Ottobre 12, 2025
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Donazioni di denaro ai figli. Genitori e nonni, bonifici e cointestazioni vanno fatti a regola d’arte

Le donazioni indirette sono usate frequentemente nelle famiglie italiane, ma andrebbero disciplinate in modo corretto per evitare possibili problemi con i terzi. 

di Adriana Cardinale

Nella vita di ogni giorno, tutti i professionisti che si occupano di gestione e tutela del patrimonio dei propri clienti si imbattono nei classici quesiti che riguardano gli atti di disposizione delle somme liquide, che genitori e nonni effettuano per le esigenze più disparate di figli e nipoti. Molto spesso, poi, queste richieste arrivano quando il titolare di una posizione ha fiutato un pericolo generico di possibile aggressione da parte di terzi, e vorrebbe così correre al riparo conferendo ai figli somme (o beni immobili e mobili soggetti a registrazione) altrimenti aggredibili dai creditori. Per evitare di far insorgere un tale sospetto anche quando si è in perfetta buona fede, è bene usare nel modo corretto i due strumenti più frequentemente usati per trasmettere risorse finanziarie ad altri (figli e/o coniuge) o per attribuirne a questi la contitolarità: i bonifici bancari e le cointestazioni

Se è già stato incardinato un contenzioso da parte di terzi creditori (o aspiranti tali), non c’è strumento di tutela tardiva che i creditori non possano mettere in discussione in un eventuale giudizio; così, in tutti i casi in cui si voglia effettuare una donazione di denaro, è necessario usare delle accortezze che segnano il confine tra l’autentica tutela dei propri cari ed un possibile accertamento di un tribunale (per non parlare delle future dispute tra eredi). In tal senso, il nuovo orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7442 del 20 marzo 2024, con la quale si è pronunciata in merito alla tassabilità delle donazioni indirette o informali effettuate tra genitori e figli, aiuta non poco a comprendere i confini tra operazione lecita e operazione effettuata in danno ai creditori. In particolare, la sentenza in questione rappresenta un punto di svolta rispetto a quanto previsto in passato, in quanto si sovrappone alla disciplina in materia di imposte sulle donazioni descritta dalla circolare n. 30/E dell’11 agosto 2015 dell’Agenzia delle Entrate, che la Cassazione definisce come “imprecisa”, “incompleta” e “non condivisibile”. Prima, infatti, la normativa fiscale prevedeva il pagamento dell’imposta di donazione anche per i trasferimenti di denaro, soprattutto tramite bonifico bancario e/o assegni circolari e, più in generale, per le “liberalità tra vivi che si caratterizzano per l’assenza di un atto scritto”; oggi, tale previsione viene ribaltata e, di fatto, la tassazione non si applicherà su tutte quelle donazioni informali o indirette che non risultino da atto scritto, o che non siano soggette a registrazione, a meno che gli atti di liberalità/donazioni informali non abbiano determinato, da sole o sommate a quelle già effettuate nei confronti del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore ad un milione di euro (art. 56 bis del T.U. successioni e donazioni).

E il bonifico bancario, come si configura all’interno del nuovo orientamento stabilito dalla Cassazione? Sulla sua natura di atto scritto in molti erroneamente ci metterebbero la firma, poichè la disposizione di bonifico, oltre a prevedere l’esistenza di modulistica specifica, contiene soprattutto la causale per cui un soggetto trasferisce ad un terzo somme di denaro, nel caso in questione (genitori-figli) a titolo di liberalità. Pertanto, firmare in banca un modulo di bonifico con apposizione obbligatoria di una causale non è esattamente un atto scritto, poichè si tratta di una operazione unilaterale, che non prevede accettazione espressa del beneficiario, e può essere disposta anche senza alcuna firma direttamente da casa (home banking) o dal proprio smartphone, tramite l’applicazione della banca, anche per cifre non di modico valore (fino a 25.000 euro).

I motivi che inducono i genitori ad usare il bonifico per effettuare una vera e propria donazione sono i più disparati: il pagamento ricorrente degli affitti per gli studenti fuori sede, l’avviamento economico alla professione del figlio appena abilitato, l’acquisto della sua prima abitazione, le spese matrimoniali o la nascita dei nipoti. Si tratta di esempi di donazioni indirette – e non semplicemente informali – che prima della sentenza n. 7442 della Cassazione andavano disciplinate, in teoria, con atto pubblico. Infatti, secondo l’Agenzia delle Entrate il pagamento di master e corsi universitari all’estero del figlio è il risultato di una donazione a tutti gli effetti, e probabilmente tale natura giuridica verrà eccepita ancora nei mesi a venire, costringendo il contribuente a fare ricorso. eccependo proprio la sentenza n. 7442

Relativamente all’acquisto della abitazione al figlio, se non si ha la volontà di effettuare una donazione, ma serve integrare i mezzi finanziari di cui l’acquirente è parzialmente (o totalmente) sprovvisto, l’iter corretto da seguire è questo: il genitore partecipa all’atto di compravendita, mette a disposizione la somma necessaria per l’acquisto ed il notaio preciserà nel relativo atto che il denaro viene messo a disposizione dal genitore. In questo caso, non si perfeziona una donazione, e l’immobile acquistato non sarà soggetto ad alcun termine di perfezionamento (decennale o ventennale) come nelle donazioni; questo farà sì che la casa acquistata potrà essere rivenduta successivamente, in qualunque momento, senza pregiudizio per i terzi acquirenti. Al contrario, la donazione di denaro effettuata con bonifico più atto pubblico (caso rarissimo) è una donazione a tutti gli effetti, che comporta il trasferimento della proprietà del denaro in capo al donatario, e come tutte le donazioni potrà essere invalidata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (es. dopo la separazione, con una seconda moglie). In ogni caso, la validità di una donazione di denaro – quando viene effettuata tramite bonifico più atto pubblico – ha effetti notevoli relativamente alla tutela del patrimonio disponibile. Infatti, se la donazione è valida, i creditori del donante non potranno avanzare pretese di alcun tipo sul denaro donato, e gli eredi potranno agire solo se c’è lesione della loro quota legittima.

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La Cassazione è intervenuta in passato anche nei casi di donazione di denaro effettuata con bonifico ma senza atto pubblico (c.d. donazione informale). In questi casi, tale atto di disposizione non trasferisce affatto la proprietà del denaro, ma fa del destinatario un semplice custode di esso, che rimane di proprietà del donante e quindi può essere sia aggredito dai suoi creditori che essere reclamato, in sede di successione, dagli eredi esclusi. Peraltro, secondo la Suprema Corte si tratta di donazione indiretta anche quando il donante effettua il trasferimento di denaro ad un conto cointestato tra donante e donatario, il quale poi ne dispone liberamente. In questo caso, la donazione è valida a condizione che si dimostri il c.d. animus donandi, per esempio corredando il bonifico con una documentazione idonea (es. scrittura privata più causale che specifichi la parola “donazione“). Anche in questo caso, i creditori non potranno aggredire il denaro (idem gli eredi, con azione di riduzione). L’effetto è identico anche per le donazioni effettuate tramite assegno.

