Settembre 11, 2025
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Il cervello umano e le decisioni di investimento: usando le “scorciatoie” spesso si sbaglia

Il sistema cognitivo umano possiede risorse limitate, e non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici fa uso delle c.d. euristiche per semplificare decisioni e problemi.

Di Giovanni Tommaso Olivieri

Il cervello umano è un organo talmente complesso che, durante il suo sviluppo e maturazione, costruisce nel tempo dei limiti, dei preconcetti e delle scorciatoie utili alla propria salvaguardia o difesa, ovvero inserisce degli schemi all’apparenza comodi nel gestire lo stress durante il nostro processo decisionale. Prova ne sia che, quando ci troviamo a ragionare su come agire in determinate situazioni della nostra vita (privata o lavorativa, non importa), capita spesso di trovarsi davanti ad una scelta che valutiamo come determinante rispetto a ciò che accadrà successivamente, e quando questo accade utilizziamo regole di pensiero semplici – le c.d. scorciatoie cognitive – per risolvere problemi che, invece, sono generalmente piuttosto complessi.

Facciamo un esempio. Immaginate di dovervi recare in un determinato luogo o zona della città da un cliente, al cinema etc) dove siete già stati, e dove le ultime due volte in cui vi ci siete recati, in condizioni meteorologiche normali, avete sempre trovato facilmente un parcheggio e siete arrivati in perfetto orario, pur avendo deciso di prendere la macchina e nonostante la metropolitana vi avrebbe portato proprio davanti al luogo d’interesse. La zona da raggiungere, tuttavia, è quasi sempre decisamente trafficata, e spesso le auto sostano in doppia fila, ma voi, in base all’esperienza recente, non avete mai avuto difficoltà nell’arrivare in tempo e trovare un parcheggio; per cui andate ancora una volta in auto. Secondo la legge dei grandi numeri, però, questa volta vi trovate imbottigliati nel traffico e, una volta raggiunto il luogo d’interesse, girate 20 minuti per cercare un parcheggio, arrivate in ritardo e magari irritate chi vi attendeva, perdendo una buona occasione.

Tutto questo, in Psicologia, si traduce con il termine Euristiche, e cioè quelle regole che spiegano come le persone risolvono, danno giudizi, prendono decisioni di fronte a problemi complessi o informazioni incomplete. Il principio che giustifica l’esistenza di euristiche è quello secondo cui il sistema cognitivo umano è un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso, appunto, di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi. Sebbene le euristiche funzionino correttamente nella maggior parte delle circostanze quotidiane, in certi casi – come nell’esempio fatto – possono portare a errori. Infatti, l’euristica fondamentale è il cosiddetto “prova e sbaglia” (trial and error), e identifica il processo per mezzo del quale il nostro cervello riesce a perfezionarsi attraverso l’esperienza e a superare i c.d. bias cognitivi, ovvero quella tipica tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, che porta a un errore di valutazione o alla mancanza di oggettività di giudizio. (cit. Treccani)

Trasponendo i concetti di Euristica e Bias cognitivi nella gestione dei risparmi, il grande studioso e psicologo Daniel Kahneman (nella foto), vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 2002, ha scoperto che il cervello umano, durante il processo decisionale riguardante gli investimenti o la gestione del patrimonio, mette in atto alcuni bias cognitivi spesso deleteri e poco funzionali al raggiungimento degli obiettivi, i più frequenti dei quali sono:
BIAS DI DISPONIBILITÀ, per mezzo dei quali un investitore, allorchè si trova di fronte ad una decisione da prendere, ricorre a situazioni prontamente disponibili nella propria memoria e quindi probabilmente più vicine al periodo presente/recente, oppure decide  in base ad eventi “traumatici”, che hanno segnato in maniera distorta (sia in negativo che in positivo) quella stessa realtà dei fatti che, invece, richiederebbe decisioni differenti se quegli stessi fatti venissero analizzati su un periodo di tempo più ampio. Ad esempio, il crollo/crisi finanziaria importante, oppure un amico o conoscente che abbia perso molti soldi investendo in un dato strumento finanziario o, viceversa, un parente che abbia guadagnato molti soldi in brevissimo tempo (ad esempio, investendo negli NFT e nelle Cryptovalute).
OVERCONFIDENCE BIAS, ossia il Bias in base al quale si diventa incrollabilmente sicuri di aver trovato l’algoritmo perfetto e di battere sempre tutti i mercati, e quindi a guadagnare di più. Chi è “colpito” da questo bias arriva a farsi affidare soldi da amici e parenti, senza alcun titolo professionale, promettendo grandi ritorni; oppure ad indebitarsi fino al collo. L’Overconfidence Bias, come dice la parola stessa, è un preconcetto sviluppato dalla mente di quanti sono stati in grado di effettuare 2 o 3 operazioni di successo consecutive nel breve termine, e poi hanno la certezza che qualunque mossa futura sarà formidabile. Il fenomeno è molto frequente nel campo del Trading Online, e questo spiega l’esistenza di improbabili “guru” della formazione, che vendono corsi a peso d’oro su come guadagnare più di Warren Buffet in soli 2 mesi, e il perché molti ci cascano.

