Ottobre 12, 2025
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La Bce taglierà i tassi nel 2024, obiettivo 2% nel 2025. Sulla Fed c’è troppo ottimismo

Nel 2024 in Europa possibile un taglio di 100 punti base a partire da giugno. L’economia USA è ancora  robusta, e i quattro tagli dei tassi ipotizzati per il prossimo anno sono troppo ottimistici.

Di Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager ETHENEA

Nessuna sorpresa dalla riunione del Consiglio direttivo della BCE che ha deciso – al pari di FED e BoE – di mantenere invariati i tassi di interesse di riferimento; sebbene si ritenga che l’inflazione, pur essendo diminuita negli ultimi mesi, potrebbe tornare a registrare un temporaneo incremento nel breve periodo.

Tale decisione è la naturale conferma di alcune indicazioni molto chiare di Christine Lagarde, che aveva recentemente sottolineato come la banca centrale possa ora vedere nitidamente con quanta forza e rapidità stanno avendo effetto i rialzi dei tassi del passato. Infatti, il tasso di inflazione è sceso in maniera sorprendente negli ultimi mesi: il tasso principale è sceso al 2,9% in ottobre e il tasso di base (esclusi i componenti energetici e alimentari più volatili) al 3,6%. Dal nostro punto di vista, è chiaro che il ciclo di rialzi dei tassi si è concluso a settembre. Il rapido calo dell’inflazione e un’economia stagnante fanno supporre che l’obiettivo di inflazione del 2% possa essere raggiunto già nel 2025. Nella sua ultima proiezione di settembre 2023, la BCE vede un’inflazione leggermente superiore al suo obiettivo nel 2025, ma questa previsione potrebbe modificarsi con le nuove proiezioni che sono state pubblicate durante le  recenti riunioni.

Gli accordi salariali del passato, alcuni dei quali sono durati diversi anni, continueranno a esercitare pressioni al rialzo sui prezzi anche in futuro. Al contrario, i prezzi dell’energia sono diminuiti in modo significativo, compensando efficacemente gli aumenti salariali. Alla fine, tuttavia, la banca centrale può dimostrarsi paziente. I timori per una ripresa dell’inflazione sono forti, dopo l’esperienza del 2022. I calcoli preliminari mostrano che il tasso di inflazione a novembre è sceso al livello più basso dall’estate 2021. Successivamente, tuttavia, gli effetti base causeranno un leggero aumento dei prezzi a breve termine. In ogni caso, nel 2024 arriveranno i tagli dei tassi. A nostro avviso, è realistico ipotizzare un taglio di 100 punti base a partire da giugno.

Com’è noto, nella sua riunione anche la Federal Reserve ha lasciato i tassi invariati per la terza riunione consecutiva (forchetta 5,25-5,5%, il livello più alto degli ultimi 22 anni); ma i membri della banca centrale hanno paventato la possibilità di tre tagli – cioè di 75 punti base – nel corso del 2024, aprendo la strada alla svolta (il cosiddetto pivot) della FED. Se si realizzerà questa previsione, i tassi scenderanno nella forchetta 4,5-4,75%, mentre nel 2025 arriverebbero al 3,5-3,75%. Un fattore chiave di tale decisione è stato il rallentamento dell’inflazione, cui il presidente della FED, Jerome Powell, ha fatto riferimento anche nel suo recente discorso allo Spelman College di Atlanta. Il tasso di inflazione generale era già al 3,2% a ottobre. Questo forte rallentamento, che non era stato previsto dal mercato, ha portato a un rapido calo dei rendimenti lungo l’intera curva dei rendimenti. Anche l’inflazione core, quella cui la FED preferisce riferirsi, ha rallentato a circa il 3,5%. Powell aveva recentemente osservato che l’inflazione core degli Usa è cresciuta solo del 2,5% annuo negli ultimi sei mesi, appena al di sopra dell’obiettivo di inflazione del 2% fissato dalla banca centrale. Questa “sfumatura” fa ben sperare per i prossimi mesi.