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Altro tema è quello della donazione dai nonni ai nipoti. La Corte di Cassazione ricorda che anche il semplice prestito padri-figli andrebbe registrato e sottoposto ad imposta; pertanto, il bonifico di valore rilevante che si effettua al nipote (ma anche da marito a moglie), per essere valido, deve essere assistito da atto pubblico, a meno che:
– non sia di modico valore (da valutare caso per caso, in proporzione al patrimonio del nonno),
– non sia ricorrente (es. pagamento regolare della rata di mutuo del figlionipote),
– non sia privo di motivazione.  

Un caso interessante, a metà strada tra gli effetti del bonifico e quelli di una cointestazione, è quello della cessione della qualità di contraente di una polizza vita da padre a figlio (o da nonno a nipote, o da marito a moglie). Anche in questa circostanza sarà necessario dimostrare l’animus donandi – cosa difficilissima da fare – a meno che non esista almeno una scrittura privata a sostegno dell’operazione.

Relativamente alle cointestazioni, c’è da dire che le famiglie italiane usano spesso questo strumento, ma bisogna valutarne bene vantaggi e svantaggi. In una cointestazione, infatti, ogni cointestatario si presume essere comproprietario del denaro ivi contenuto, e quindi può essere aggredito dai creditori, a meno che non si conservino le prove della provenienza esclusiva delle somme in capo all’originario intestatario (es. vendita titoli/fondi, disposizione di chiusura del conto mono-intestato e trasferimento tramite bonifico al conto cointestato). Questo strumento, inoltre, non è privo di effetti collaterali, come nelle questioni ereditarie in presenza di seconda moglie che pretende, per esempio, la metà di quanto tenuto nel conto cointestato padre-figli; oppure il caso tipico di una cointestazione di lunga durata padre single-figlio, il secondo dei quali commette una irregolarità amministrativa e, per questo motivo, viene perseguito fino al risarcimento a terzi. In questo caso, secondo la Cassazione tutte le somme cointestate, anche se erano di competenza esclusiva del padre (il quale le alimentava, per esempio, con il proprio reddito o pensione), potranno essere sequestrate, e liberate solo se il padre potrà dimostrare di averle accantonate da solo grazie alla documentazione bancaria. Per quanto sopra, è sempre meglio usare la delega, che non trasferisce alcuna proprietà e conferisce ampie possibilità di gestione al figlio delegato.

Nessuno vuole la revisione dei valori catastali. La riforma colpirà il ceto medio

Da anni ormai si parla di revisione dei valori catastali, ma la riforma di settore rimane una eterna incompiuta. Dal primo dei parlamentari all’ultimo dei piccoli proprietari di immobili, nessuno la vuole. Eppure la strada sembra segnata.

Di Massimo Bonaventura

In Italia esiste un asse politico-sociale trasversale ed eterogeneo, che in occasione della convergenza di interessi economici primari si muove all’unisono, senza essere sollecitata dalle lobbies che animano i corridoi di Camera e Senato. Succede ad ogni legislatura con le aliquote di donazione e successione – in relazione alle quali il nostro Paese viene tacciato di essere una sorta di “paradiso fiscale” – ma nel caso della tassazione sulle abitazioni si tratta di un rarissimo esempio di perfetta sintonia tra Politica e Popolo, e basterebbe anche un dieci per cento di questa sintonia per risolvere problemi “decisivi” come la redistribuzione del reddito, la tassazione delle imprese e dei lavoratori dipendenti, lo sfascio della Sanità, la responsabilità civile dei magistrati e la vergogna di una legge elettorale basata ancora sulle liste bloccate e sulla supremazia dei partiti, solo per fare un esempio.

La questione della tassazione della casa e della revisione del metodo di calcolo dei valori catastali, a ben vedere, va oltre il semplice dibattito politico e finisce per investire aspetti che hanno a che fare con la politica fiscale interna e, in un certo modo, con la nostra stessa sovranità. Infatti, era il 28 settembre del 2015 quando la Commissione Europea cominciò a sollecitare l’Italia ad adottare misure che alleggerissero gli oneri fiscali gravanti sul lavoro, e spostassero il carico sui consumi, sugli immobili e sulle donazioni/successioni. In particolare, nel rapporto Riforme fiscali negli Stati membri dell’Unione europea, ci venne chiesto espressamente di tassare meno il lavoro e tassare più efficacemente le abitazioni, ossia il patrimonio, ma nonostante siano passati sei anni non si è mossa neanche una foglia.

In verità, stessa cosa fu chiesta a Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria e Finlandia, ma è in Italia che il c.d. cuneo fiscale sul salario medio è più elevato, attestandosi al 48,2% contro il 43,4% della media UE. Quest’ultimo dato, poi, si aggiungeva al nostro tasso di occupazione complessivo, pari nel 2014 al 59,9% contro il 70,9% dell’Unione europea di allora. Dal raffronto tra queste due grandezze nasce il “consiglio” dell’Europa di riequilibrare le due poste (cuneo fiscale e tasso di occupazione), strettamente collegate tra loro, e spostare il peso fiscale sulle case, in modo da utilizzare i proventi aggiuntivi per ridurre le tasse sul lavoro. Peccato che questa visione lasci fuori la riduzione della tassazione sui redditi, e riveli un approccio alla redistribuzione della ricchezza affatto “in sintonia” con i produttori di reddito, i quali preferirebbero vederselo detassare, aumentare i consumi e attivare il moltiplicatore dell’economia reale, utilizzando il maggior gettito “strutturale” derivante dalla riforma dei valori catastali proprio per ridurre gradualmente, anno dopo anno, le imposte sui redditi. Oppure ancora, entrambe le cose.

Invece, sposando la visione della Commissione europea, si sposta solo il peso del fisco sui patrimoni, ed è proprio questo che unisce in un sorprendente abbraccio classi sociali così diverse tra loro. In ogni caso, la resistenza del centrodestra all’ipotesi di alzare l’imposizione sulle ricchezze di qualsivoglia natura mette al riparo, al momento, da misure del genere. Però si deve riconoscere che, qualora la riforma venisse fatta senza danneggiare i piccolissimi proprietari di immobili – quelli che hanno la sola abitazione in cui vivono, insomma – il riordino dei valori catastali potrebbe essere un primo passo per ridistribuire la ricchezza dai più ricchi ai meno ricchi. Ciò potrebbe avvenire aumentando significativamente le tasse sugli immobili di pregio, che in Italia non sono pochi, e offrendo ai piccoli proprietari una sorta di “franchigia fiscale” entro un dato valore commerciale della propria casa, individuabile tramite l’Osservatorio OMI dell’Agenzia delle Entrate.

