Settembre 19, 2025
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Consulenti finanziari a parcella. Nel confronto tra modello americano e italiano, vince quello inglese

Sebbene il modello italiano di consulenza finanziaria indipendente sembri essere più protettivo per gli investitori rispetto a quello americano, questo non significa che sia il migliore possibile. Infatti, quello anglosassone si rivela come il più equilibrato di tutti.

Sebbene anche il sistema finanziario degli USA si stia avvicinando, in qualche modo, verso un modello di regole più stringenti, le differenze con il sistema finanziario europeo permangono, soprattutto in termini di “maturità finanziaria” degli investitori. Negli Stati Uniti, infatti, il messaggio che i giovani adulti ricevono ormai da tre generazioni è che prima di acquistare qualunque strumento di investimento è bene chiedere una consulenza ad un buon pianificatore finanziario. In questo modo, l’americano medio ha la garanzia prestata dalla responsabilità fiduciaria di un consulente che non ha alcun incentivo a vendere un prodotto o un servizio e, quindi, è privo di qualunque conflitto di interesse. In più, è in grado di offrire un buon livello di educazione finanziaria a tutti i membri adulti della famiglia – anche ai giovanissimi, e a differenza dell’Italia è pagato per questo – sebbene possa sembrare costoso. Ma alla fine è opinione comune che ne valga la pena.

Da questo scenario si comprende come il consulente indipendente sia il primo passaggio, per la maggior parte degli americani, verso la successiva fase dell’investimento, che negli Stati Uniti si concentra subito su quattro attività fondamentali: l’accantonamento per la pensione, il mutuo per l’acquisto della casa, la copertura sanitaria (principale ed aggiuntiva, se non sono pagate dal datore di lavoro come benefit) e, per ultima, la consulenza di investimento “libero” a medio termine, di solito sovraesposta verso la componente azionaria sulla scia del vecchio adagio 60/40 (60% azionario e 40% obbligazionario).

L’americano medio va dal consulente finanziario con le idee chiare, al punto che il non affrontare anche una sola delle prime tre attività determina sospetto e diffidenza verso il professionista che si dovesse concentrare solo sulla quarta.

Un altro mondo, rispetto all’Italia, ma anche da noi qualcosa sta lentamente cambiando. In particolare, un punto di svolta è accaduto con la “consacrazione” della consulenza finanziaria fee only (o a parcella) e di coloro che la esercitano professionalmente in forza dell’iscrizione in una apposita sezione dell’Organismo Unico dei consulenti finanziari. Naturalmente, esistono i pro e i contro, ma i primi sembrano essere più rilevanti dei secondi. La parte migliore di farsi assistere da un consulente finanziario indipendente (o autonomo) è sapere che egli non vende nulla fuorchè la propria competenza e professionalità. Opera come fiduciario, garantendo l’assenza totale di conflitto di interessi. Questo, naturalmente, non garantisce che gli investitori riceveranno consigli migliori rispetto a quelli dati da uno qualunque dei consulenti non autonomi – che in Italia sono attualmente il 98% del totale dei consulenti – ma ciò aumenta le probabilità per i clienti di ricevere consigli che sono veramente destinati a essere nel loro migliore interesse.

Senza alcun legame con società specifiche, i consulenti indipendenti sono liberi di offrire una gamma più ampia di soluzioni per pianificare il raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, un consulente indipendente ha, per definizione, un bassissimo (e difficile) controllo dell’esecuzione delle operazioni suggerite al cliente, al contrario di un consulente non autonomo che, pur operando con un potenziale conflitto di interesse, conclude direttamente le operazioni finanziarie. Pertanto, chi vuole ricevere consulenza di investimento da un consulente indipendente dovrà rivolgersi ad un altro professionista o ad una banca per le negoziazioni titoli, per l’acquisto di fondi e di prodotti assicurativi.

Negli USA, i consulenti finanziari indipendenti sono presenti in grandissimo numero, e addebitano le proprie parcelle in diversi modi. Il metodo più comune è l’applicazione di una percentuale calcolata sulle masse amministrate (asset under management o AUM) e addebitata ogni trimestre, con pagamento automatico disposto dal cliente. Un altro metodo è quello di addebitare una tariffa oraria o mensile, oppure una tariffa fissa a prescindere dalle masse amministrate.