Le parole che il presidente della FED ha pronunciato in riunione sono molto interessanti. Powell, infatti, ha detto che “siamo al picco o vicini al picco di questo ciclo” di strette monetarie, e a dispetto di chi scommette già su imminenti tagli ai tassi ha aggiunto: “siamo pronti a ulteriori restrizioni, nel caso in cui fossero appropriate” e “manterremo la politica restrittiva fino a quando non saremo fiduciosi nel ritorno dell’inflazione al 2%”. C’è da dire che i recenti movimenti del mercato, legati a un massiccio calo dei rendimenti lungo tutta la curva, e l’aspettativa di quattro tagli dei tassi nel 2024, nutrita immediatamente prima della riunione, sarebbe comunque troppo ottimistica, nonchè in contrasto con gli interessi della FED, poiché le condizioni finanziarie meno restrittive rendono più difficile per la banca centrale rallentare una economia statunitense che appare ancora troppo robusta.

Volker Schmidt

All’inizio di dicembre, peraltro, Powell aveva già sottolineato che le speculazioni su un allentamento della politica monetaria erano premature e che la FED era pronta ad aumentare ulteriormente i tassi, se necessario. A nostro avviso, la Fed vuole tenersi aperta la possibilità di nuovi aumenti, ma è molto improbabile che questo accada, visto il basso livello di inflazione. In ogni caso, l’orientamento della FED a continuare a combattere l’inflazione era stato completamente ignorato dai mercati, per cui la comunicazione più severa da parte della banca centrale americana ne è una naturale conseguenza, soprattutto adesso che l’attenzione si sta gradualmente spostando dal livello dei tassi alla durata della stretta.

La Fed lascia invariati i tassi a novembre. ETHENEA: a dicembre possibile un rialzo

La Federal Reserve lascia invariato il tasso di riferimento, come ha fatto la Bce. Ecco perchè si è giunti a questo risultato, e perchè Dicembre potrebbe riservare sorprese negative.

Di Volker Schmidt*

Nella conferenza stampa del 20 settembre scorso, il presidente della Fed, Jerome Powell, aveva usato la parola “prudente” almeno sei volte, parlando degli orientamenti futuri della banca centrale.

Le ragioni di questa cautela, definita ufficialmente come “dipendente dai dati”, sono chiare: in primo luogo, i cambiamenti nella politica monetaria hanno ritardi lunghi e variabili, e, in secondo luogo, sono già stati compiuti progressi nel reprimere l’inflazione. Ultimo, ma non meno importante, a dare un aiuto c’è l’aumento dei rendimenti sul segmento a lungo termine della curva dei rendimenti. Per esempio, il rendimento dei titoli del Tesoro statunitense a dieci anni è aumentato di oltre 50 punti base dalla riunione Fed di settembre. Secondo diversi funzionari della Fed, questo ha dato alla banca centrale più tempo per valutare i dati in arrivo, e di interrompere temporaneamente, per la seconda volta, il ciclo dei rialzi dei tassi, ma non senza precisare che futuri rialzi non sono da escludere.

Anche il governatore Waller (nella foto), uno dei più aggressivi della Fed, prenderebbe in considerazione un altro aumento dei tassi soltanto se “la domanda e l’attività economica continueranno ai ritmi recenti, esercitando potenzialmente una persistente pressione al rialzo sull’inflazione“. In effetti, i consumi statunitensi stanno dando segnali di forza: i dati relativi al mercato del lavoro e al dettaglio sono stati sorprendentemente solidi. Anche la previsione del Pil per il terzo trimestre è stata rivista più volte al rialzo. Allo stesso tempo, però, ci sono forti segnali negativi per i consumatori americani: oltre all’aumento dei default delle carte di credito e delle insolvenze sui prestiti automobilistici subprime, il forte calo delle richieste di mutui immobiliari indica un calo della domanda a breve termine e quindi un rallentamento dell’inflazione. Per questi motivi, non escludiamo un rialzo dei tassi in occasione della prossima riunione del 13 Dicembre.