Sul tema generale, il dibattito del Governo si snoda sul riequilibrio del prelievo fra chi ha un immobile dal valore di mercato più basso di quello richiesto oggi dal fisco e chi si trova nella situazione opposta, e questo potrebbe avvenire solo utilizzando il metro quadro, e non più il “vano catastale” come unità di misura alla base delle rendite. In questo modo, il valore di reddito delle abitazioni potrebbe essere affiancato dal valore medio di mercato, e fare giustizia tra micro-proprietari di periferia e grandi detentori di immobili di lusso. Darebbe maggiore equità fiscale, infine, tassare in base ad altri parametri specifici, come la natura del fabbricato, la sua classe energetica, il contesto del quartiere ed in generale tutta una serie di caratteristiche relative all’area in cui l’immobile è inserito (es. trasporto pubblico, presenza di scuole, di ospedali e di esercizi commerciali).

Naturalmente, nessuno si aspetti che da una riforma del Catasto possa scaturire l’esenzione da possibili aumenti della tassazione: chiunque verrà colpito, poiché la motivazione di una simile misura è l’aumento del gettito fiscale. E poco importa se, in Italia, la casa è “sacra” anche per i parlamentari e i lobbisti, poiché il percorso sembra essere ineluttabile, ed il gettito previsto ben più ingente di quello derivante dall’aumento delle aliquote di donazione e successione. Peraltro, i più colpiti da questa riforma saranno i piccoli proprietari del ceto medio delle grandi città, ossia proprio coloro che la riforma fiscale dovrebbe favorire dopo venti anni di Unione Monetaria e di continuo depauperamento del potere d’acquisto e della capacità di risparmio.

Dal “sogno d’impresa” dei fondatori alla nuova leadership familiare. Strumenti a confronto

A prescindere dagli strumenti giuridici idonei alla trasmissione dell’azienda familiare ai figli, l’imprenditore che decide di passare il testimone è chiamato ad esercitare una scelta fondamentale per il futuro stesso dell’impresa. Per farlo, serve una notevole dose di realismo e l’accantonamento di qualunque criterio di ripartizione di natura affettiva.

Con il graduale avvicendamento storico tra la generazione dei c.d. babyboomers e quella dei millennials, il passaggio generazionale dell’impresa familiare è un fenomeno che, nel prossimo decennio, interesserà in Italia migliaia di aziende a conduzione familistica. A tal proposito, il nostro Ordinamento mette a disposizione alcuni strumenti utili per il trasferimento in vita delle quote aziendali ai futuri eredi.

Lo status giuridico effettivo di erede legittimo del patrimonio aziendale diventa effettivo e “staticamente” produttivo di effetti solo al momento del trapasso dell’imprenditore; se questi decide di perfezionare in vita il passaggio del patrimonio aziendale a figli e nipoti, dovrà tener in buon conto le caratteristiche peculiari (personalità, competenza, esperienza, talento etc) di ciascuno di essi, da valutare esattamente come un candidato esterno alla famiglia che, in base al proprio curriculum, aspira a ricoprire un ruolo chiave nell’impresa o, magari, ad averne la sua leadership.

Patrimonials e Millennials

In tutta evidenza, si tratta di una scelta molto difficile, che può suscitare potenziali attriti in seno alla famiglia e che richiede fermezza da parte dell’imprenditore, nonché una certa abilità nello scegliere, tra i figli, il nuovo leader e i suoi dirigenti. Ci possono volere decenni per far sviluppare ed affermare un’azienda nel mercato, ma basta anche un solo anno di scontri e disaccordi per affondarla. 

L’affetto genitoriale ed il desiderio di accontentare tutti in parti uguali, nella trasmissione della leadership, sono molto ingannevoli. L’azienda familiare, infatti, non si guida con intenti democratici e di equa distribuzione dei poteri e delle deleghe, ma con decisioni “autoritarie” (e autorevoli), e ciò è nella sua stessa natura di avere un leader assoluto al comando. In generale, un leader ha bisogno di una certa base di consenso per “governare” un’azienda nel migliore dei modi possibili. Nel caso di un estraneo alla famiglia, per lui parlerà il suo curriculum ed il carisma conferito dai risultati già ottenuti in precedenti incarichi – un esempio celebre è quello di Sergio Marchionne per la famiglia Agnelli, e in precedenza quello di Cesare Romiti ai tempi di Giovanni Agnelli – ma se la scelta ricade necessariamente (per tradizione, opportunità, continuità etc) su uno dei componenti della famiglia, bisognerà tenere in conto i principi basilari delle relazioni all’interno della gerarchia aziendale. Il leader, infatti, è colui che si adopera per innovare e sperimentare nuove politiche e guidare la direzione del business con una certa dose di coraggio. E’ colui che detta le tendenze, mentre i manager/dirigenti sono quelli che seguono queste tendenze, credendo, sostenendo ed abbracciando  completamente le linee guida dettate dal proprio leader. Pertanto, se si vuole assicurare continuità di successo al di là delle generazioni, ogni “vecchio” leader dovrà individuare un “nuovo” leader con le stesse caratteristiche appena descritte.

Orbene, in una famiglia imprenditoriale dove possono esistere vecchi rancori, invidie e gelosie, è necessario instaurare tra i familiari una collaborazione profonda nel nome della continuità aziendale e del benessere di tutti. Infatti, i manager possono essere considerati come i più indispensabili e “simbiotici” facilitatori della visione di un leader, ed il loro ruolo prevede che che tutti i dipendenti, manager compresi, la seguano. Nell’ambito di una successione aziendale, pertanto, l’imprenditore uscente dovrà assicurare all’impresa una struttura di comando elaborata secondo i medesimi criteri, anche a costo di estromettere dai ruoli manageriali i familiari stretti che non ritiene ancora idonei, rivolgendosi temporaneamente a risorse esterne alla famiglia.

Peraltro, mentre il trasferimento delle quote aziendali può avvenire giuridicamente in vari modi (testamento, donazione, usufrutto di partecipazioni, patti parasociali, patto di famiglia, trust), la trasmissione dell’insieme di valori che costituiscono la c.d. leadership non è attuabile attraverso le regole dei codici. In particolare, il testamento e il patto di famiglia non sembrano adeguati all’obiettivo. Il patto di famiglia, per esempio, permette ad un imprenditore di trasferire l’impresa familiare ai suoi eredi per atto pubblico, ma è gravato dall’incombente di poter essere perfezionato solo se c’è un accordo dell’imprenditore (futuro de cuius) con tutti gli eredi, e della necessità di dover riconoscere, da parte di coloro che ricevono l’azienda o le partecipazioni societarie, una liquidazione compensativa di varia natura (denaro, immobili, veicoli, preziosi etc) agli altri familiari che non prenderanno parte alla compagine societaria. Qualora percorribile, però, il patto di famiglia è un istituto estremamente vantaggioso in quanto ad aspetti fiscali. Infatti, la legge prevede per esso l’esenzione dall’imposta di donazione, l’esenzione dall’imposta di trascrizione per le eventuali formalità relative e l’esenzione dall’imposta catastale per le eventuali volture.