In generale, i pianificatori finanziari a parcella addebiteranno tra i 150 USD e i 400 USD l’ora, oppure tra i 2.500 e i 10.000 USD l’anno. Negli Stati Uniti sono ammessi gli accordi commerciali tra consulenti indipendenti e quelli non indipendenti, così per i primi è possibile guadagnare anche una parte delle commissioni, retrocesse dal broker-dealer o dall’agente assicurativo, che il cliente pagherà su prodotti di investimento e su quelli assicurativi. Da accordi come questo, però, derivano potenziali conflitti di interesse che i consulenti indipendenti americani devono evitare seguendo regole di estrema compatibilità tra i prodotti consigliati e le caratteristiche del cliente. Del resto, i controlli sono rigorosi, efficaci, rapidi ed estremamente punitivi (anche con la detenzione in carcere), e diversi professionisti vengono radiati ogni anno per avere permesso la sottoscrizione di prodotti di investimento – per mano dei broker di fiducia – non adatti alla clientela.

Infine, i consulenti USA possono anche addebitare commissioni di performance, se previste dal contratto di asset management, quando superano un benchmark di rendimento per i loro clienti. Anche le commissioni di performance, a ben vedere, creano una sorta di conflitto di interessi interno, poiché per raggiungere l’obiettivo di superamento del benchmark il consulente potrebbe essere portato a fa assumere al cliente più rischi di quanti effettivamente egli sia in grado di sopportare.

In definitiva, anche il modello americano di consulenza finanziaria non sfugge a possibili aree di conflitto di interesse, a differenza di quello italiano che, invece, prevede una separazione netta tra consulenti indipendenti e consulenti non autonomi, tra i quali non esistono attualmente punti di contatto, neanche in termini di possibili accordi professionali.

Sebbene quello indipendente italiano sembri essere, quindi, un sistema più protettivo per gli investitori rispetto a quello americano, questo non significa che sia il migliore possibile. Infatti, il modello anglosassone si rivela come il più equilibrato e tutelante di tutti, sia per gli investitori che per tutte le categorie di soggetti della catena produttiva-distributiva di servizio. Esso, in sintesi, prevede una sorta di cooperazione fra tre soggetti che, pur mantenendo le proprie caratteristiche, conservano la loro autonomia: cliente, banca depositaria e consulente.

Questa cooperazione comporta benefici per ognuna delle figure che ne fanno parte. Infatti:

– il cliente sceglie personalmente la banca di sua fiducia presso la quale depositerà il denaro in custodia,
– il cliente sceglie il consulente a cui affidare la gestione del proprio patrimonio depositato in quella banca,
– il consulente opera in piena tranquillità ed indipendenza, senza conflitto di interesse e senza vincoli commerciali di alcun tipo, nel rispetto di un contratto di gestione di portafoglio,
– la banca depositaria, in qualità di custode, ha una funzione di controllo sull’operatività e sulla buona diligenza del consulente, mentre lo stesso consulente controlla che la banca esegua le disposizioni impartite dal cliente secondo le condizioni ed i tempi concordati.

Il vantaggio più evidente, che segna così il superamento dei limiti tipici del contratto mono-mandatario attualmente in vigore in Italia, è l’eliminazione del conflitto di interessi, dal momento che il modello esclude ogni forma di retrocessione dalle società prodotto, ma attribuisce al consulente (indipendente) anche la certezza dell’esecuzione degli ordini, che così ricadrebbero sotto il proprio controllo.

Anche nel Regno Unito, naturalmente, esistono i consulenti che guadagnano una commissione dai prodotti finanziari (soprattutto assicurativi) venduti direttamente ai clienti, ma il sistema inglese non prevede alcuna collaborazione tra i c.d. tied agents – una sorta di consulenti non autonomi simili a quelli italiani – ed il consulente finanziario vero e proprio (financial adviser), e qualunque accordo economico tra le due figure è espressamente vietato.

La Finanza Comportamentale 3.1: pianificazione “spietata” associata a teorie sul carattere

Con gli studi di R. Thaler siamo giunti allo “stato dell’arte” della Finanza Comportamentale? No. Oggi, infatti, è possibile affermare con forza le basi di una nuova teoria, quella che consente di impostare la Consulenza come momento in cui creare una cornice di riferimento, utile al cliente per far evolvere la sua cultura finanziaria impedendogli di rimanere vittima delle sue distorsioni emotive.

