Nonostante i dazi e il freno all’immigrazione, agli USA rimangono debito pubblico fuori controllo e crescita dipendente dallo stimolo fiscale. Brevi i margini di manovra fiscale e monetaria.
di Maurizio Novelli, Gestore del fondo Lemanik Global Strategy
I mercati attribuiscono alla vittoria di Trump un effetto taumaturgico che difficilmente potrà durare nel tempo, poichè quello che è importante non sono le promesse elettorali ma i reali margini di manovra che questa amministrazione avrà a disposizione veramente. Trump eredita una economia che, dal 2021, produce un deficit di 8 punti di Pil all’anno per ottenere in cambio un Pil nominale di 4 punti. È come se voi tutte le mattine usciste di casa per andare a lavorare spendendo 8 Euro al giorno per guadagnarne 4. Sebbene gli operatori di Wall Street credono ciecamente che il cambio di amministrazione possa risolvere i problemi, appare alquanto complicato credere che tali problemi possano essere risolti senza sacrifici tangibili.
La nomina di Bessent al ministero del Tesoro è una scelta molto azzeccata: 1) è un macro portfolio manager proveniente dal mondo degli hedge funds esperto in economia monetaria e finanza, 2) è un forte critico della sciagurata gestione Yellen, sia alla Fed che al Tesoro, 3) è contrario alle politiche di espansione della spesa pubblica fuori controllo, 4) è più preoccupato della “protezione” dei Treasuries e del dollaro che delle politiche di sostegno ad oltranza alla borsa, 5) è stato piuttosto acido nei confronti delle strategie monetarie della Fed attuate da Yellen e Powell, che si sono di fatto “supinate” alla Modern Monetary Theory (debito e money printing). Bessent sa perfettamente che il modello economico Usa è in crisi. Il problema di fondo è se il modo di pensare di Bessent è in linea con il modo di pensare di Trump, e se si verificheranno problemi di convergenza tra l’approccio di Trump e quello di Bessent sarà piuttosto complicato licenziare il Ministro del Tesoro senza avere pesanti ripercussioni su Treasury Bonds e dollaro.
Mentre la nuova amministrazione entrerà in carica a fine gennaio, l’attuale traiettoria della spesa pubblica si appresta a bucare il deficit dell’8% nel 2024, ed è proiettato al 10% nel 2025 senza interventi di correzione. Il problema è che l’attuale composizione della spesa è particolarmente accentuata verso sussidi e assistenza per sostenere i consumi, riducendo la quale si potrebbero avere pesanti ricadute sulla domanda interna e sulla solvibilità del credito al consumo, aumentando radicalmente i rischi di una caduta dell’economia. In sostanza, il “mandatory spending“, cioè la spesa che non puoi toccare senza fare danni tangibili all’economia, assorbe ormai il 70% della spesa corrente.
L’opinione pubblica americana, contrariamente a Wall Street, non crede più ai dati macro, e la sconfitta di Biden ne è la prova. Avendo oggi il controllo di Senato e Camera, è probabile che le scelte di politica economica e di spesa pubblica, strada facendo, possano entrare in collisione tra il modo di pensare di Bessent, meno politico e più economico, e quello di Trump. Finora, bond e dollaro sono saliti perché danno per scontato che Bessent possa implementare la sua agenda: controllo della spesa, salvaguardia del dollaro e gradualità nell’introduzione dei dazi. Per quanto riguarda i dazi, è certo che la prima mossa di questa amministrazione sarà quella di mandare un serio segnale che l’America non scherza sulle politiche commerciali. Ci sarà quindi un primo round di imposizione di dazi a Cina, Europa, Messico e Canada, e poi si comincerà a parlare. Se questi paesi non si piegheranno alla volontà degli Stati Uniti ci saranno ulteriori conseguenze con dazi via via più elevati.
Non sarà facile ristrutturare il modello economico Usa senza pesanti sacrifici interni. Una vera ristrutturazione dell’economia comporterebbe un ridimensionamento dei monopoli tecnologici, maggiori tasse sul capitale, sulla finanza e sulla Corporate Usa, maggiori tasse sui redditi medio alti e minori tasse su famiglie a reddito inferiore ai 120.000 dollari. Queste scelte produrrebbero una migliore redistribuzione dei redditi, una riduzione del debito pubblico e una crescita economica più equilibrata, dato che attualmente i consumi della fascia media di reddito sono eccessivamente dipendenti dal debito al consumo, creando una crescita finanziata da debito a costi superiori al 20% all’anno e non sostenibili. Infatti, il 20% dei consumi interni Usa è finanziato dal credito al consumo a tassi del 24% annuo, il 73% del Pil dipende solo dai consumi interni, il 14% del Pil Usa dipende da consumi finanziati, i consumi Usa sono pari al 20% del Pil mondiale e quelli finanziati sono pari a circa il 3,75% del Pil mondiale. Un bel problema se l’America non continua a fare debito a questi ritmi.