Il testamento – così come il legato testamentario, che ha per oggetto la proprietà o l’usufrutto dell’azienda o di un ramo di essa – è parimenti sconsigliabile sia per la possibile lesione della legittima, sia per via della sua natura di istituto giuridico “non dinamico”, dal quale è impossibile far derivare la continuità della gestione aziendale.

Solitamente, l’imprenditore sceglie metodi alternativi per il passaggio generazionale dell’impresa, come ad esempio la costituzione di newco a partecipazione degli eredi, oppure la costituzione di trust o altri strumenti utili al trasferimento agli eredi della propria azienda. Le criticità già viste per il testamento ed il patto di famiglia rendono l’istituto del trust e l’usufrutto di partecipazioni gli strumenti più frequentemente utilizzati per il passaggio generazionale dell’azienda. Infatti, il Trust da un punto di vista pratico consentirebbe di salvaguardare l’azienda e il suo patrimonio mediante un atto unilaterale, e quindi senza dover concordare un accordo con gli eredi. Il Trust, inoltre, “neutralizza” la fase successoria attraverso la segregazione dei beni conferiti e consente alla gestione aziendale continuità e stabilità. In caso di presunta violazione della legittima, poi, il Trust potrebbe subire soltanto un’azione di riduzione da parte degli eredi pretermessi, ma non sarebbe mai sottoposto ad alcuna ipotesi di invalidità dell’atto.

Relativamente all’Usufrutto di partecipazioni, sarà bene fare una premessa. Il testo unico sulle imposte di successione e donazione (Dlgs n. 346/1990, articolo 3, comma 4-ter) stabilisce una particolare agevolazione fiscale al passaggio generazionale delle aziende. Con tale disposizione, i trasferimenti di aziende, rami di aziende, quote e azioni sociali a favore dei discendenti e del coniuge, in presenza di determinate condizioni, non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni. Tali condizioni riguardano il potere di controllo afferente alle quote sociali, e più precisamente: a) l’acquirente a titolo gratuito di azioni di SpA, per usufruire del beneficio, deve conservare il controllo della società per almeno 5 anni; b) l’acquirente a titolo gratuito di quote di società di persone deve proseguire l’esercizio dell’attività per almeno 5 anni e c) qualora sia ceduta un’azienda o un ramo di azienda, è necessario che l’acquirente a titolo gratuito prosegua l’esercizio dell’attività per almeno 5 anni. 

Il beneficio della non applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni si applica anche nel caso in cui i beni trasferiti abbiano un valore superiore a quello delle franchigie previste, e nel caso in cui l’azienda oggetto del trasferimento contenga beni immobili, non saranno applicate neanche le imposte ipotecarie e catastali (Dlgs n. 347/1990).

Gli strumenti esaminati – in maniera succinta, per motivi di spazio e facilità di lettura – hanno lo scopo di consentire all’imprenditore o a coloro che detengono una partecipazione societaria di poter pianificare “in anticipo” la propria successione, e soprattutto di individuare, tra i suoi familiari, il miglior candidato a garantire una leadership forte, in grado di conferire continuità allo svolgimento dell’attività, evitando così il pericolo di frammentare il controllo dell’azienda tra eredi potenzialmente “litigiosi” o, comunque, in disaccordo.

Sono tante, infatti, le aziende familiari che, dopo aver prosperato durante la prima generazione di imprenditori, “si spengono” una volta arrivati alla seconda o, al massimo, alla terza generazione. Quando accade, non è solo la ricchezza ad essere distrutta, ma soprattutto il sogno d’impresa di chi ha dato inizio a tutto.

Imprenditori, come difendersi da una patrimoniale “da guerra”. Le conseguenze del non fare

L’Italia uscirà dalla pandemia economicamente talmente male che serviranno imposte straordinarie per riequilibrare il deficit nei prossimi anni. Vista l’impossibilità di aumentare ancora le imposte dirette, l’ipotesi di una patrimoniale è sempre più vicina. Come limitare i danni di un inasprimento fiscale? Di quali figure professionali si dovrà circondare l’imprenditore? 

I decreti varati dal Governo in questa fase così difficile della nostra storia (Decreto Rilancio, Decreto Cura Italia e del Decreto Liquidità), sono stati finanziati eccezionalmente in deficit, ma peseranno come un macigno sulla ripresa. Il debito pubblico, infatti, ha raggiunto livelli da record (150% del Pil) e dovrà essere abbattuto, già dal 2022, partendo da una posizione di fragilità dell’economia italiana nel dopo Coronavirus.

Visto il clima “da guerra” scatenato dagli effetti della pandemia, tra le soluzioni possibili – e mai così probabili come oggi – viene citata la c.d. patrimoniale, ossia quell’imposta che colpisce i beni degli italiani mediante un prelievo forzoso sui conti correnti e/o da conteggiare in proporzione al patrimonio complessivo posseduto e dichiarato.

L’ipotesi non è così fantasiosa, e comincia a circolare con insistenza da quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha detto testualmente “….siamo tutti consapevoli che in Italia c’è un grande risparmio privato, e sicuramente questa è una delle ragioni di forza della nostra economia. Ci sono tanti progetti, a tempo debito vedremo…”. Le affermazioni del premier, peraltro, trovano forza nella proposta di iniziativa parlamentare lanciata dal capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, nella quale si vorrebbe quella che è stata già definita “Covid Tax”, ossia un contributo di solidarietà sui titolari di redditi elevati (oltre gli 80mila euro annui), con aliquote crescenti.

Ma una misura simile non risolverebbe, neanche lontanamente, il problema del deficit. Infatti, l’Italia uscirà dalla pandemia economicamente molto male, talmente male che servirebbe un gettito capace di conferire alle casse dello Stato non meno di 100 miliardi. La Covid Tax, invece, consentirebbe un gettito di soli 1,25 miliardi. Briciole, che non risolvono nulla.

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Visto che ci sono realtà nazionali che prevedono le imposte sul patrimonio, ciò potrebbe accadere anche in Italia? Per rispondere a queste domande, ci aiuta un pò di storia italiana. Dal 1920 in poi, infatti, i governi Nitti, Mussolini e De Gasperi hanno stabilito imposte patrimoniali di una certa entità, allo scopo di ridurre il debito pubblico aumentato a dismisura per via delle guerre. L’importo di queste imposte gravava anche sul capitale delle aziende e, almeno in una occasione, era talmente elevato da rendere necessario il pagamento rateale. La patrimoniale di De Gasperi, per esempio, andava dal 6 al 61% (per i patrimoni più elevati), e l’INVIM, introdotta nel 1973, andava dal 3 a oltre 30% delle plusvalenze immobiliari. Il governo Amato, nel 1992, introdusse ben quattro imposte patrimoniali (una di queste sui beni di lusso), di cui si ricorda solo il famigerato prelievo forzoso sui conti correnti.

