggiuntivi che deve sostenere il coniuge fuoriuscito, il sodalizio familiare – quello i cui interessi l’Ordinamento dovrebbe preservare – subisce un primo impoverimento patrimoniale a danno delle successive generazioni. In più, in tema di assegnazione della casa coniugale, neanche il valore locativo dell’immobile assegnato viene riconosciuto quale compensazione economica (almeno parziale) di quanto stabilito come alimenti per l’ex coniuge. La circostanza è piuttosto grave; infatti, l’assegnazione della casa coniugale ad un solo soggetto – che molto spesso non è nemmeno il comproprietario dell’immobile – per via della sua lunga durata (anche tutta la vita) determina una gravissima compressione del diritto di proprietà, e assume nel tempo i contorni di una espropriazione forzata, per la quale andrebbe riconosciuto a chi la subisce un giusto risarcimento economico.

Vediamo il perché. In tema di privazione forzosa dall’utilizzo dei propri beni, il Diritto ci dice che l’espropriazione forzata è un procedimento esecutivo, di natura coattiva, diretto a sottrarre al debitore determinati beni (pignorabili) facenti parte del suo patrimonio, al fine di soddisfare il creditore procedente (articolo 2740 Codice Civile). La requisizione, invece, è l’atto giuridico con cui si priva un soggetto dei suoi diritti di possesso (e talvolta la proprietà) di un bene. Quest’ultimo è un provvedimento con il quale la pubblica amministrazione, nell’esercizio di un c.d. potere ablatorio, sottrae al privato, in via temporanea o definitiva, il godimento di un bene, mobile o immobile, a motivo del superiore interesse pubblico, contro un indennizzo. Nel diritto penale, infine, la confisca è l’acquisizione coattiva, senza indennizzo, da parte della pubblica amministrazione di determinati beni o dell’intero patrimonio di chi ha commesso un reato, quale conseguenza di questo.

Orbene, nel caso dell’assegnazione della casa coniugale disposta dal giudice senza fare menzione del fondamentale requisito del periodo di tempo massimo a cui dovrebbe necessariamente sottostare per non far risultare estinto, de facto, il titolo di proprietà/comproprietà del coniuge fuoriuscito, risulta impossibile catalogare tale istituto all’interno di una fattispecie giuridicamente prevedibile e perfetta, dal momento che, senza la definizione di un limite temporale ben definito, non ha alcuna fonte nel diritto se non nella giurisprudenza di merito. Infatti:

1. tra i coniugi, al momento del divorzio, non è ancora sorto alcun rapporto di debito o di credito non onorato che consenta di procedere ad un procedimento di esecuzione e ad una espropriazione immobiliare forzata;
2.ad eccezione del mantenimento diretto, previsto dall’Ordinamento (L. 54/2006 e successive modificazioni) ma quasi del tutto inapplicato nei tribunali di merito, l’obbligo alimentare viene generalmente assolto a mezzo assegno (di norma mensile), ed è la sua mancata corresponsione che fa scattare eventuali e future azioni esecutive (es. pignoramenti presso terzi);
3. nonostante uno dei coniugi venga privato per lungo tempo dell’utilizzo di un proprio bene, non è prevista alcuna forma di indennizzo, per cui non può parlarsi di requisizione;
4. nel complesso, in considerazione della mancanza di un termine, della sua lunghissima durata e dell’assenza di un indennizzo, gli effetti dell’assegnazione della casa ad un solo soggetto somiglierebbero di più a quelli di una confisca, ma non c’è il reato (sebbene per alcuni coniugi la richiesta di separazione da parte dell’altro rappresenta un intrinseco reato “di lesa maestà”…) che ne giustifica l’applicazione, e l’immobile non è destinato alla pubblica utilità ma all’utilità di una sola persona e dei minori eventualmente conviventi.