Di Sabrina Pellegrini*

Negli anni ’30, John Maynard Keynes getta a terra i primi semi della Finanza Comportamentale, quando nella sua opera principale “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, illustra il comportamento che motiva le persone verso iniziative imprenditoriali. Nel suo volume, senza aver effettuato analisi economiche e di mercato , egli mostra come le persone prendano decisioni poco razionali, ma non per questo con minor probabilità di successo. Il padre della Macroeconomia va anche molto oltre, portando l’attenzione su quei comportamenti di massa carichi di ottimismo e pessimismo, e spiega la crisi del 1929, nonché le azioni di intervento dello stato per guidare e/o correggere quelle stesse ondate emotive.

Daniel Khaneman

Negli anni ’50, Herbert A. Simon inizia a parlare di una razionalità limitata che interviene nel processo decisionale, accenna ad alcuni fattori che ostacolano delle decisioni efficienti (come le informazioni possedute, i limiti cognitivi, il tempo a disposizione per decidere, etc), ma i veri e propri germogli di Finanza Comportamentale cominciano a spuntare negli anni ’70, grazie agli studi pionieristici di Daniel Khaneman.

Il noto psicologo, Premio Nobel per l’Economia grazie alle sue ricerche, mette in luce concetti come quello dei bias cognitivi, ossia distorsioni emotive che intervengono nel rapporto con il denaro e con le decisioni connesse ad esso. Si può dire che con questi studi viene rilasciata la Finanza Comportamentale nella sua versione 1.0.

Richard Thaler

Un secondo upgrade – la versione 2.0 – viene impostata da Richard Thaler, e nasce con le ricerche sulle scelte finanziarie viste e considerate come i frutti di una architettura comportamentale che può essere corretta e/o guidata grazie alle c.d. “spinte gentili”.

La Finanza Comportamentale 3.0, infine, è quella di Michael M. Pompian, che successivamente a Thaler inizia ad abbinare le teorie sulla personalità alle scelte finanziarie del cliente, ponendo la c.d. Profilazione alla base delle raccomandazioni sui prodotti e delle scelte comunicative più efficaci per prestare Consulenza finanziaria.

Siamo così giunti allo “stato dell’arte” della Finanza Comportamentale? No. Oggi, infatti, è possibile affermare con forza le basi della versione 3.1, quella che pone quale cornice di riferimento la Pianificazione Finanziaria abbinata alle teorie sul carattere. Questo approccio, come vedremo, consente di impostare la Consulenza come momento in cui creare una cornice di riferimento, utile al cliente per far evolvere la sua cultura finanziaria, impedirgli che rimanga vittima delle sue distorsioni emotive, dei bias cognitivi e del suo stesso carattere, e infine fargli prendere le redini delle sue scelte di investimento.

Nel 2020 diversi indicatori sociali – alti tassi di disoccupazione che colpiscono soprattutto l’autonomia economica dei giovani, la Pandemia, le difficoltà mostrate dallo Stato nel garantire forme previdenziali adeguate – sono diventati il segnale di allarme di un’unica esigenza: occuparsi della propria Pianificazione Finanziaria. Imparare a programmare con largo anticipo – dall’istruzione dei figli all’acquisto della casa, dall’assistenza sanitaria all’età pensionabile, dalla creazione di una ricchezza personale alla sua trasmissione ai figli e amati – sono diventate competenze essenziali. Per guardare al presente e al futuro con una certa tranquillità e soddisfazione, occorre possedere un’adeguata cultura finanziaria ed acquisire un metodo per progettare la soddisfazione dei propri bisogni materiali e immateriali, e quindi imparare a pianificare le risorse finanziarie per esprimere se stessi. Infatti, ogni persona amministra la propria esistenza tenendo in equilibrio due diversi piani:

– la soddisfazione di istanze proprie del Mondo Interno, come la ricerca di affetto, appartenenza e stima di sé, dimensioni poetiche ricche di infinite sfumature;

– l’appagamento di esigenze proprie del Mondo Esterno, legate alla sopravvivenza nel proprio ambiente, in una dimensione molto concreta, ricca di limiti, stretta, da un lato, dal bisogno di guadagnare e, dall’altro, dalla volontà di avere eredi e un patrimonio da trasmettere.

