Settembre 11, 2025
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Si scrive inclusività, ma si legge “parità”. L’ombra scura delle quote di genere si allunga anche sulle imprese

Politiche di differenziazione nei ruoli apicali portano il consumatore a fidarsi maggiormente del brand, ma come preservare la meritocrazia e la competitività nelle aziende dai “danni collaterali”  delle politiche di parità?

Di Massimo Bonaventura

La nostra Costituzione democratica, all’art. 3, recita al primo comma “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, e al secondo comma dà profondità al principio, affermando che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In relazione al lavoro, all’art. 4 la nostra Carta dice che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (…) Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Appare evidente, pertanto, che i nostri costituenti abbiano voluto affermare quattro principi inalienabili, ai quali devono necessariamente adeguarsi (e conformarsi) le norme dell’Ordinamento:
1) uguaglianza di tutti di fronte alle leggi, senza distinzioni;
2) intervento dello Stato per rimuovere le disuguaglianze;
3) diritto di partecipazione di tutti alla vita politica, economica e sociale del Paese;
4) diritto di tutti al lavoro, secondo le proprie possibilità e le proprie scelte.

Da alcuni decenni – più o meno dal Secondo Dopoguerra – il dibattito ha subito una certa evoluzione, passando da una prima fase di necessario riconoscimento dei diritti di partecipazione civile e politica alle donne (dal 1945 a tutti gli anni ’70) a quella durante la quale si è discusso (dagli anni ’80 ai primi anni 2000) sulle modalità con cui tale riconoscimento dovesse avvenire a vantaggio del mondo femminile. In tal senso, la nostra Società Civile ha saputo produrre e mettere in pratica l’unico principio veramente concreto e vantaggioso, quello delle Pari Opportunità, in base al quale gli art. 3 e 4 della Costituzione troverebbero sempre puntuale applicazione: ogni cittadino, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali deve avere le stesse opportunità di crescita personale, sociale ed economica, e quindi anche in relazione al mondo del lavoro.

Pari opportunità, non parità forzosa. La distinzione tra le due terminologie è di importanza fondamentale se si vuole comprendere come lo stesso dibattito avviato nel 1945 abbia preso una vera e propria “deriva” che oggi rischia di incidere negativamente anche nel mondo dell’impresa e nel valore dell’imprenditorialità. Infatti, il salto dal concetto di pari opportunità a quello di “parità” implica che ad una categoria di soggetti momentaneamente indietro rispetto ad un altra si debba concedere non l’opportunità di poterla raggiungere autodeterminandosi nella libera espressione delle proprie capacità, bensì una “scorciatoia” che, in nome della invocata parità, consenta alla categoria meno sviluppata di occupare posizioni non per meriti ma per via di una forzatura che oggi viene legittimamente riservata alle sole categorie protette (disabili non cognitivi, audiolesi etc).

Quella femminile, in tutta evidenza, non è una “categoria protetta”, eppure è questo l’assurdo risultato che i promotori di una martellante campagna mediatica finiscono con l’inculcare nelle giovani generazioni in relazione alle donne, ossia al genere che si intenderebbe tutelare. Questa insana politica di parità, che oggi sembra aver sostituito del tutto, nella narrazione mainstrem, quella “sana” delle pari opportunità, ha già prodotto pessimi risultati in politica e nelle amministrazioni locali, dove l’applicazione delle c.d. quote rosa non ha prodotto quell’innalzamento della qualità media della nostra classe politica nella sua interezza (uomini e donne), frenata  com’è dalle candidature ancora saldamente in mano alle segreterie di partito e non al popolo. Pertanto, per quale motivo la politica di parità, che è la morte del principio di meritocrazia e che non piace a moltissime donne, dovrebbe fare del bene al mondo delle aziende?

Di questa realtà emergente agli occhi di qualunque imprenditore devono essersi accorti anche gli stessi media, che negli ultimi mesi hanno tralasciato (ma non abbandonato) il principio di parità ed hanno cominciato a parlare incessantemente di “inclusività” nel mondo del lavoro, spinti da recentissimi studi di settore secondo i quali la politica della c.d. inclusività – politicamente più corretta e meno esposta a critiche rispetto a quella della parità – permetterebbe alle aziende che la adottano un aumento della produttività del 21% già nei primi 24 mesi, cui seguirebbero evidenti sviluppi in termini di positività nell’ambiente di lavoro, di fatturato e di utili.