Nei paesi dell’OCSE, poi, le imposte patrimoniali esistono eccome! Ma mentre in Italia la pressione fiscale è già elevata e non consente altro spazio ad una crescita ulteriore della tassazione, negli altri paesi la tassazione è più bassa, per cui l’imposizione sul patrimonio ha maggiore ragionevolezza, se applicata eccezionalmente.

In Italia, comunque, si può dire che in tutte le occasioni i prodotti di previdenza sono stati generalmente esclusi dal novero delle attività finanziarie su cui calcolare l’imposta, e difficilmente le polizze di Ramo I o multi-ramo verranno toccate da una nuova patrimoniale o da altre misure straordinarie che il Governo adotterà nei prossimi due anni per ridurre il deficit. Ciò nonostante, è sempre meglio sensibilizzare gli imprenditori – e chiunque abbia un patrimonio da tutelare, in via generale – sulle conseguenze del “non fare”, che oggi appaiono ancora più gravi rispetto al passato più recente, quando la pandemia era solo un argomento da “disaster movie”.

Ad alleviare un po’ la paura di misure eccezionalmente gravose, l’altra ipotesi che circola ha un sapore più “all’italiana”, e riguarda una nuova (e ultima) voluntary disclosure, attuata per portare alla luce il c.d. sommerso di denaro contante e/o di assegni circolari. A tal proposito, inutile effettuare prelievi consistenti e mettere il contante in una cassetta di sicurezza: rimane traccia dell’operazione e, successivamente, si dovrà dimostrare da dove proviene il denaro rimesso poi in circolo, con il rischio di pagare una imposta salatissima.

Per coloro che hanno la possibilità di trasferirsi all’estero (concretamente o meno…), è bene ricordare che, con il CRS (sistema di scambio automatico delle informazioni tra i vari paesi aderenti), il segreto bancario è definitivamente morto, ed effettuare un bonifico consistente all’estero – presso un paese dove si asserisce falsamente di vivere – sottopone al rischio di sanzioni fino al 320%, più conseguenze penali (8 anni di reclusione per l’auto-riciclaggio).

Pertanto, è possibile limitare i danni? E se sì, di quali figure professionali si dovrà circondare l’imprenditore?

Le possibilità non mancano, ma hanno il difetto di dover mutare profondamente l’assetto patrimoniale dell’imprenditore-tipo e, si sa, i cambiamenti spaventano sempre un po’. La prima è strettamente collegata alla riforma del Catasto, sulla quale l’Italia ha ricevuto l’ultima raccomandazione dell’Europa proprio di recente, e che oggi è in cima (insieme alla patrimoniale) tra gli strumenti più probabili. C’è da dire, però, che in un momento come questo, ritoccare all’insù la base di calcolo del patrimonio significherebbe aumentare il carico fiscale anche per le famiglie della classe media, facendo gravare così le imposte sulla fascia di popolazione che tradizionalmente sorregge i consumi legati allo sviluppo economico necessario per la ripresa. Pertanto, riprende quota l’ipotesi di una imposta patrimoniale, e si rinvia al futuro l’aumento delle imposte sugli immobili. Tutto ciò, comunque, non può che suggerire una sola soluzione, e cioè quella di alleggerirne il peso, tramite graduali atti di disposizione e vendita idonei al raggiungimento del risultato.

Dal punto di vista pratico, esistono vari modi per farlo. Conferire gli immobili in società di persone, per esempio, è una soluzione molto usata in passato, ma non è certamente la migliore, perché è gravata da una imposta che va dal 9 al 12% sul valore commerciale/venale, e l’importo complessivo sarebbe superiore a qualunque imposta patrimoniale. Inoltre, gli immobili conferiti in società di persone devono essere produttivi di reddito per essere coperti da tutela effettiva, ed in caso contrario si configurerebbe una operazione fittizia (con tutte le conseguenze del caso). Anche la Società Semplice subirebbe queste imposte, per cui è meglio prendere in considerazione un trust, che in occasione del conferimento degli immobili sconta una imposta di registro minimale e rinvia il momento impositivo vero e proprio al verificarsi della condizione per i beneficiari (coincidente generalmente con la morte del disponente).

Non c’è soltanto la patrimoniale a rappresentare un pericolo per i patrimoni delle famiglie imprenditoriali. Infatti, l’ipotesi di un prelievo forzoso e/o di un prestito forzoso (in “Mussolini style”), nonchè dell’inasprimento delle imposte indirette, come quelle successorie, si avvicinano sempre di più, e probabilmente l’Italia cesserà presto di essere il “paradiso fiscale delle successioni e donazioni”, dovendosi allineare agli altri stati europei (da noi il gettito è inferiore all’1%, in Francia il 14%). Pertanto, sarà necessario valutare l’anticipazione della successione sul patrimonio immobiliare tramite donazioni “distributive”, le quali scontano identiche franchigie (1 milione a congiunto, ossia coniuge e ciascun figlio) delle successioni, ed anzi si aggiungono ad esse.  

Anche in tema di donazioni sarà necessario osservare alcuni suggerimenti che danno a questo atto di disposizione maggiore efficacia. Nelle donazioni di denaro, per esempio, la franchigia di un milione a figlio è garantita solo se è effettuata tramite atto pubblico; infatti, se in un momento successivo l’Agenzia delle Entrate dovesse accertare il mancato versamento dell’imposta minima – è il tipico caso della donazione fatta ai figli con bonifico e senza atto pubblico – applicherà l’aliquota massima vigente tempo per tempo (oggi l’8%, circolare AAEE 11/08/2015 n. 30E). Inoltre, per dimostrare che la donazione di denaro, effettuata senza atto pubblico, sia una liberalità indiretta, i soldi ricevuti dal destinatario devono essere impiegati per l’acquisto di beni o servizi; in caso contrario, in sede di successione i fratelli potrebbero eccepire una lesione della propria quota legittima, ed avviare la c.d. azione di riduzione.  Quest’ultima ipotesi è tutt’altro che rara, e comporta azioni degli eredi che, in caso di supposta lesione dei propri interessi, possono arrivare fino alla richiesta, alla banca del de cuius, delle copie degli e/c bancari fino a dieci anni indietro.

La liberalità indiretta si esprime spesso, come sappiamo, in materia di compravendita immobiliare, allorquando i genitori mettono i figli in condizione di poter acquistare una casa, pagando tutto o parte del prezzo convenuto. Ebbene, anche in queste circostanze è bene osservare alcuni accorgimenti, ed evitare di effettuare un bonifico al figlio, ma trasferire la somma direttamente al venditore tramite assegno circolare. In questo caso, infatti, non si configura né una donazione né un atto di liberalità indiretta, per cui non si “brucia franchigia” donativa e, in caso di successiva volontà di vendere quell’immobile, non ci sarà alcun vincolo (né a 10 né a 20 anni) che mette a rischio il futuro compratore. Inoltre, si pagherà una imposta di registro fissa pari a 200 euro (anzichè il 4-8%), ed il notaio scriverà nell’atto che l’immobile viene acquistato con i soldi del genitore.