Si stima che l’Overconfidence bias sia uno dei principali motivi di fallimento rispetto agli obbiettivi prefissati. A riguardo, la narrativa (A random walk down Wall Street – di B. Malkiel) ci ha regalato una massima molto efficace, entrata presto nel linguaggio degli addetti ai lavori: “Una scimmia con gli occhi bendati che lancia freccette su una lista di titoli azionari è capace di creare un portfolio performante tanto quanto quello creato da un esperto”.
E’ tutto chiaro?

Top Management, anche nelle aziende lo spettro della parità forzosa di genere. E la meritocrazia?

Che fine sta facendo la meritocrazia in azienda e nelle professioni? Perché oggi si rende quasi imprescindibile imporre anche alle imprese il credo della parità forzosa tra genere femminile e maschile? Quali sono le tecniche di comunicazione dei media che favoriscono questo pericoloso cambio di passo?

Editoriale di Alessio Cardinale*

C’era una volta il principio di pari opportunità tra uomini e donne. Fu salutato, a suo tempo, come una giusta conquista di civiltà, grazie alla quale anche le donne avrebbero potuto godere, in tutti gli ambiti della Società Civile, delle stesse prerogative legislative e regolamentari per ambire, esattamente come gli uomini, ad un lavoro soddisfacente, ad una posizione di carriera e ad un identico trattamento economico, a tutti i livelli. Per arrivarci c’è voluto un po’ di tempo, ma l’obiettivo è stato raggiunto, ed oggi possiamo già annoverare tantissime donne in posizioni apicali e di vera leadership in economia, in politica e nei media (per non dire dei magistrati donna, che sono il 53% del totale in Italia).

Qual è il comune denominatore che ha portato queste donne ai vertici della carriera? Semplice: un mix di qualità personali, competenza, esperienza, ambizione, impegno e un pizzico di fortuna. In poche parole, lo hanno meritato. Si tratta di donne che si sono messe in gioco, si sono impegnate senza pensare neanche per un attimo di poter avere una corsia preferenziale. Di più, nessuna di loro avrebbe mai sopportato l’umiliazione derivante da una sorta di “raccomandazione di genere“.

Il principio di meritocrazia, pertanto, associato a quello delle pari opportunità, ha consentito di raggiungere questo risultato che si è consolidato negli anni, e di fronte al quale le continue rivendicazioni di genere – alimentate da una certa politica  senza troppi scrupoli e molto attenta a fidelizzare il voto femminile – dovrebbero finalmente avere un termine.

La normalità, oggi, dovrebbe essere quella di una civile competizione tra professionisti – non distinguendo affatto per il loro genere – senza che nessuno di essi vada a ricercare delle scorciatoie per ottenere dei privilegi. Invece, in Italia si sta andando pericolosamente oltre il concetto di meritocrazia. Dopo l’affermazione dei principi di pari opportunità, infatti, a molti fu chiaro che qualcosa non aveva funzionato benissimo nel tradurre gli enunciati di principio in ordini di realtà. Infatti, l’Italia si è ritrovata con una pletora di commissioni P.O. costituite in ogni anfratto della Società Civile e delle attività produttive, composte ope legis solo da donne, in evidente contrasto con la più elementare delle regole costituzionali, quella che vieta espressamente anche la discriminazione per genere. Successivamente, è arrivato il turno delle “quote rosa” in politica, e lì fu subito chiaro che il corposo universo che sostiene questo modo di intendere le relazioni uomo-donna non puntava all’affermazione delle “antiquate” pari opportunità di genere, ma ad un arbitrario e ingannevole superamento di esse, individuabile nel concetto di “Parità Forzosa”.

Cosa intendiamo per “parità forzosa”? Per renderla più simpatica, gli illuminati della (dis)informazione la chiamano “diversity“, ma il suo vero nome dovrebbe essere “shortcut” (scorciatoia). Per chiarire meglio, facciamo un esempio: se una donna studia, si impegna, prende la laurea, frequenta con successo un master, fa la giusta gavetta, mostra di essere brava ed avere “i numeri” per ricoprire un certo ruolo, e lo ottiene, questo è frutto delle pari opportunità; se una donna ottiene il ruolo solo “in quota”, e cioè in virtù della sua appartenenza al genere femminile, senza aver prima dimostrato di avere studiato, di essersi impegnata, di avere una laurea, di aver frequentato un master, di aver fatto la gavetta, di essere brava ed avere i numeri, questo è frutto della parità forzosa, ed è quello che sta succedendo in Italia anche nel mondo aziendale (in politica nazionale e regionale ormai è la norma).

In pratica, il criterio della meritocrazia, che nei secoli dalla rivoluzione industriale ha fatto andare avanti il mondo, viene sostituito dal criterio di raggiungimento della parità forzosa in tutti gli ambiti della Società Civile, nel nome di un evidente “diritto alla scorciatoia e al privilegio” di cui TUTTE le donne – anche quelle senza arte né parte – dovrebbero beneficiare. Nella pratica, ciò equivale alla creazione di una immensa categoria protetta il cui “handicap” sarebbe quello di essere donna e che, in relazione alle sue proporzioni, non può che sopraffare l’opposto genere condannato, invece, alla “normalità”.   

