Aprile 18, 2024
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L’Unione Europea e la “furia religiosa” contro il Risparmio Gestito

La “guerra santa” contro le commissioni del Risparmio Gestito viene combattuta dall’Unione Europea con ossessività quasi religiosa, ma ad essere penalizzati sono i piccoli risparmiatori e i consulenti finanziari.

Di Alessio Cardinale

Lo scontro tra Unione Europea e prodotti di investimento OICR, dopo 15 anni dal suo inizio, ha ormai assunto le caratteristiche di “assedio medioevale” al tempio del sistema sicav-fondi comuni e alla “fortezza” delle banche di investimento, che dal 2008 rincorrono un forzoso adattamento del proprio equilibrio economico ai nuovi regolamenti europei e alle norme di attuazione, tutte ostinatamente finalizzate al dogma assoluto della riduzione del sistema commissionale.

L’ “assedio al castello” del Risparmio Gestito viene combattuto sulla scorta di alcuni principi portati avanti con ossessività quasi religiosa da parte delle Istituzioni europee ma, alla prova, quegli stessi principi si manifestano persino dannosi per i consumatori-risparmiatori, ossia proprio per coloro i quali questa “guerra santa” al Risparmio Gestito viene combattuta con così tanto mistico ardore. Prova ne sia che, nonostante le due MiFID abbiano portato le banche di investimento e le reti di consulenza finanziaria a dover sacrificare il 55% dei margini di ricavo esistenti fino al 2007, i risparmiatori non ne sanno niente.

Proprio così: un evento tanto importante come quello di un risparmio di costi per la collettività degli investitori dal valore, fino ad oggi, di almeno 9 miliardi di euro – cui corrisponde simmetricamente una pari diminuzione di ricavi per l’industria del Risparmio Gestito – non è mai stato in qualche modo comunicato agli effettivi beneficiari, e di certo non è corretto attendersi che ciò venga fatto dalle stesse banche di investimento, già gravate dagli ammortamenti annuali dei costi sostenuti (circa 2 miliardi di euro solo in Italia) dal 2008 per adeguare il proprio sistema informatico alla normativa europea. Qualunque istituzione a tutela dell’interesse della collettività, al posto degli architetti europei delle MiFID, avrebbe sbandierato ai quattro venti, con apposite campagne istituzionali, questo risultato storico per i consumatori. Invece, a Bruxelles regna la consegna del silenzio in tema di tagli alle commissioni di distribuzione di servizi di investimento, e “pezzi importanti” dell’Unione Europea continuano a progettare ulteriori norme con cui eliminare altri “inutili orpelli” commissionali, come gli inducements, ossia gli incentivi monetari pagati da terzi agli intermediari finanziari in relazione alla prestazione di un servizio di investimento. Tutto ciò, naturalmente, con l’obiettivo squisitamente politico di ridurre ulteriormente i costi a carico degli investitori, che solo incidentalmente ne traggono vantaggio, essendo loro dei protagonisti del tutto involontari di tutta la faccenda.

In questo contesto è nata la “Retail Investment Strategy“, che dovrebbe essere approvata entro il primo semestre di quest’anno e che, secondo il commissario europeo per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness (nella foto), dovrebbe abolire le retrocessioni sui prodotti di investimento, cioè i flussi pagamento che la società di gestione danno alle banche o ad altri intermediari che abbiano venduto i loro prodotti d’investimento presso la clientela. Secondo la McGuinness, tali retrocessioni (inducements) incarnerebbero il “peccato”, poichè determinerebbero per il risparmiatore un costo in media superiore al 35% rispetto a quanto il medesimo prodotto costerebbe senza tali incentivi alle reti di distribuzione. Il punto è che in Italia e in quasi tutti i Paesi UE il modello di distribuzione dei prodotti finanziari si basa, per una parte importante, proprio sulle retrocessioni, che peraltro vengono obbligatoriamente comunicate al cliente e non sono certo un mistero; per cui un intervento di tale portata rischia di incidere molto gravemente sull’equilibrio economico di tutte le reti e mette in pericolo la loro stessa esistenza nel mercato.