Ma cosa vuol dire esattamente Inclusività, ed in cosa si dovrebbe differenziare dalla parità? In generale, con questo termine s’intende un atteggiamento di accoglienza e integrazione in azienda verso tutte le identità di genere e tutti gli orientamenti sessuali, affinché questi tratti non si trasformino in ostacoli sul cammino verso la costruzione di una carriera; la parità, invece, sottintende una condizione per la quale tutte le persone all’interno di un’azienda – specie nei ruoli apicali – debbano essere egualmente (e  forzosamente) rappresentate, a prescindere dal merito. L’inclusività, quindi, sembrerebbe essere più vicina al concetto di pari opportunità, ma così non è, dal momento che il substrato culturale che promuove l’inclusività sta usando tale principio per ribadire, sotto altre vesti, la pretesa di una maggiore partecipazione ai percorsi di carriera non per le donne meritevoli – che sono tante! – ma per quelle che li reclamano in base alla semplice appartenenza al genere femminile.

In pratica, si è coniato un termine diverso – i media hanno sempre fame di novità, e vanno matti per i neologismi – per parlare comunque di parità (e “quote”) anche nel mondo delle aziende, dove le quote invece potrebbero compromettere la competitività. Nelle imprese, infatti, dovrebbero ricoprire ruoli chiave le persone più adatte per quella specifica posizione: una selezione meritocratica, nella quale non c’è posto per un prerequisito sessista come quello del genere. Per esempio, se in un Cda di 10 membri si concedesse metà delle poltrone alle donne solo in quanto tali e non perchè più adatte e qualificate di altri colleghi uomini, l’appartenenza al genere femminile diventerebbe una variabile discriminativa (ai danni degli uomini) che sul piatto della bilancia potrebbe avere più peso rispetto alle abilità e alle competenze personali. In più, le dirigenti elette in tal modo sarebbero consapevoli di sedersi sulla poltrona in una posizione che implica una condizione di implicita inferiorità.

Il tanto agognato posto nella stanza dei bottoni, insomma, si trasformerebbe immediatamente in una “gentile concessione”; ecco il vero bias cognitivo che esiste dietro il concetto delle quote rosa. Portando alle estreme conseguenze tutto ciò, è lecito pensare che in qualunque ecosistema lavorativo le donne chiamate a sedere in posizioni apicali solo per via dell’appartenenza al genere femminile potrebbero essere scelte solo in quanto “leali e riconoscenti” a chi le ha preferite ad altre candidate di parità; pertanto, sarebbero perennemente ricattabili. Inoltre, oggi bisogna capire cosa fare con le persone che non si riconoscono in una logica di genere binaria, e cioè come comportarsi di fronte a identità di genere non corrispondenti al sesso biologico. Infatti, anche queste categorie di persone potrebbero ambire – come già fanno – ad avere un proprio spazio nel mondo aziendale, asserendo di essere discriminate. Quindi, potrebbe farsi spazio l’idea di definire varie “quote” a seconda dell’identità di genere di ognuno, ma a quel punto l’impresa non sarà più un insieme di persone capaci e competenti, e si trasformerà in un susseguirsi di figurine con cui riempire un album imposto per legge.

A monte di questo dibattito, tuttavia, emergono alcuni dati che ad alcune aziende di settori specifici (moda, auto motive, intrattenimento) piacciono molto. Infatti, secondo la ricerca Diversity Brand Index 2023, realizzata da Fondazione Diversity e Focus Management in collaborazione con GEA Consulenti di direzione e Harvard Business Review Italia, quando i consumatori percepiscono un brand come inclusivo e diversificato, allora l’engagement aumenta, portando la produttività a lungo termine a crescere e generando un incremento dei ricavi che può arrivare al +21%. Insomma, il consumatore di oggi è molto più attento ai valori che un’azienda trasmette. E di fronte a un mercato ipercompetitivo, per mettere il turbo al fatturato non bastano più l’ottimizzazione dei processi e delle vendite, ma bisogna anche creare presso il pubblico un’immagine in linea con la narrazione mainstream.

Il problema, tuttavia, è che mentre si blatera di “gap reddituale” tra lavoratrici e lavoratori a parità di mansioni – un falso assoluto, costruito a tavolino – e si discute animatamente di “condizione femminile nel lavoro”, in Italia le donne magistrato sono già il 54% del totale (di cui circa il 78% nelle sezioni famiglia), le donne avvocato la metà di tutta l’avvocatura, le insegnanti di tutti i livelli (anche universitarie) sono circa il 70% dell’intero corpo docenti, le donne medico il 46% e le giornaliste il 42%. Il nostro attuale premier è una donna, e l’Europa è attualmente governata da due donne, una a capo della BCE ed una a capo della Commissione Europea.

E quindi, cari sostenitori del principio di parità “ammazza-merito”, di cosa stiamo parlando?

Top Management, anche nelle aziende lo spettro della parità forzosa di genere. E la meritocrazia?