Quando si tratta di denaro, molti drammi personali  si generano proprio a causa della confusione tra ciò che è Interno e ciò che è Esterno. Molte persone, di fronte alle questioni legate al denaro, perdono di vista il fatto che questo viaggia come un vagone ferroviario: per natura poggia su due binari che vanno in parallelo. Un consulente finanziario oggi non può limitarsi a parlare con il cliente dei modi in cui si può gestire il risparmio, ma deve riuscire a fargli mantenere la percezione di essere prezioso e di valore, deve ricordargli di aver diritto ad una vita intima ricca e piena (Mondo Interno), mentre nel mondo là fuori egli ha bisogno di sgomitare per avere un posto di lavoro adeguato alle aspettative, negoziare continuamente l’entità delle sue entrate, fare leva sulle proprie competenze per ottenere benefit e migliori condizioni di vita, proteggere i propri cari, avere i mezzi per onorare le sue responsabilità e gli impegni (Mondo Esterno).

Questo coacervo di sollecitazioni, così diverse tra Mondo Interno ed Esterno, al momento in cui si parla di denaro entrano in confusione tra loro, e l’unico strumento capace di coniugare l’individuazione dei propri bisogni interni e l’individuazione delle proprie necessità personali (e familiari) è la Pianificazione Finanziaria, e cioè quel delicato metodo razionale che mette in relazione il nostro Mondo Interno con quello Esterno.

Ogni anno, le ricerche in proposito sottolineano quanto delicato e complesso sia questo processo, tanto che la maggior parte degli italiani ha difficoltà, rinuncia o la evita. Secondo recenti studi della Consob, le persone difettano di metodi, strumenti, informazioni su come investire il proprio denaro, su come programmare le attività di guadagno e pianificare i risparmi, come difendere ed incrementare il patrimonio disponibile.

La Pianificazione Finanziaria risulta – per la maggior parte di noi – molto difficile da svolgere, poiché per sua natura costringe a fare il punto su come stiamo amministrando la nostra vita, e ci confronta su elementi molto difficili da sostenere, poiché implicitamente ci pone di fronte a delle questioni “scomode”. Si potrebbe dire che la Pianificazione finanziaria è necessaria ma dolorosa, e ci pone una domanda secca e diretta: “A che punto sei nella tua vita?”.

Sabrina Pellegrini

La Finanza Comportamentale 3.1, pertanto, ha l’obiettivo di indicare chiaramente la necessità di governare questo processo di attenta (e spietata) auto-analisi, imparando a dare uguale attenzione a tutte le competenze coinvolte nella Pianificazione. Per questo oggi la figura del Consulente Finanziario è assai distante da quella di un semplice venditore. Il Consulente Finanziario, nel 2020, è un professionista preparato e capace, in grado di accompagnare il risparmiatore nel creare quella roccia alla quale aggrapparsi, quando le onde del Mondo Interno del cliente diventano impetuose a causa di un mercato eccessivamente volatile, che può mettere in crisi speranze ed aspettative.

Il Consulente Finanziario, infine, è oggi un professionista in grado di sostenere la componente emotiva del cliente nel corso del processo di Pianificazione degli investimenti, durante il quale paure ed insicurezze possono essere di ostacolo, qualora non ben governate.

* Psicologa e Coach per consulenti finanziari, esperta di Finanza Comportamentale

Le famiglie italiane ed il patrimonio immobiliare privato: chi pagherà le tasse di successione?

Nell’ambito di una corretta pianificazione patrimoniale, i detentori di immobili di pregio e/o da reddito dovranno accantonare una specifica riserva di denaro per garantire ai propri familiari la copertura delle imposte di successione, previste in forte aumento negli anni a venire anche per via della probabile riforma del Catasto.

Coloro che hanno creato ricchezza, ed oggi si ritrovano nella fase “discendente” della propria vita (ma mossi da maggiore saggezza), faranno bene a dedicare maggiore attenzione al futuro del patrimonio familiare. In particolare, chi ha privilegiato lo sviluppo degli asset immobiliari a discapito di quelli mobiliari (cioè, il denaro disponibile) dovrebbe leggere questo articolo e trarre subito le dovute conclusioni operative.

Infatti, la ricchezza complessiva degli italiani è composta per il 68.0% circa in proprietà immobiliari, polverizzate in tutti gli strati sociali della popolazione. In particolare, la superficie complessiva dei soli immobili residenziali degli italiani è di circa 2,4 miliardi di mq, ed il suo valore complessivo è pari a circa 3.450 miliardi di euro. Secondo l’ultimo Rapporto Istat e Banca d’Italia, a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 9.743 miliardi di euro. Di questi, le abitazioni costituiscono la principale forma di investimento e, con un valore di 5.246 miliardi di euro, rappresentano la metà della ricchezza lorda. In particolare, poi, circa 600.000 famiglie detengono una quota pro-capite (da 3 in su) di immobili superiore a quella media, e quasi tutti vengono “messi a reddito” per integrare il proprio tenore di vita. Molte di queste famiglie, però, non vedono ancora emergere le nuove leadership nella generazione dei millennials, un pò in ritardo rispetto ai tempi di affermazione sociale, profondamente diversa da quelle precedenti e tendente a ritardare il proprio ingresso nel mondo del lavoro.