Eppure quello dei prodotti di investimento, e più segnatamente l’universo del Risparmio Gestito, altro non è che un normalissimo circuito distributivo “a due stadi”, nel quale è presente l’industria che produce il bene (l’insieme delle case di investimento o società di gestione), i grossisti che lo mettono in distribuzione sul territorio (le banche-reti) ed il “dettagliante“, ossia il consulente abilitato ai servizi fuori sede, che li “vende” al consumatore finale. In pratica, la catena di approvvigionamento della consulenza all’investimento, nella sua essenza, non ha nulla di diverso da quelle di altri settori che producono e distribuiscono altri merci e/o servizi: l’offerta si adegua alla domanda, e non è possibile ridurre all’infinito i margini di ricavo della catena di distribuzione senza causare l’espulsione forzata dal mercato di uno degli anelli della catena. Pertanto, non si comprende dove sia lo “scandalo”, a meno che i commissari europei non dicano con chiarezza che la consulenza finanziaria erogata ogni giorno dalle banche-reti a decine di migliaia di risparmiatori sia un settore senza alcun valore aggiunto.

Invece, è noto che quella dei prodotti di investimento è una vendita assistita da una consulenza professionale di altissimo livello, effettuata attraverso tracciabili percorsi di formazione e una considerevole mole di regole, normative e controlli che, nel caso dei consulenti finanziari, si è sviluppata nel tempo, di concerto con l’adeguamento della normativa italiana ed europea, ed ha richiesto una evoluzione professionale profondissima, traghettando i “venditori di fondi” e le società mandanti della prima epoca verso gli attuali consulenti finanziari e le affermate reti di consulenza finanziaria. Un sistema del genere, così evoluto, richiede il sostenimento di elevatissimi costi di gestione da parte delle aziende del settore, e per questo dovrebbe consentire di poter generare un equilibrio finanziario totalmente slegato da eventi esterni che ne condizionano il divenire. Invece, le due MiFID hanno causato sensibili tagli ai margini economici delle banche-reti ed hanno costretto l’intero settore a riorganizzarsi per non soccombere, per cui la prospettiva di un ulteriore taglio strutturale “calato dall’alto” non può essere considerata accettabile, a meno non si voglia assistere consapevolmente al sacrificio, solo in Italia, di altri 5.000 professionisti con portafoglio medio-basso (e delle loro famiglie).

Infatti, le retrocessioni sono una parte indispensabile del sistema di distribuzione dei prodotti di investimento al dettaglio, senza i quali l’accesso dei consumatori alla consulenza professionale sarebbe significativamente ridotto. Di conseguenza, tolte le retrocessioni, non solo sorgerebbero dubbi sul destino su decine di migliaia di consulenti oggi impiegati presso banche e altri intermediari, ma anche i piccoli risparmiatori farebbero una brutta fine e, probabilmente, non avrebbero accesso alla consulenza indipendente; come è successo nella “frugale” Olanda, nazione famosa per i suoi diktat (soprattutto se danneggiano l’Italia), dove le retrocessioni sono vietate ma la consulenza finanziaria indipendente, anziché diffondersi, è rimasta un servizio di nicchia che non ha sostituito la consulenza di massa offerta dalle banche retail, lasciando alle famiglie olandesi il rischio di accedere senza sufficiente preparazione ai modelli execution only, e cioè quelli privi di consulenza o raccomandazioni di investimento.