Gli esempi di quanto sopra si trovano a decine, ogni giorno, sui media, grazie ad un elevatissimo livello di omologazione cui l’informazione in Italia si presta volentieri sul tema. Di solito, la notizia viene data con le seguenti modalità: “…Ancora bassa la percentuale di donne tra i dirigenti d’azienda nel settore farmaceutico…”, oppure “….Solo il 12% di donne tra la classe arbitrale nel mondo del calcio…”, oppure ancora “….soltanto 10 donne su 100 sono a capo di una filiale bancaria…” (ed altre, che replicano il medesimo stile). Peraltro, anche il settore della Consulenza Finanziaria non è esente da questa modalità di narrazione. Non è raro, infatti, leggere titoli come “Consulenti finanziari, solo il 25% è donna“. In pratica, la “notizia” è che sarebbero poche, in determinati settori, le donne in posizione di rilievo, ma quali siano le cause di queste percentuali non viene minimamente detto, facendo però intendere il lettore che tutto ciò sia il risultato di una forma di discriminazione ai danni delle pari opportunità delle donne, per cui è necessario imporre il modello della “parità forzosa”, con buona pace della meritocrazia.

Capovolgendo l’esempio al maschile, e facendo riferimento a statistiche autentiche riguardanti il mondo del lavoro, avete mai letto una notizia dal titolo “Solo 15 uomini su 100 svolgono il lavoro di insegnante“? Ovvio che no, così come scommetto che nessuno di voi abbia mai letto una notizia che dica “Quasi nulla la percentuale di donne presenti nell’industria estrattiva e nei trasporti di lunga percorrenza“. Nel primo caso, nessun uomo grida allo scandalo, nè si sente discriminato; quella statistica è frutto di scelte, non di una discriminazione verso il genere maschile nel mondo della Scuola. Relativamente al secondo titolo ipotetico – quello del lavoro in miniera o su un TIR – ci si chiede perchè le donne, in termini di genere, rivendicano (legittimamente) posizioni di vertice nelle aziende, ma non si ritengono idonee a svolgere lavori pesanti. Anche questo, mi pare, è tutto frutto di una scelta.

I comunicati stampa, poi, ci danno esempi di rara bellezza stilistica su questo tipo di informazione strumentale. Lo scorso 7 Ottobre, per esempio, Askanews usciva con questa agenzia: “…In Esselunga solo il 15% dei dirigenti sono donne: in pratica su un totale di 80, le dirigenti sono appena 12. E’ quanto emerso durante la conferenza stampa di Esselunga, che ha per presidente proprio una donna, Marina Caprotti, organizzata in occasione della presentazione, tutta al maschile, del primo bilancio di sostenibilità aziendale…”. Per chi studia la materia della comunicazione – ivi compresa quella che si genuflette al politicamente corretto e agli ordini di scuderia – questo comunicato è oro colato. Peraltro, Luca Lattuada, chief Human resources office di Esselunga, ci teneva a precisare che “…Noi siamo una azienda di circa 25mila persone, che per circa il 50% è fatta da donne, ma ci sono aree dove i ruoli di responsabilità dati alle donne, come quelle degli store, sono sicuramente da migliorare. Abbiamo avviato un percorso di formazione e sviluppo della leadership femminile per fare crescere questa quota“.

Ebbene, chi ha pronunciato questo virgolettato –e stiamo parlando di un top manager, mica poco – si è semplicemente limitato a ripetere senza riflettere il mantra della parità forzosa e delle quote (rosa), ma non sa neanche il motivo per cui si renderebbe necessario un “miglioramento”. Del resto, come potrebbe mai spiegare la questione, se non essendo costretto ad affermare la priorità di assegnare ruoli decisionali alle donne solo per la circostanza di essere tali, in barba al millenario principio di meritocrazia che ha sempre dominato le dinamiche ed il successo delle aziende?

C’è da dire che nel 2019 Esselunga ha registrato un aumento di donne nei ruoli chiave pari al 17% rispetto all’anno precedente. A questo punto, verrebbe da chiedersi se queste manager, quel ruolo, lo abbiano meritato davvero, oppure lo abbiano ricevuto in base al criterio della parità forzosa, e cioè per via della propria appartenenza al genere femminile. “Questo non è un cambiamento che si fa nel breve” – ha sottolineato Lattuada – “In questo percorso di cambiamento si inseriscono iniziative che prevedono workshop aziendali e interaziendali per superare gli stereotipi e creare organizzazioni più inclusive…”.

Forse la meritocrazia in azienda, secondo il top manager Lattuada, è diventata un vecchio stereotipo ormai superato e privo di valore? Così, per capire.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, dice la nostra Costituzione all’art. 3. Forse è il caso che questo concetto venga fatto proprio dai CdA delle grandi aziende, affinchè se ne ricordino prima di far celebrare l’elogio della parità forzosa ai propri top manager.

* Direttore editoriale di Patrimoni&Finanza