Tutto questo patrimonio immobiliare, nei prossimi 30 anni, verrà trasmesso gradualmente agli eredi, i quali si troveranno a pagare, nella migliore delle ipotesi, imposte di successione che gradualmente arriveranno ad essere pari a più del doppio rispetto a quelle attuali, con una contestuale diminuzione della generosa franchigia minima rispetto a quella prevista oggi (un milione di euro per coniuge e figli, 100.000 per fratelli e sorelle). Lo scenario, infatti, attraversa una fase di profonda mutazione: presto l’Italia potrebbe non essere più una sorta di “paradiso fiscale delle successioni e donazioni”, ma uno stato del tutto allineato a quelli dell’U.E.. Per esempio, in Francia le aliquote vanno dal 5 al 40% per i parenti in linea retta, in base al valore del bene (per un appartamento di 300.000 euro si paga il 20%, ossia 60.000 euro), con esenzione del coniuge e franchigia di 100.000 euro per i figli. Per gli altri eredi le aliquote vanno poi dal 35 al 60%. In Inghilterra (vale la pena citarla, nonostante la Brexit), invece, la franchigia è di 325.000 sterline, indipendentemente dalla parentela, e tutto ciò che eccede è soggetto ad un’aliquota del 40% (coniuge esente da imposta). In Germania, in virtù del valore del bene, le aliquote variano dal 7 al 30% per parenti in linea retta, dal 15 al 43% per fratelli, sorelle, nipoti, e dal 30 al 50% per altri soggetti (franchigia individuale da 100.000 a 500.000 euro a seconda del grado di parentela).

Pertanto, non è difficile prevedere che nel nostro Paese si possa arrivare molto presto un’aliquota media compresa tra l’8 ed il 12%, ed alla sensibile riduzione delle franchigie; l’impatto, per le  600.000 famiglie proprietarie di apprezzabili patrimoni immobiliari, sarà devastante: su di esse graveranno, nella migliore delle ipotesi, imposte complessive (patrimonio mobiliare ed immobiliare) per circa 150 miliardi di euro, pari ad una media di circa 250.000 euro a famiglia, che potrebbero aumentare se verrà portata a termine la riforma del Catasto.

Chi pagherà queste imposte? E soprattutto, con quali mezzi verranno pagate, se il de cuius non avrà accantonato somme liquide sufficienti a coprirle?

In tutti quei casi in cui non si sono effettuate opportune donazioni in vita, questo scenario di lungo periodo, che prevede un aumento considerevole delle tasse di donazione e successione, suggerisce caldamente di accantonare una specifica riserva di denaro che serva a garantire ai propri familiari il pagamento delle imposte di successione, quando verrà il momento.

A ben vedere, il passaggio generazionale può essere vantaggiosamente pianificato già in vita, donando – come già detto – parte dei propri beni a favore dei congiunti. Da un punto di vista squisitamente fiscale, successione e donazione hanno la stessa struttura impositiva, ed è evidente come il sistema di imposizione italiano sia oggi molto conveniente. Infatti, un padre che dona/lascia in eredità al figlio un patrimonio immobiliare e mobiliare pari a circa un milione di euro:

  1. in Germania paga 75.000 euro di imposte,
  2. in Francia 195.000 euro,
  3. in Gran Bretagna 250.000 euro
  4. in Italia… zero.

Pertanto, alla luce dell’ineluttabile processo di armonizzazione europea, la probabile revisione dell’attuale struttura di tassazione dovrebbe determinare una profonda riflessione sulla opportunità di una pianificazione patrimoniale da effettuare in vita tramite l’istituto della donazione che, in vista dell’aumento delle aliquote e della diminuzione delle franchigie, avrebbe il vantaggio di proteggere i propri congiunti dai maggiori e gravosi esborsi futuri derivanti da una successione. In più, almeno fino ad oggi, la franchigia di un milione vale separatamente sia per l’istituto della donazione, sia per quello della successione, determinando così l’opportunità di una doppia franchigia che, per quelle famiglie che saranno state previdenti, potrebbe annullare del tutto le tasse da pagare alla morte dei titolari del patrimonio che residua dopo le operazioni di donazione.