Pertanto, le sollecitazioni della commissaria europea per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness, qualora trovassero concreta applicazione in nuove norme regolamentari, raggiungerebbero un risultato che ha dell’incredibile: discriminare i piccoli risparmiatori limitandone la possibilità di accesso alla consulenza professionale oggi prestata indistintamente dai consulenti finanziari e darli in pasto al fai-da-te; i consulenti, infatti, di fronte ad ulteriori tagli dei propri margini di ricavo sarebbero costretti a dare maggiore attenzione alla clientela con masse più ingenti, allo scopo di compensare i minori ricavi generati dal taglio degli incentivi e ottimizzare tempi e costi della professione.

Per rendere più chiare le conseguenze di questa mirabolante idea dei “crociati” europei, prendiamo ad esempio l’industria automobilistica, e ipotizziamo che il prezzo delle auto di qualunque livello venga fatto scendere, in virtù del principio generico che “le auto costano troppo”, a seguito di un regolamento europeo che, pur di abbassarne il prezzo, imponga alle case produttrici di eliminare gli incentivi alla rete distributiva (concessionari e rivenditori). Ebbene, coloro che fino a quel momento non avevano potuto permettersi di acquistare un’auto di fascia alta (Mercedes, BMW, Porsche, fate voi), continueranno a non potersela permettere anche se il prezzo di quei modelli è diminuito di 5 o 10.000 euro; di contro, i produttori di auto di fascia bassa, per recuperare i margini di ricavo persi, comincerebbero a costruire auto di fascia alta, oppure continuerebbero a produrre le stesse auto di fascia bassa risparmiando sui componenti e, di conseguenza, abbassando sia il livello di sicurezza che la qualità dei mezzi prodotti.

E i distributori di auto, che fine farebbero? Migliaia di piccoli rivenditori locali sparirebbero o si dedicherebbero esclusivamente al mercato dell’usato, molte concessionarie di medio fatturato fallirebbero o sarebbero costrette a chiudere i battenti, mentre quelle più grandi si fonderebbero per fare “massa critica” e sopravvivere con i margini di ricavo più bassi. In ogni caso, migliaia di posti di lavoro andrebbero persi, e con essi l’equilibrio finanziario di altrettante famiglie. Le stesse tragiche conseguenze potrebbero accadere ai consulenti finanziari di portafoglio medio, che oggi sono circa 10.000 su un totale di 33.000 circa. Il fenomeno, peraltro, non farebbe bene neanche alla (relativamente) giovane categoria dei consulenti finanziari indipendenti, i quali non potrebbero più competere con la consulenza non autonoma (quella delle banche-reti) facendo leva sul suo più elevato livello di costi applicati alla clientela, poichè la “sforbiciata” proposta dai maghi di Bruxelles abbasserebbe tali costi al livello degli indipendenti e questi ultimi, pur di continuare a competere, dovrebbero abbassarli a loro volta e diminuire i propri ricavi, oppure reinventare di sana pianta le proprie politiche di marketing per i decenni a venire.

Stando così le cose, ci si augura che qualcuno, da tempo piuttosto “distratto” sul tema (fate due nomi a caso, cominciano entrambi con la A…), spieghi all’Unione Europea che questa strategia di contrasto dogmatico alle commissioni del Risparmio gestito è una sciocchezza colossale, capace di creare molti, troppi danni ad una categoria di professionisti che ha già sacrificato sull’altare dell’Europa almeno 3 miliardi di fatturato e lasciato sul campo alcune migliaia di giovani consulenti, costretti anzitempo a lasciare la professione solo perchè qualcuno, a Bruxelles, quindici anni fa ha deciso di competere ad ogni costo con il “famigerato” sistema finanziario americano e dargli una lezione di europea moralità.

Fa discutere la proposta di tagliare gli incentivi sugli OICR. Federpromm: superare il conflitto di interesse

Separando l’attività di vendita da quella della consulenza, si neutralizzerebbe il conflitto di interessi ancora esistente e si eliminerebbe la conflittualità tra il consulente finanziario non autonomo e il consulente indipendente.