Sempre in tema di donazioni, una soluzione un po’ “estrema” è rappresentata dal mantenere il solo Diritto di Abitazione, in quanto diritto personale non trasferibile, impignorabile ed insequestrabile.

In definitiva, non esiste una soluzione valida per tutti, ma esistono “più soluzioni” che, combinate nel giusto modo, possono attenuare o eliminare i rischi patrimoniali dell’imprenditore dalla conseguenze del “non fare”. Per attuare il giusto mix di strumenti da utilizzare, è impossibile – o quanto meno molto, molto complicato – fare a meno di alcune figure professionali, come il commercialista, l’avvocato, il notaio ed il consulente finanziario (per la parte relativa alle eventuali vendite, anche l’agente immobiliare). Si rischia, infatti, di commettere errori grossolani e di perdere tanto tempo. 

Le donazioni non si improvvisano. Dal caso Zonin un monito per chi si occupa di tutela del patrimonio

Non esiste un numero esatto di “anni prima” entro il quale è conveniente effettuare atti dispositivi del patrimonio ed evitare l’aggressione dei terzi; l’unico criterio è quello del “prima possibile”, soprattutto quando il ruolo ricoperto in ambito professionale non ha ancora dato la possibilità di compiere azioni che richiedano l’assunzione di grandi responsabilità.

E’ notizia di questi giorni quella che ha visto i giudici vicentini dare ragione ai liquidatori della Popolare di Vicenza e accogliere le richieste di revoca contro le donazioni immobiliari e societarie, dal valore di 1,3 milioni, dell’ex presidente Gianni Zonin, effettuate con discutibile tempismo nel novembre 2015. il Tribunale di Vicenza, in particolare, lo scorso 17 Aprile ha emesso due pronunce gemelle che riguardano alcune donazioni immobiliari e una vendita di partecipazioni societarie che Zonin aveva disposto in favore dei suoi più stretti congiunti nei mesi immediatamente successivi alle sue dimissioni dal consiglio di amministrazione dell’istituto veneto, avvenute alla fine del 2015, riconoscendo la sussistenza degli elementi per l’accoglimento dell’azione revocatoria (avviata a Gennaio 2018) e accertando, quindi, che gli atti dispositivi oggetto delle donazioni avevano consapevolmente impoverito il patrimonio sul quale i creditori della banca avrebbero potuto soddisfarsi nell’ipotesi di accoglimento dell’azione di responsabilità promossa nei confronti dello stesso Zonin e della successiva vendita dei beni donati: una villa a Montebello Vicentino e la casa di Zonin nel centro di Vicenza, nonché le quote delle aziende vinicole passate ai figli Domenico, Francesco e Michele.

In sintesi, grazie al provvedimento del tribunale di Vicenza i beni tornano nella piena proprietà dell’ex presidente della Popolare di Vicenza, e potrebbero essere sequestrati in caso di eventuale risarcimento danni se venisse accertata la responsabilità di Zonin. Nel dispositivo, i giudici parlano di un “…ampio disegno finalizzato a sottrarre ai terzi le garanzie patrimoniali generiche” e che “la tempistica delle donazioni rispetto alle dimissioni ed alle irregolarità riscontrate dagli organi di vigilanza….., rese note al pubblico anche per l’ampia risonanza mediatica, avrebbe arrecato danno  alle ragioni debitorie”.

Al di là della vicenda specifica e dei dolorosi risvolti che hanno inciso sui risparmi di migliaia di risparmiatori, la decisione di magistrati vicentini costituisce un monito sia per coloro che pensano di poter “blindare” il patrimonio accumulato irregolarmente (o illecitamente) con una semplice donazione, sia per i professionisti – che si presume essere in buona fede – a cui essi si rivolgono quando ormai “il danno è fatto”.

Pertanto, al fine di non trovarsi nella classica situazione in cui si mettono in atto “mosse disperate”, con le quali ottenere solo il rinvio temporale di ineluttabili provvedimenti, tutti coloro che svolgono incarichi di grande responsabilità dovrebbero pensare, come dei moderni San Francesco, di spogliarsi gradualmente delle proprietà accumulate, in favore di persone di propria fiducia (come i familiari più stretti, ma non solo) con un tempismo che, in un eventuale giudizio per danni, verrà interpretato come in buona fede e del tutto scollegato alle irregolarità di cui si potrebbe rispondere in futuro. E non esiste un numero esatto di “anni prima” entro il quale è conveniente effettuare atti dispositivi del patrimonio al fine di proteggere il patrimonio dall’aggressione dei terzi eventualmente danneggiati; l’unico criterio è quello del “prima possibile”, soprattutto quando il ruolo ricoperto in ambito professionale non abbia dato la possibilità di compiere azioni da cui derivi l’assunzione di grandi responsabilità.

LEGGI ANCHE: Passaggio generazionale: Trust o società di persone? Consulenti finanziari poco attivi sulle questioni patrimoniali

C’è da dire – e questo è un costume tutto italiano – che effettuare atti dispositivi, mediante una o più donazioni, al solo scopo di ritardare l’aggressione dei creditori, consente comunque al donante e ai propri familiari di poter godere, nella maggioranza dei casi, dei beni oggetto di successiva revocatoria ancora per qualche anno, ed in tal senso questo è comunque un risultato economicamente quantificabile, di cui il debitore non risponde. Allo stesso modo, però, è innegabile come diverse categorie di dirigenti d’impresa (o professionisti), costantemente e potenzialmente “sub iudice” per via delle responsabilità derivanti dal proprio ruolo, non si curano affatto (se non quando è troppo tardi) della tutela del patrimonio familiare, sottoponendo quest’ultimo a rischi enormi di fronte ad eventi anche non immaginabili. Dirigenti apicali d’azienda, managers, medici, ingegneri, avvocati, per esempio, dovrebbero pensare ad una corretta pianificazione del patrimonio già al momento della prima operazione immobiliare e, in caso di sviluppi importanti del proprio tenore di vita, valutare altri strumenti patrimoniali più adatti (il Trust, per esempio, oppure le società di persone).

Le donazioni, infatti, rispondono ad altre finalità, molto specifiche, e si rivolgono esclusivamente a tutti quei soggetti che, in una Italia sempre più “paradiso fiscale” delle successioni, desiderano trasmettere il patrimonio ai propri familiari mediante atti da effettuare ancora in vita, minimizzando così l’insorgenza di eventuali questioni successorie tra i futuri eredi.

Le donazioni no, non si improvvisano.

 

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Le vie della donazione sono (quasi) infinite. Clausole e patti per pianificare la trasmissione del patrimonio familiare

Chi intende donare un bene può apporre svariate clausole, utili per rendere la donazione idonea alle esigenze del donante e della sua famiglia.

Chi prende in considerazione la donazione, in genere, non conosce quante sfumature essa può avere in ambito pratico e giuridico, soprattutto quando si vogliono prendere decisioni sulla trasmissione del patrimonio familiare ed evitare di trasmettere ai futuri eredi, insieme ai propri beni, anche i possibili attriti che si possono verificare persino di fronte al testamento più cristallino ed equo.