 

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Buona lettura !

 

Top advisor USA, 250 di loro gestiscono quasi un bilione di dollari. Cosa chiedono i milionari americani ai loro consulenti

Negli Stati Uniti, la maggior parte degli operatori si guadagna da vivere vendendo investimenti e prodotti assicurativi, mentre i veri esperti finanziari, quelli più ricercati dai grandi detentori di patrimonio, sono più rari.

La recente classifica Forbes dei migliori consulenti patrimoniali americani, sviluppata da Shook Research, ha rivelato come i primi 250 gestiscano qualcosa come 910.000.000.000 di dollari, vale a dire una media di 3,64 miliardi a testa. In realtà, spesso non parliamo di singoli professionisti, ma di veri e propri team di lavoro, facenti parte di aziende con centinaia di consulenti e collaboratori, ognuna delle quali specializzata in alcuni settori.

Secondo questa speciale classifica (nell’immagine i primi 10 dello speciale elenco di Forbes), ai primi posti troviamo professionisti che lavorano per i grandi gruppi (Morgan Stanley e Merril), ma anche per marchi meno conosciuti in Europa (come Zhang Financial, con l’astro nascente Charles Zhang al sesto posto). Per i clienti, soglie di accesso piuttosto alte: da un minimo di un milione (Zhang) a soglie minime anche di 25 milioni (Brian C. Pfeifler, Morgan Stanley New York).

C’è da dire che, negli Stati Uniti, la maggior parte degli operatori si guadagna da vivere vendendo investimenti e prodotti assicurativi, mentre i veri esperti finanziari, quelli più ricercati dai grandi detentori di patrimonio, sono più rari e si stima che siano al massimo il 25% del totale dei consulenti. Pertanto, qual’è la regola più importante che un milionario americano deve osservare per trovare il consulente giusto? La risposta è identica per tutti: “scegliere qualcuno che raccomanderemmo a un amico o un familiare“.

La qualità, pertanto, è sempre al primo posto, soprattutto in un mercato come quello statunitense, dove gli studi di consulenza finanziaria hanno dimensioni ragguardevoli. Va da sé che qualunque top client americano, prima di fare la propria scelta, vorrà controllare attentamente tutti i candidati. “Di solito inizia chiedendo ad amici e parenti”, afferma Sophia Bera, pianificatore finanziario certificato con sede a Minneapolis, “e poi chiede consigli a persone le cui esigenze finanziarie, prospettive o fascia di età sono simili alle sue”. “Successivamente li cerca online e su LinkedIn, per avere un’idea di come sia ogni professionista e l’azienda per cui lavora. Dopo aver ottenuto un elenco di potenziali consulenti, verifica se qualcuno di loro è mai stato sanzionato per qualsiasi comportamento illegale o non etico. Questa verifica è semplice, basta utilizzare il portale BrokerCheck dell’autorità di regolamentazione del settore finanziario (FINRA), oppure verificare che i nominativi prescelti abbiano la certificazione CFP”.

E così, dopo questa “scrematura”, si arriva al colloquio iniziale. In questa occasione, sarà fondamentale, per il milionario a stelle e strisce, porre domande come quelle che elenchiamo qui di seguito.

  1. Come addebita i suoi servizi, e quanto costa?

Si tratta di conoscere se è prevista una commissione di pianificazione iniziale, un addebito percentuale per le risorse gestite o se il consulente guadagna vendendoti un prodotto specifico, ed in particolar modo se ha un incentivo su alcuni prodotti

  1. Quali licenze, credenziali o altre certificazioni ha?

Dei quattro principali tipi di consulenti finanziari, la designazione di pianificatore finanziario certificato (CFP) è più difficile da ottenere rispetto a quella di Chartered Financial Consultant (ChFC), poiché il primo richiede un esame di abilitazione più completo. In generale, è bene cercare un consulente per gli investimenti (RIA) registrato e, se il reddito è elevato o il cliente è un piccolo imprenditore, sarà meglio orientarsi su un account pubblico certificato (CPA), che è in grado di offrire una pianificazione fiscale. Di solito, questi ultimi possiedono anche la certificazione di specialista finanziario personale (PSF).