Qualcuno potrebbe osservare che tale particolare fattispecie giuridica ricorra e si alimenti, per così dire, del supremo interesse del minore che abita la casa coniugale, per il quale non è neanche concepibile l’ipotesi di un allontanamento per soggiacere agli interessi di natura patrimoniale degli adulti. Ma anche questa teoria non è efficace, perchè in molti casi di divorzio e di susseguente assegnazione esclusiva della casa coniugale non insistono minori, ma figli maggiorenni e spesso all’estero per frequentare le università (se non addirittura già indipendenti economicamente), nè si ravvede, in caso di presenza di minori, i motivi di diritto che determinino la necessità di dover allontanare soltanto uno dei due genitori, e non entrambi, facendoli alternare all’interno della casa per garantire una paritetica cura dei figli e, contestualmente, un paritetico godimento del bene.

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Pertanto, ancor di più di quanto riscontrabile in campo tributario, possiamo dire che nel divorzio esiste una gravissima lacuna del diritto, frutto di una prassi giurisprudenziale di oscura (e datata) origine, e che nessuna tutela è accordata al detentore di patrimoni – piccoli o grandi che siano – per il danno derivante dalla mancata disponibilità dei beni nel lunghissimo periodo. Ciò costituisce un gravissimo vulnus giuridico del nostro Ordinamento, che in troppi fanno finta di non vedere, nonché un sicuro danno prospettico del patrimonio familiare scaricato senza alcuno scrupolo sulle future generazioni.

[1] Gruppo di individui nati tra il 1950 ed il 1965, ognuno dei quali è a capo di un patrimonio familiare, tra beni mobili ed immobili, superiore a 750.000 euro.

 

Separazione e finanza coniugale: il ruolo neutrale del professionista e l’entanglement quantistico del legame familiare

“Se due persone interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, quello che accade ad uno di loro continua ad influenzare l’altro”.

Il divorzio, a cominciare dagli anni ’70 (la legge sul divorzio è la n. 898 del 1970), ha rappresentato il naturale riconoscimento giuridico di un atto di libertà e auto-realizzazione dell’individuo, da tutelare anche a costo di scindere (e riqualificare) la famiglia “consacrata e immutabile” in tutti quei casi di contrasto insanabile nella coppia.
Si è trattato certamente di una conquista di civiltà a cui, però, non è corrisposta una uguale evoluzione dell’Ordinamento: ancora oggi bisogna fare i conti sia con un sistema giuridico inadatto a contenere la deriva dei sentimenti tipica delle fasi più accese di una separazione, sia con un  “analfabetismo civico” che, in tutta Italia, colpisce anche i patrimonials[1] che si separano.

Le librerie ed il Web pullulano letteralmente di pubblicazioni più o meno autorevoli sulla materia, riguardanti soprattutto gli aspetti emotivi ed affettivi connessi alla cura dei figli dopo la separazione. Pochi, però, si concentrano sugli effetti che da questo fenomeno sociale in continuo aumento derivano a danno della finanza coniugale, dal momento che esiste certamente un nesso di causalità tra separazioni conflittuali e perdite patrimoniali.
Così, è importante che gli operatori siano in grado di riconoscere certi aspetti dell’animo umano che si manifestano solo in determinati contesti che, come la crisi di coppia, escono fuori dall’ordinario, catapultando in mezzo alla tempesta chi, per il proprio ruolo professionale, viene chiamato inevitabilmente in causa.