Cosa significa precisamente donare un bene? Quando si parla di beni di valore la donazione è un vero e proprio contratto in cui un soggetto donante arricchisce un soggetto donatario gratuitamente, trasferendogli un proprio bene senza pretendere alcuna ricompensa. Perché il contratto di donazione sia valido, quindi, è necessario che entrambe le parti coinvolte, il donante e il donatario, siano d’accordo sul dare e ricevere l’immobile.

In particolare, attraverso la donazione immobiliare (ossia la forma più frequente in Italia, vista l’altissima percentuale di proprietari di case del nostro Paese) si possono donare abitazioni, locali commerciali, terreni e qualsiasi altri tipo di beni immobili, dei quali può essere ceduta la proprietà intera o il diritto di usufrutto, di uso o di abitazione.

Una donazione è valida se viene sottoscritta per atto pubblico redatto da un notaio, in presenza di almeno due testimoni. Le parti devono indicare se tra loro vi siano state altre donazioni e il loro valore, ed il notaio dovrà assicurarsi che il bene non sia interessato da vincoli e/o difformità di qualsiasi natura (es. ipoteche gravanti sull’immobile o abusi edilizi non ancora riportati nei documenti ufficiali).

In tema di pianificazione patrimoniale, la donazione costituisce un validissimo elemento per anticipare in vita le volontà successorie dei detentori di patrimoni, perché consente al donatario di non cumulare, ai fini del calcolo delle imposte, ciò che ha ricevuto in vita con quanto riceverà eventualmente anche in occasione della successione, ovviamente entro i limiti della percentuale di imposta (4%) e della generosa franchigia (1 milione di euro) riconosciuta ai consanguinei più stretti (moglie e figli), che fanno dell’Italia il “paradiso fiscale” delle successioni.

Per quanto tempo ancora sarà possibile beneficiare di queste condizioni, non lo sappiamo.

Oltre a questo, però, il nostro Ordinamento prevede che la donazione possa assumere varie forme, a seconda del grado di efficacia nel tempo dei suoi effetti.

Donazione con apposizione di condizione. Con questa tipologia il donante subordina l’inizio del godimento della donazione al verificarsi di un evento futuro ed incerto (condizione sospensiva), oppure subordina la cessazione del godimento al verificarsi di un evento futuro ed incerto (condizione risolutiva). Le condizioni sospensive o risolutive non devono essere contrarie alle leggi o, pur essendo legali, non devono prevedere una restrizione della libertà del donatario (es. la donazione ha effetto solo se il donatario si sposa);

Donazione con apposizione di termine. In questo caso il termine deve essere certo, e può essere “iniziale” (il donante indica il momento, futuro e certo, a partire dal quale la donazione avrà efficacia), o “finale” (il donante indica il momento, futuro e certo, fino al quale la donazione avrà efficacia.

–  Donazione modale (con previsione di risoluzione). In questo caso, il donante impone un’obbligazione di fare a carico del donatario (es. donazione di un immobile per costruire un ospedale, oppure per assistere per tutta la vita il donante). In questo tipo di donazione, si può prevedere, ricorrendo al giudice, la risoluzione della donazione nel caso in cui il donatario non adempia all’obbligo, ma solo se così è previsto nell’atto di donazione.

Donazione con riserva di usufrutto. Il donante riserva a proprio vantaggio il diritto di usufrutto sui beni donati. In tal modo il donante può conservare il diritto di utilizzare il proprio bene e di percepirne i frutti (es. canoni di locazione), anche per tutta la durata della sua vita ed al beneficiario della donazione andrà solo la nuda proprietà.

Donazione con clausola di riserva di disporre di cose determinate o di una determinata somma sui beni donati. Con l’apposizione di tale clausola il donante (e solo lui, non anche i suoi eredi) potrà decidere di disporre di qualche bene/oggetto (anche somme di denaro) compreso nella donazione.

Donazione con clausola di riversibilità. Il donante può stabilire che le cose donate ritornino a lui nel caso di premorienza del solo donatario o del donatario e dei suoi discendenti.

Donazione con dispensa dalla collazione. In occasione delle successioni, le donazioni ricevute in vita da alcuni donatari vengono conferite (Collazione) nell’asse ereditario in modo da dividerle con gli altri coeredi, in proporzione delle rispettive quote. Tuttavia, il donante può dispensare dalla collazione un suo erede, esonerandolo dall’obbligo di collazione in sede di futura divisione dell’eredità. Tale deroga a può essere prevista nell’atto stesso di donazione o in un testamento successivo.

In definitiva, lo strumento della donazione può adattarsi alle situazioni familiari più disparate, ed è per questo motivo che essa diventa un formidabile strumento di pianificazione patrimoniale, del quale i professionisti del patrimonio (consulenti finanziari, avvocati, commercialisti e notai) dovrebbero fare opera di diffusione della conoscenza a tutte le famiglie con cui entrano in contatto nell’atto stesso di svolgere la loro attività professionale (es. subito dopo aver prestato consulenza per un acquisto o una vendita immobiliare).

Oltre all’educazione finanziaria, di cui tanto si parla di questi tempi, esiste infatti una “educazione patrimoniale” che, pur rappresentando l’evoluzione più naturale della prima, non è ancora resa accessibile alle famiglie dei c.d. patrimonials,  la cui stragrande maggioranza ne ignora opportunità e vantaggi.

 

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La difesa del patrimonio dagli attacchi esterni: fondo patrimoniale, atti di destinazione traslativi e usucapione

Gli strumenti di protezione patrimoniale, anche se adottati con un tempismo credibile, non hanno tutti la stessa efficacia.