  1. Quali servizi offre il professionista e/o la sua azienda di consulenza?

Alcuni consulenti, infatti offrono solo consulenza per gli investimenti, mentre altri svolgono una pianificazione finanziaria completa in materia di pensionamento, assicurazione, pianificazione patrimoniale e pianificazione fiscale.

  1. Quali sono i suoi clienti preferiti, con i quali ha più affinità?

Alcuni consulenti finanziari hanno un interesse specifico – come donazioni di beneficenza o investimenti socialmente responsabili o allocazioni post-divorzio – ma la maggior parte dei consulenti tende a concentrarsi sulle persone entro 10 anni di differenza dalla loro età, per via di una maggiore comprensione dei loro problemi.

  1. E’ possibile vedere un esempio di piano finanziario?

Questa è una domanda che rischia di complicare la scelta, perché alcuni consulenti poitrebbero consegnare un fascicolo lungo 50 pagine, pieno zeppo di diagrammi e grafici, mentre è bene ricercare chi può fornire un’istantanea di cinque pagine di una situazione finanziaria.

  1. Qual è il suo approccio agli investimenti?

In pratica, bisogna chiedere al consulente qual è la sua filosofia di investimento, se, ad esempio,  preferisce utilizzare fondi a basso costo oppure fondi gestiti attivamente o investimenti passivi. La regola è “non sono qui per farti guadagnare un sacco di soldi. Se vuoi che qualcuno lo faccia, e scambia azioni ogni giorno, non sono io la persona che cerchi, a meno che tu non stia cercando qualcuno che effettui investimenti coerenti con la tua tolleranza al rischio e i tuoi obiettivi“.

  1. Quanti contatti ha periodicamente con i suoi clienti?

Alcuni pianificatori tengono una riunione di pianificazione iniziale e poi li si incontra una volta all’anno, altri effettuano check-in trimestrali. Tutto dipende dall’importo che si desidera pagare e dal livello di coinvolgimento desiderato. Un recente sondaggio (JD Power & Associates) ha rivelato che gli investitori contattati 12 o più volte all’anno hanno avuto i più alti tassi di soddisfazione.

  1. Lavorerà da solo con me o avrò a che fare con un team?

Alcune aziende hanno un approccio di squadra piuttosto che un approccio individuale, e questo è molto gradito da una certa fascia di clientela che necessita di risposte anche quando il loro il planner di riferimento è in vacanza.

Il mercato della consulenza finanziaria, negli USA, è già molto avanzato, per cui certe qualità (che qui in Italia cominciano ad essere richieste solo adesso) sono entrate da decenni nella mentalità degli investitori. In generale, tutti cercano di selezionare un consulente in grado di dimostrare di essere un vero esperto finanziario in base alla propria istruzione, all’esperienza e alle certificazioni pertinenti, ed i migliori consulenti hanno anni di esperienza applicabile nel fornire consulenza e servizi all’avanguardia.

Inoltre, il cliente americano pretende trasparenza, che i consulenti di alta qualità offrono volontariamente, evidenziando subito le informazioni necessarie per prendere la giusta decisione. Del resto, essi vengono remunerati con parcella professionale, proprio come gli altri professionisti (fiscalisti, avvocati), a tariffa oraria, fissa o basata sull’attività svolta. A queste vanno aggiunte le spese generali, che i migliori consulenti finanziari riveleranno con precisione e relativa documentazione di spesa.

Infine, i professionisti più affidabili sanno che il cliente ha delle aspettative di rendimento, e forniscono documentazione sui loro risultati passati e sulle metodologie applicate per ottenerli, fornendo poi una buona attività di comunicazione fatta di rapporti, riunioni, e-mail e chiamate, allo scopo di tenere il cliente sempre pienamente informato sui risultati e sulle fasi del mercato, nonché sul grado di raggiungimento degli obiettivi.

In definitiva, ciò che si richiede ad un consulente negli Stati Uniti non è molto dissimile agli standard che si vanno via via formando anche in Italia, dove l’analfabetizzazione finanziaria è ancora piuttosto frequente. Del resto, in Italia abbiamo già più di 500.000 investitori “over one million”, e sarà soprattutto a questi che viene oggi destinato uno stile di consulenza improntato al “modello americano”, con il quale le banche europee (le MiFID ne sono una valida testimonianza) vorrebbero rivaleggiare, per acquisire una posizione di leadership nel prossimo futuro.

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