Che fine sta facendo la meritocrazia in azienda e nelle professioni? Perché oggi si rende quasi imprescindibile imporre anche alle imprese il credo della parità forzosa tra genere femminile e maschile? Quali sono le tecniche di comunicazione dei media che favoriscono questo pericoloso cambio di passo?

Editoriale di Alessio Cardinale*

C’era una volta il principio di pari opportunità tra uomini e donne. Fu salutato, a suo tempo, come una giusta conquista di civiltà, grazie alla quale anche le donne avrebbero potuto godere, in tutti gli ambiti della Società Civile, delle stesse prerogative legislative e regolamentari per ambire, esattamente come gli uomini, ad un lavoro soddisfacente, ad una posizione di carriera e ad un identico trattamento economico, a tutti i livelli. Per arrivarci c’è voluto un po’ di tempo, ma l’obiettivo è stato raggiunto, ed oggi possiamo già annoverare tantissime donne in posizioni apicali e di vera leadership in economia, in politica e nei media (per non dire dei magistrati donna, che sono il 53% del totale in Italia).

Qual è il comune denominatore che ha portato queste donne ai vertici della carriera? Semplice: un mix di qualità personali, competenza, esperienza, ambizione, impegno e un pizzico di fortuna. In poche parole, lo hanno meritato. Si tratta di donne che si sono messe in gioco, si sono impegnate senza pensare neanche per un attimo di poter avere una corsia preferenziale. Di più, nessuna di loro avrebbe mai sopportato l’umiliazione derivante da una sorta di “raccomandazione di genere“.

Il principio di meritocrazia, pertanto, associato a quello delle pari opportunità, ha consentito di raggiungere questo risultato che si è consolidato negli anni, e di fronte al quale le continue rivendicazioni di genere – alimentate da una certa politica  senza troppi scrupoli e molto attenta a fidelizzare il voto femminile – dovrebbero finalmente avere un termine.

La normalità, oggi, dovrebbe essere quella di una civile competizione tra professionisti – non distinguendo affatto per il loro genere – senza che nessuno di essi vada a ricercare delle scorciatoie per ottenere dei privilegi. Invece, in Italia si sta andando pericolosamente oltre il concetto di meritocrazia. Dopo l’affermazione dei principi di pari opportunità, infatti, a molti fu chiaro che qualcosa non aveva funzionato benissimo nel tradurre gli enunciati di principio in ordini di realtà. Infatti, l’Italia si è ritrovata con una pletora di commissioni P.O. costituite in ogni anfratto della Società Civile e delle attività produttive, composte ope legis solo da donne, in evidente contrasto con la più elementare delle regole costituzionali, quella che vieta espressamente anche la discriminazione per genere. Successivamente, è arrivato il turno delle “quote rosa” in politica, e lì fu subito chiaro che il corposo universo che sostiene questo modo di intendere le relazioni uomo-donna non puntava all’affermazione delle “antiquate” pari opportunità di genere, ma ad un arbitrario e ingannevole superamento di esse, individuabile nel concetto di “Parità Forzosa”.

Cosa intendiamo per “parità forzosa”? Per renderla più simpatica, gli illuminati della (dis)informazione la chiamano “diversity“, ma il suo vero nome dovrebbe essere “shortcut” (scorciatoia). Per chiarire meglio, facciamo un esempio: se una donna studia, si impegna, prende la laurea, frequenta con successo un master, fa la giusta gavetta, mostra di essere brava ed avere “i numeri” per ricoprire un certo ruolo, e lo ottiene, questo è frutto delle pari opportunità; se una donna ottiene il ruolo solo “in quota”, e cioè in virtù della sua appartenenza al genere femminile, senza aver prima dimostrato di avere studiato, di essersi impegnata, di avere una laurea, di aver frequentato un master, di aver fatto la gavetta, di essere brava ed avere i numeri, questo è frutto della parità forzosa, ed è quello che sta succedendo in Italia anche nel mondo aziendale (in politica nazionale e regionale ormai è la norma).

In pratica, il criterio della meritocrazia, che nei secoli dalla rivoluzione industriale ha fatto andare avanti il mondo, viene sostituito dal criterio di raggiungimento della parità forzosa in tutti gli ambiti della Società Civile, nel nome di un evidente “diritto alla scorciatoia e al privilegio” di cui TUTTE le donne – anche quelle senza arte né parte – dovrebbero beneficiare. Nella pratica, ciò equivale alla creazione di una immensa categoria protetta il cui “handicap” sarebbe quello di essere donna e che, in relazione alle sue proporzioni, non può che sopraffare l’opposto genere condannato, invece, alla “normalità”.   