Di Manlio Marucci*

Di recente si è aperto un vivace appassionato dibattito tra tutti gli operatori del settore sul tema della abolizione delle commissioni e degli incentivi (inducements) sulla distribuzione dei prodotti di investimento (OICR), a beneficio degli investitori identificati come clienti retail, avanzate da alcuni commissari europei. Il tema – già ampiamente affrontato dopo l’entrata in vigore della Mifid II – è di sicuro interesse vista l’attenzione riservata dai media nel dare spazio ai vari stakeholders su come intervenire e superare l’ampia questione delle commissioni e retrocessioni ai consulenti finanziari. Un tema complesso, che va inquadrato all’interno di un sistema legato ai vari modelli di gestione con cui sono stati strutturati nel tempo i processi organizzativi aziendali dai vari intermediari finanziari. 

Secondo i dati forniti da una ricerca di Morningstar (Global Investor Experience Study), le commissioni e spese dei prodotti di investimento generate nel nostro paese ammontano a circa 7 miliardi di euro l’anno. Un valore certamente appetibile per tutti gli operatori del settore. Attraverso una accurata rassegna stampa curata dal nostro centro studi di Federpromm, si è cercato di analizzare i diversi punti di vista espressi dai vari intermediari, associazioni di categoria, autorevoli esponenti del mondo accademico e professionisti del settore; punti di vista che molto spesso si pongono in contrapposizione al progetto della Commissione Europea di voler abolire le commissioni (c.d. “inducements“), ovvero di rivedere le modalità di remunerazione della distribuzione dei prodotti finanziari e dell’attività di consulenza finanziaria, in modo da renderli uniformi tra tutti i paesi della stessa comunità europea.

Su questo versante, sono emblematiche le dichiarazioni avanzate dagli esponenti di Abi e di Assoreti, in sintonia con le posizioni delle organizzazioni degli altri paesi europei quali Francia, Spagna e Germania, in contrapposizione a quanto sostenuto invece da Ascofind, Nafop e da Consultique, in rappresentanza dei consulenti fee-only. Il punto di vista di Federpromm è sicuramente noto alla comunità finanziaria, e in questa circostanza viene riconfermato in modo più obiettivo possibile. Ci siamo posti, quindi, una metodologia di analisi che ha preso in considerazione le variabili più significative in grado di generare un giudizio oggettivo, nonchè alcune ipotesi che possano essere di riferimento alla soluzione del “nodo” del conflitto di interesse che oggi sussiste nei vari modelli distributivi della consulenza finanziaria.  

Per cominciare, l’attuale configurazione della distribuzione dei servizi e strumenti finanziari dell’industria italiana si pone su posizioni “decisamente contrarie” alle proposte della EU, e qualora dovesse passare la norma sulla abolizione degli incentivi si creerebbero le condizioni per una destabilizzazione di tutto il sistema. In modo particolare:
– dovranno essere riviste le politiche gestionali e si dovranno elaborare nuove strategie di vendita;
– sarà necessario modificare tutto il quadro dei rapporti con le società prodotto e le SGR;
– dovranno essere rivisti profondamente gli assetti organizzativi che riguardano le società di distribuzione e collocamento, nonché i modelli dei contratti applicati alle figure professionali quali i consulenti finanziari, agenti, mandatari e subordinati.
Tutta l’industria della distribuzione, quindi, ne sarebbe fortemente penalizzata, e sarebbe costretta a rivedere strutturalmente il proprio business e strategie con costi rilevanti.

Peraltro, se l’obiettivo della proposta comunitaria è quello di sostituire il modello “commission-based remuneration” con quello “fee-based remuneration“, ovvero abolire gli incentivi inseriti nei costi dei vari strumenti finanziari per favorire l’attività della “raccomandazione personalizzata” e non generica da parte del consulente, l’abolizione degli inducements potrebbe avere come conseguenza quella che ogni banca-rete sarà portata a potenziare la vendita dei prodotti di investimento “di casa”, allo scopo di avere una marginalità dei ricavi che consenta la sostenibilità economica della gestione.  