Per coloro che si vogliano avvicinare alla materia dell’Asset Protection Advisory, c’è da dire che il nostro Ordinamento prevede il ricorso ad alcune norme, ognuna delle quali risponde ad una propria specifica finalità, a seconda che serva a tutelare i beni facenti capo alle attività imprenditoriali o a quelli inerenti la famiglia.
In ambito prettamente familiare, in particolare, diversi sono gli strumenti di pianificazione e protezione del patrimonio (anche dell’imprenditore nella sua veste di persona fisica e non di uomo-azienda). Il primo tra questi è il Fondo Patrimoniale, il quale rientra nelle c.d. convenzioni matrimoniali.
Si tratta di uno strumento che attribuisce un primo livello di protezione, attraverso il quale uno dei coniugi o entrambi vincolano determinati beni destinandoli ai bisogni della famiglia. In tal modo, i beni individuati (immobili, auto e motoveicoli, titoli di credito e altro) costituiscono un patrimonio separato la cui funzione è quella di soddisfare i diritti di mantenimento e assistenza di tutti i componenti della famiglia.
In teoria, i coniugi non possono disporre dei beni che formano il fondo per scopi estranei agli interessi della famiglia né i creditori particolari dei coniugi (per obblighi sorti per scopi estranei ai bisogni della famiglia) possono soddisfare i loro diritti sui beni oggetto del fondo patrimoniale stesso. Infatti, relativamente alla sua opponibilità ai creditori, il fondo patrimoniale è suscettibile di revocatoria fallimentare, così come di revocatoria ordinaria, qualora la sua costituzione sia avvenuta in una fase immediatamente successiva all’assunzione del debito con la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (smettendo quasi subito di pagare, per esempio, le rate di un mutuo). Pertanto, solo in presenza di interessi concretamente meritevoli di tutela (es. figli con disabilità, genitori conviventi molto anziani, familiari conviventi con gravi problemi di salute), la costituzione del fondo patrimoniale rende i beni conferiti scarsamente aggredibili, riducendo efficacemente la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei debitori.
Con l’atto di destinazione, un soggetto può sottrarre alla garanzia patrimoniale (quella sancita dall’art. 2740 del Codice Civile), uno o più beni immobili o beni mobili registrati (auto e moto veicoli, natanti) appartenenti al suo patrimonio, imprimendo su di essi un vincolo di destinazione strumentale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela, con beneficiari determinati (generalmente, i figli, ma non solo). Anche l’atto di destinazione, quindi, costituisce un patrimonio autonomo ma, a differenza del fondo patrimoniale, ha il vantaggio di poter essere costituito da chiunque (compresi single e coppie di fatto), e la sua finalità si estende a un più generico interesse meritevole di tutela. Ad esempio, questo strumento può essere utilizzato per la tutela dei figli minori a seguito di separazione e divorzio da parte dei genitori, oppure per la tutela di figli naturali da parte delle coppie di fatto; oppure ancora per la tutela dei nipoti da parte dei nonni.
Relativamente alla opponibilità verso i creditori, l’atto di destinazione, per essere veramente efficace, dovrà essere di natura traslativa, dovrà cioè accompagnarsi ad un negozio giuridico (tipicamente la donazione) che ne trasferisca la proprietà ad un altro soggetto. Diversamente, si tratterebbe di un “negozio destinatorio puro”, caratterizzato da un vincolo di auto-destinazione unilaterale che non avrebbe adeguata tutela contro le pretese di creditori di qualsivoglia natura.
L’elemento traslativo, ad esempio, si potrà perfezionare tramite la donazione della sola nuda proprietà. Questa potrà essere perfezionata, a sua volta, anche con un patto di riversibilità, che limiterà comunque l’efficacia degli eventuali futuri atti di disposizione (es. successiva vendita da parte del donatario) verso i terzi senza l’assenso liberatorio espresso del donante. Sommata ad un atto di destinazione, la donazione con patto di riversibilità darà al donante un controllo indiretto del bene, e se l’atto di donazione è avvenuto in un tempo lontano dall’insorgenza di una controversia o da una situazione che ha impedito di onorare un debito, consentirà di opporre, ai terzi che volessero aggredire il bene tramite revocatoria, un periodo di tempo talmente lungo (coincidente con la fine temporale del vincolo) da far preferire loro soluzioni transattive a qualunque altra di natura giudiziale, certamente più logorante e dall’esito comunque incerto.
La protezione legale del patrimonio si realizza anche tramite l’istituto dell’Usucapione, che ha un effetto retroattivo e fa discendere il passaggio di proprietà all’inizio dei 20 anni che precedono la sentenza. Questa norma apre un ventaglio di opportunità, tra le quali è bene distinguere quelle messe in atto in frode ai creditori da quelle che, pur raggiungendo il medesimo risultato di opporre resistenza alle istanze di un creditore, vengono perseguite a tutela di interessi meritevoli di tutela morale e sostanziale.
Delle prime fanno parte le cause fittizie di usucapione incardinate al solo scopo di opporsi ai pignoramenti (un terzo compiacente dichiara di aver avuto possesso della casa per oltre venti anni, e avvia la causa di opposizione all’esecuzione contro il creditore che sta effettuando il pignoramento sull’immobile oggetto di esecuzione). Per fare un esempio pratico, ipotizziamo che una persona abbia contratto un debito con la banca che ha iscritto ipoteca sulla casa. Se egli, una volta caduto in disgrazia finanziaria, vendesse o donasse l’immobile per sottrarlo ai creditori, l’atto sarebbe soggetto a revocatoria per 5 anni, e l’istituto di credito potrebbe sempre sottoporre il bene ad esecuzione forzata. Per evitare tutto ciò, il debitore si accorda con un cugino per trasferirgli l’immobile mediante usucapione, e la sentenza, avendo effetto retroattivo (20 anni), sancirà che quel familiare era già proprietario prima della nascita del debito e dell’ipoteca stessa, rendendo impossibile il pignoramento.
In questi casi, l’unica tutela per il creditore è quella di agire con la causa di “opposizione di terzo”, ma risulterà molto difficile per lui dimostrare che la sentenza di usucapione è l’effetto di un dolo (il legame di parentela non rileverebbe in presenza delle prove inoppugnabili che i due consanguinei metterebbero in atto con complice tempismo).
Ma non sempre le cause di usucapione fittizie nascondono intenti poco onorevoli. Esistono, infatti, atti compiuti dai patrimonials a favore dei figli più che quarantenni, abitanti (per necessità, per convenzione familiare etc) in una delle case di proprietà degli anziani genitori; tutti questi atti, evidentemente, sono finalizzati a proteggere l’interesse legittimo del congiunto (e della sua famiglia) alla continuità abitativa, che adesso viene messa a rischio dall’azione di un creditore, nonostante l’ingresso del figlio nell’abitazione sia avvenuto quando i proprietari neanche immaginavano di poterla mettere a rischio per via di eventi che si sarebbero verificati solo molti anni dopo.
In casi come questo, l’usucapione diventa il mezzo migliore non solo per evitare la donazione (che è sempre revocabile) ed eliminare i costi notarili, ma anche per trasferire la proprietà di un bene accertando che il suo possesso sia stato esercitato, per almeno 20 anni, da una persona diversa del proprietario, che a sua volta si sia comportato come l’effettivo titolare dell’immobile, magari sostenendo spese di ristrutturazione o intestandosi le utenze.
In definitiva, nel pieno rispetto della legge, e senza la tipica conflittualità che, in casi diversi da quelli descritti, sussiste nelle cause di usucapione tra il titolare dell’immobile ed il suo possessore, l’accertamento dell’usucapione può avvenire senza alcun giudizio né costo. È sufficiente un semplice accordo tra le parti, ed anzi è la stessa legge che favorisce, con il ricorso alla Mediazione Obbligatoria, il raggiungimento di un’intesa per evitare il ricorso al tribunale. Sul punto, però, la Corte di Appello di Reggio Calabria ha stabilito che, per essere validamente opposta ai creditori, è necessario che l’usucapione venga dichiarato dal giudice e non in sede di mediazione, dal momento che in giudizio c’è sempre un giudice che verifica l’eventuale frode ai creditori, mentre nel corso della mediazione questa garanzia non c’è.

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