Le guerre coniugali, infatti, finiscono con il coinvolgere il professionista del Patrimonio (sia esso consulente finanziario, avvocato, notaio o commercialista), il quale si trova a dover gestire un evento che mette a dura prova le proprie capacità diplomatiche e la propria sensibilità. Egli deve essere pronto ad intervenire assumendo l’unico atteggiamento possibile: quello del consulente che spiega con estrema franchezza tutte le conseguenze economiche di una separazione, e aiuta i clienti (travolti dalle circostanze e privi di sufficiente lucidità) a gestire la situazione in maniera forzosamente solidale, evitando di assecondare richieste dettate da spirito di vendetta e/o chiaramente inopportune, sebbene solo in apparenza legali (si pensi allo “svuotamento”, da parte di uno dei coniugi, del conto corrente intestato ad entrambi).
Infatti, dall’esame di queste vicende si impara che, proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di maggiore concentrazione per consentire la salvaguardia degli affetti e dei beni familiari, il nostro Ordinamento oppone invece un sistema idoneo solo a far prevalere i sentimenti di rivalsa di ciascun coniuge rispetto all’estremo pragmatismo richiesto invece dalle circostanze.

Esiste, infatti, un notevole lasso di tempo tra il momento esatto in cui matura la separazione (si tratta di solito di decisioni dettate solo apparentemente dall’istinto, ma in realtà profondamente pensate) e quello in cui i coniugi appariranno di fronte al presidente del tribunale civile. Si tratta di un periodo lunghissimo (a volte anche 7 o 8 mesi, soprattutto se si frappone il periodo estivo) durante il quale, oltre a distruggersi reciprocamente con atti di guerra fisica e psicologica, molte coppie pongono le basi per la distruzione di patrimoni familiari anche di ingente valore. Gli effetti negativi della separazione, infatti, colpiscono gli interessati di ogni ceto sociale, senza alcuna distinzione, sull’onda del concetto secondo il quale, con il divorzio (o la separazione), non esiste più la famiglia.

Niente di più falso.

Il nucleo familiare, antropologicamente, non è un insieme di individui che nasce e muore sulla scorta di un contratto (quello è il matrimonio, che è un contratto, ossia una convenzione sociale); esso è piuttosto il risultato dell’istinto umano di socialità che, insieme agli istinti di riproduzione, di procreazione e di conservazione, rappresenta le fondamenta su cui poggia la storia dell’intera umanità. Nel nucleo familiare, una volta formato, accade qualcosa di molto simile a ciò che ha descritto lo studioso Paul Dirac nella sua famosa equazione, la quale descrive il fenomeno del c.d. entanglement quantistico: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possiamo più descriverli come due sistemi distinti, ma in qualche modo sottile diventano un unico sistema. Quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”.

Quanta verità in una “semplice” equazione….

Grazie a questa formula matematica trovano spiegazione diversi eventi della vita post-separazione, solo apparentemente inspiegabili, che continuano a legare i due ex coniugi anche a distanza di molti anni.
A parte i figli – che sono, per così dire, un’equazione quantistica vivente – nelle coppie separate senza figli il patrimonio costruito durante la vita matrimoniale, e tutti gli eventi ad esso connessi, determina la sopravvivenza di un legame con il quale bisogna fare i conti per lungo tempo dopo la separazione.

La consapevolezza di questo legame, nonchè un atteggiamento di arrendevole rassegnazione alla sua esistenza (da preferire ai comportamenti nocivi derivanti dalla mal sopportazione di esso), potrebbe eliminare molte delle cause di indebolimento o distruzione dei beni familiari, garantendo prosperità e continuità generazionale a quello che fu, comunque, uno dei prodotti dell’unione.

Anche il consulente patrimoniale fa parte, per così dire, di questo “prodotto quantistico” della coppia; pertanto, il suo ruolo asettico e neutrale con entrambi sarà un valore aggiunto che segnerà la differenza tra un patrimonio intatto, destinato a trasmettersi, ed uno disgregato, destinato a morire o ad essere frantumato in mille rivoli prima della fase successoria.

[1] Gruppo di individui nati tra il 1950 ed il 1965, ognuno dei quali è a capo di un patrimonio familiare, tra beni mobili ed immobili, superiore a 750.000 euro.

Se hai trovato utile questo articolo forse potrebbe interessarti sapere come tutelare il tuo patrimonio in caso di separazione o divorzio

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