Federpromm (affiliata Uiltucs e Uilca), nella dialettica degli opposti, è sulla stessa lunghezza d’onda con l’analisi evidenziata di recente in un brillante articolo (cfr. FCHub – febbaio 2023) dal prof. G. Santorsola (nella foto), il quale ha correttamente richiamato l’attenzione sul tema di fondo, che riguarda la “struttura dei modelli di business” e la “tutela del cliente al dettaglio”, che non può essere inquadrata imponendo normative a senso unidirezionale e con un unico modello di servizio, proprio per l’impatto negativo che avrebbe – se introdotto – il divieto degli incentivi per la forma e tipologia già adottata e sperimentata tra i diversi paesi dell’Unione. In particolare, sarebbero fortemente penalizzate l’Italia, la Francia e la Germania, che hanno adottato un sistema c.d. banco-centrico. Né è pensabile adottare nella situazione attuale un modello completamente  indipendente (fee-only), vista l’arretratezza culturale e il basso livello medio di conoscenza degli strumenti finanziari degli italiani. Allo stesso modo, Federpromm crede che debba essere fatta chiarezza sulla convenienza del pagamento della consulenza ad una fascia di investitori di basso profilo, che mancano di una formazione nel settore del risparmio gestito. Su questo versante, siamo anche perfettamente in sintonia con la forma più rispondente ed elaborata dallo storico della promozione/consulenza finanziaria in Italia, il dr. G. Cassol (già presidente di Solfin Sim), che ha dedicato una vita allo studio del “modello ideale” di servizio per l’investitore retail

Manlio Marucci

In definitiva, la soluzione migliore sarebbe quella di separare l’attività di vendita da quella della consulenza, richiamandoci all’esempio delle farmacie, dove i costi dei prodotti da banco sono legati al prodotto, mentre per vendere prodotti farmaceutici complessi e più evoluti è necessaria la diagnosi e le competenze del professionista (medico), esattamente come quelle del consulente finanziario a parcella per i progetti di investimento più complessi. Questo permetterebbe di neutralizzare il conflitto di interessi attualmente esistente e di eliminare la conflittualità tra la figura professionale del consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede e quella del consulente autonomo (c.d. indipendente), proprio perché strutturalmente sono due modelli funzionali diversi nel contesto industriale del risparmio gestito in Italia. 

* Presidente Federpromm

Ascofind: costi elevati del risparmio gestito un freno alla partecipazione ai mercati dei clienti al dettaglio

Secondo Ascofind, l’eccessivo livello di costi e oneri dei prodotti finanziari e assicurativi costituisce un freno alla partecipazione ai mercati finanziari da parte dei clienti al dettaglio. L’ESMA ha evidenziato che in Italia i costi e gli oneri dei fondi OICVM sono tra i più elevati tra i vari stati membri dell’UE.

Di recente, Ascofind – Associazione per la Consulenza Finanziaria Indipendenteha dato risposta alla consultazione indetta dalla Commissione europea e denominata “Strategia dell’UE per gli investitori al dettaglio”. L’iniziativa della Commissione si inquadra nel processo in corso di revisione della Direttiva Mifid II, che ha come scopo quello di “far sì che i consumatori che investono sui mercati dei capitali possano farlo con fiducia, che i risultati di mercato migliorino e che la partecipazione dei consumatori aumenti”.

Il principio alla base della risposta di Ascofind è che l’aumento del numero di consumatori che investono convogliando il capitale verso le imprese del settore privato potrebbe accelerare il processo di ripresa economica dopo la pandemia di COVID-19.

Qui di seguito il testo integrale della risposta di Ascofind (tradotto dall’inglese).