Ma chi vuole veramente implementare un aggiustamento dell’economia verso una strada più sostenibile? La lobby di Wall Street non vuole tasse sul capitale e sulla finanza, né tantomeno sulla Corporate America, dato che questo farebbe scendere la borsa. Le banche americane lucrano colossali interessi sul credito al consumo erogato a tassi da usuraio e beneficiano sempre dei bail out in caso di crisi. Le basse tasse sulle grandi società quotate creano un gap di redditività delle aziende Usa verso quelle di Europa e Giappone, sostenendo l’equity americano che spende il 50% dei profitti annui in buy back. I monopoli tecnologici sono indispensabili per il controllo sociale e per la sicurezza informatica del paese, inoltre servono a sostenere la strategia geopolitica di controllo globale della tecnologia nel modo occidentale. Chi è disposto ad accettare un cambio di modello di crescita rinunciando ai privilegi attuali basati ormai solo sull’espansione della spesa pubblica?
È quindi certo che l’attuale squilibrato modello di crescita Usa rimarrà tendenzialmente intatto finché non cederà perché insostenibile, solo a quel punto verrà preso atto che bisogna cambiare. Sono quindi molto scettico sulla possibilità di Bessent di poter incidere sulla traiettoria della politica fiscale ed economica: il debito continuerà a crescere sia a livello pubblico che privato e l’inflazione rimane una delle scelte più facili per svalutarlo in termini reali. L’America può cambiare solo quando il suo modello economico andrà in crisi, ma pur di difenderlo ad oltranza metterà in crisi il resto del mondo. Quindi la crisi da qualche parte la si deve subire, in particolare in Europa e Canada, in Giappone, in Cina e nei paesi Latam che intermediano troppo i prodotti cinesi verso gli Stati Uniti. Pertanto, il 2025 sarà un anno di difficoltà sia per l’economia mondiale che per l’agenda Trump. Si profila infatti un contesto di stagnazione globale mascherato da dati macro “massaggiati” in modo da non evidenziare una recessione e sostenere la teoria del soft landing (probabilmente infinito).
Non si intravede, dunque, alcun cambiamento sensibile nella strategia di crescita Usa: spesa pubblica, dazi e freno all’immigrazione (che non incideranno più di tanto sulle problematiche strutturali attuali). Se guardiamo alle proposte di politica economica evidenziate da Trump, appare alquanto improbabile che si possa ottenere un controllo della spesa tramite i dazi e la riduzione ulteriore delle imposte, mentre una ulteriore deregulation non avrà impatti significativi sulla crescita poichè la deregulation è già ora parecchio accentuata: il Private Equity è passato da 1 Tr di dollari nel 2007 a oltre 9 Tr di dollari nel 2023; il Private Credit totalmente unregulated è in espansione a 1,8 Tr di dollari, lo Shadow Banking vale il 60% del credito all’economia, le Criptovalute esplodono grazie alla promessa di non regolamentazione e le banche Usa sono esenti da Basilea III.
La trasformazione dell’America in un’economia manufatturiera è improbabile. L’unica cosa che può essere fatta è indurre i produttori esteri a trasferire parte della produzione in Usa per evitare i dazi. Vediamo se l’Europa o la Cina saranno così d’accordo ad accettare una disoccupazione più alta e recessione per sostenere queste richieste. Quest’ultima riflessione porta a pensare che il 2025 aprirà una fase di conflittualità economica globale che si sostituirà alla conflittualità geopolitica in corso. L’amministrazione Trump punta infatti a spostare il conflitto più sul piano economico che geopolitico, ma il primo è meglio del secondo perchè i danni collaterali della conflittualità economica sono mondiali e non solo regionali come negli attuali conflitti in corso.
L’Oro rimane per ora l’asset class che può offrire maggiore protezione in questo contesto. I titoli di debito Usa sono vulnerabili a serie difficoltà nell’implementare un vero controllo del deficit, e per stabilizzare la dinamica attuale del debito pubblico sarebbe necessario produrre almeno 3 punti di Pil di avanzo primario rispetto a un disavanzo primario attuale di 5 punti (avanzo e disavanzo primario sono al netto degli interessi passivi annuali sul debito). È un’operazione praticamente impossibile senza creare una pesantissima recessione e dire addio alle politiche fiscali espansive per Corporate Usa, finanza e Wall Street.
Il dollaro forte continuerà a reggere fino a quando Giappone ed Europa accetteranno la stagnazione imposta dagli Stati Uniti ai paesi che finanziano il debito Usa. Tali economie infatti devono costantemente aumentare il risparmio interno per dirottarlo poi verso gli asset americani, grazie al quale si finanzia così il leverage Usa e la finanza speculativa di Wall Street. Vediamo per quanto tempo le economie occidentali reggeranno questo modello, entrato ormai nella sua fase più estrema, dove l’America si sta posizionando come un’economia troppo finanziarizzata per avere un risparmio interno negativo. Il “Trump rally” sembra difficilmente sostenibile, e le prospettive per l’equity si fanno incerte, in particolare per l’Europa.