Gli esempi di quanto sopra si trovano a decine, ogni giorno, sui media, grazie ad un elevatissimo livello di omologazione cui l’informazione in Italia si presta volentieri sul tema. Di solito, la notizia viene data con le seguenti modalità: “…Ancora bassa la percentuale di donne tra i dirigenti d’azienda nel settore farmaceutico…”, oppure “….Solo il 12% di donne tra la classe arbitrale nel mondo del calcio…”, oppure ancora “….soltanto 10 donne su 100 sono a capo di una filiale bancaria…” (ed altre, che replicano il medesimo stile). Peraltro, anche il settore della Consulenza Finanziaria non è esente da questa modalità di narrazione. Non è raro, infatti, leggere titoli come “Consulenti finanziari, solo il 25% è donna“. In pratica, la “notizia” è che sarebbero poche, in determinati settori, le donne in posizione di rilievo, ma quali siano le cause di queste percentuali non viene minimamente detto, facendo però intendere il lettore che tutto ciò sia il risultato di una forma di discriminazione ai danni delle pari opportunità delle donne, per cui è necessario imporre il modello della “parità forzosa”, con buona pace della meritocrazia.

Capovolgendo l’esempio al maschile, e facendo riferimento a statistiche autentiche riguardanti il mondo del lavoro, avete mai letto una notizia dal titolo “Solo 15 uomini su 100 svolgono il lavoro di insegnante“? Ovvio che no, così come scommetto che nessuno di voi abbia mai letto una notizia che dica “Quasi nulla la percentuale di donne presenti nell’industria estrattiva e nei trasporti di lunga percorrenza“. Nel primo caso, nessun uomo grida allo scandalo, nè si sente discriminato; quella statistica è frutto di scelte, non di una discriminazione verso il genere maschile nel mondo della Scuola. Relativamente al secondo titolo ipotetico – quello del lavoro in miniera o su un TIR – ci si chiede perchè le donne, in termini di genere, rivendicano (legittimamente) posizioni di vertice nelle aziende, ma non si ritengono idonee a svolgere lavori pesanti. Anche questo, mi pare, è tutto frutto di una scelta.

I comunicati stampa, poi, ci danno esempi di rara bellezza stilistica su questo tipo di informazione strumentale. Lo scorso 7 Ottobre, per esempio, Askanews usciva con questa agenzia: “…In Esselunga solo il 15% dei dirigenti sono donne: in pratica su un totale di 80, le dirigenti sono appena 12. E’ quanto emerso durante la conferenza stampa di Esselunga, che ha per presidente proprio una donna, Marina Caprotti, organizzata in occasione della presentazione, tutta al maschile, del primo bilancio di sostenibilità aziendale…”. Per chi studia la materia della comunicazione – ivi compresa quella che si genuflette al politicamente corretto e agli ordini di scuderia – questo comunicato è oro colato. Peraltro, Luca Lattuada, chief Human resources office di Esselunga, ci teneva a precisare che “…Noi siamo una azienda di circa 25mila persone, che per circa il 50% è fatta da donne, ma ci sono aree dove i ruoli di responsabilità dati alle donne, come quelle degli store, sono sicuramente da migliorare. Abbiamo avviato un percorso di formazione e sviluppo della leadership femminile per fare crescere questa quota“.

Ebbene, chi ha pronunciato questo virgolettato –e stiamo parlando di un top manager, mica poco – si è semplicemente limitato a ripetere senza riflettere il mantra della parità forzosa e delle quote (rosa), ma non sa neanche il motivo per cui si renderebbe necessario un “miglioramento”. Del resto, come potrebbe mai spiegare la questione, se non essendo costretto ad affermare la priorità di assegnare ruoli decisionali alle donne solo per la circostanza di essere tali, in barba al millenario principio di meritocrazia che ha sempre dominato le dinamiche ed il successo delle aziende?

C’è da dire che nel 2019 Esselunga ha registrato un aumento di donne nei ruoli chiave pari al 17% rispetto all’anno precedente. A questo punto, verrebbe da chiedersi se queste manager, quel ruolo, lo abbiano meritato davvero, oppure lo abbiano ricevuto in base al criterio della parità forzosa, e cioè per via della propria appartenenza al genere femminile. “Questo non è un cambiamento che si fa nel breve” – ha sottolineato Lattuada – “In questo percorso di cambiamento si inseriscono iniziative che prevedono workshop aziendali e interaziendali per superare gli stereotipi e creare organizzazioni più inclusive…”.

Forse la meritocrazia in azienda, secondo il top manager Lattuada, è diventata un vecchio stereotipo ormai superato e privo di valore? Così, per capire.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, dice la nostra Costituzione all’art. 3. Forse è il caso che questo concetto venga fatto proprio dai CdA delle grandi aziende, affinchè se ne ricordino prima di far celebrare l’elogio della parità forzosa ai propri top manager.

* Direttore editoriale di Patrimoni&Finanza