“……Un recente Rapporto sugli investimenti finanziari delle famiglie italiane, pubblicato a dicembre 2020 dall’Autorità italiana Consob, rivela che solo il 33% dei risparmiatori italiani accede ai mercati finanziari. I principali deterrenti dagli investimenti finanziari sono la mancanza di fiducia, di informazione e di supporto al processo decisionale. Di conseguenza, circa un terzo delle attività finanziarie delle famiglie italiane è detenuto in strumenti liquidi, contanti e depositi bancari.

I prodotti più frequentemente detenuti dalle famiglie italiane sono i fondi comuni di investimento, i prodotti di investimento assicurativi e i titoli di Stato italiani. Sul totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie, i fondi OICVM rappresentano il 10,7% mentre i prodotti di investimento assicurativo rappresentano il 17,1%.

L’eccessivo livello di costi e oneri dei prodotti finanziari e assicurativi costituisce un ulteriore freno alla partecipazione ai mercati finanziari da parte dei clienti al dettaglio. Una recente pubblicazione di ESMA (Performance and Costs of EU Retail Investment Products, 2021) ha evidenziato che in Italia i costi e gli oneri dei fondi OICVM sono tra i più elevati tra i vari stati membri dell’UE.

Per quanto riguarda i prodotti previdenziali, circa il 40% dei partecipanti ha sottoscritto piani pensionistici individuali offerti dalle compagnie di assicurazione con costi medi annui del 2,20%, sei volte superiori ai fondi pensione professionali.

Una delle cause principali dell’elevato costo risiede nell’insufficiente concorrenza nella distribuzione e nelle modalità di remunerazione dei distributori e dei consulenti finanziari, sulla base delle retrocessioni delle commissioni delle aziende manifatturiere. Infatti, a causa del pagamento degli incentivi, la consulenza fornita dagli intermediari può essere sbilanciata verso prodotti con maggiori ricompense per gli intermediari, con un conseguente ulteriore impatto negativo sulla fiducia degli investitori.

La normativa MiFID II ha mitigato questi effetti negativi, introducendo regole relative alla legittimità degli incentivi nei servizi di investimento e una maggiore trasparenza sui costi pagati dagli investitori retail.

Tuttavia, sulla base dei risultati dell’indagine pubblicata dalla Consob, gli investitori mostrano una scarsa comprensione del sistema di remunerazione del servizio di consulenza: il 40% ritiene che sia pagato dalla banca, il 15% che sia gratuito, oltre il 20% non conosce la risposta. Solo il 5% circa ha capito che il servizio è a carico del cliente.

A tre anni dalla sua introduzione, le soluzioni adottate dalla Direttiva per fornire sufficiente chiarezza sugli incentivi perpetrati da distributori e consulenti finanziari evidentemente non hanno raggiunto gli obiettivi auspicati.

Un aumento della partecipazione dei clienti al dettaglio ai mercati finanziari e un clima più coerente di fiducia degli investitori non possono essere raggiunti se non è garantita la trasparenza dei costi dei prodotti e del servizio di consulenza fornito ai clienti.

Nel Consiglio tecnico alla Commissione del marzo 2020, l’ESMA propone di migliorare la comprensione da parte dei clienti degli incentivi e dell’effetto che hanno sulla distribuzione dei prodotti di investimento e sull’informativa MiFID II esistente. La Commissione dovrebbe migliorare la comprensibilità e la chiarezza delle informazioni sugli incentivi esistenti introducendo l’obbligo di includere, in tutte le informazioni sugli incentivi, una spiegazione dei termini utilizzati (ad esempio, pagamenti di terzi). Tale spiegazione dovrebbe essere sufficientemente chiara, e utilizzare termini semplici per garantire che i clienti al dettaglio comprendano la natura e l’impatto degli incentivi: “I pagamenti di terze parti sono pagamenti ricevuti dall’azienda per avervi venduto questo prodotto e fanno parte dei costi che sostenete per il servizio fornito dall’azienda, anche se tali costi non vengono pagati direttamente all’azienda”. Ascofind sostiene fortemente la proposta dell’ESMA“.