* Portfolio manager di Ethenea Independent Investors

La Bce ha fatto il suo lavoro. Per il momento

Nessun rialzo atteso nella prossima riunione della Bce sulla politica monetaria, grazie all’inflazione verso il 3% a novembre. Resta il rischio aumento degli stipendi (+4% in Eurozona).

Di Volker Schmidt*

Nella prossima riunione del 26 ottobre, la BCE lascerà invariati i tassi di interesse. Al momento la banca centrale europea non vede alcuna ragione per alzarli ulteriormente: i dati di ottobre e novembre confermeranno un ulteriore calo del tasso d’inflazione dell’Area euro, che nel mese di novembre scenderà a un valore vicino al 3%, sulla spinta degli effetti base.

Un anno fa, sono esplosi i prezzi dell’energia sui mercati all’ingrosso, in particolare dell’elettricità e del gas, ma ora questo effetto si è chiaramente invertito. La BCE può inoltre puntare sulla debolezza dell’attività economica nell’Eurozona e sull’impatto poco chiaro del conflitto che si è riacceso in Medio Oriente. Per il momento, la BCE ha fatto il suo lavoro. Nel 2024 si capirà se l’inasprimento della politica monetaria attuato fin qui sarà sufficiente ad ancorare stabilmente l’inflazione al 2%. Un percorso ostacolato dagli elevati aumenti salariali, che rimarranno a un livello superiore al 4% e quindi sicuramente alimenteranno l’inflazione nei prossimi 12-24 mesi. Inoltre, la spesa pubblica rimane elevata e, in alcuni casi, supera gli obiettivi di deficit concordati, aumentando anch’essa la pressione al rialzo sui prezzi.

*portfolio manager di Ethenea Independent Investors

Schmidt, ETHENEA: la Bce potrebbe alzare i tassi a settembre, la Fed invece no

Affinchè la BCE decida sui tassi sarà decisivo il dato dell’inflazione. La Fed salterà un giro, ma potrebbe alzare i tassi tra novembre e dicembre in caso di nuove spinte inflazionistiche.
 
“Gli effetti della stretta monetaria sul mercato del lavoro statunitense e la discesa dell’inflazione rendono poco probabile un rialzo dei tassi della FED a settembre, che potrebbe invece avvenire a novembre o dicembre. La crescita economica debole e l’alta inflazione in Europa rendono invece plausibile un nuovo rialzo dei tassi da parte della BCE“. È l’analisi di Volker Schmidt, senior portfolio manager di Ethenea Independent Investors.
 
Dopo che nella riunione di luglio la FED ha alzato i tassi di interesse di riferimento ai massimi da 22 anni, i banchieri centrali hanno lasciato aperta la porta a ulteriori rialzi nel caso in cui l’economia statunitense dovesse guadagnare slancio. La performance economica sembra aver sorpreso in positivo: la stima della FED di Atlanta sulla crescita annuale del Pil (GDPNow) a metà agosto è stata alzata a sorpresa al 5,9%, pari a circa tre volte il tasso di crescita neutrale stimato. E questo dopo uno dei cicli di rialzo dei tassi di interesse più brevi della storia degli Stati Uniti, effettuato proprio con l’obiettivo di domare l’economia.
 
Dato il focus della FED sulla lotta all’inflazione e sul raggiungimento della piena occupazione, c’era molta attesa per gli ultimi dati sul mercato del lavoro statunitense e ci sono segnali che il tanto atteso rallentamento potrebbe essere arrivato. L’occupazione rallenta: negli ultimi 12 mesi sono stati creati 3,1 milioni di posti di lavoro, di cui 187.000 in agosto. Poiché è cresciuto il numero di coloro che avevano abbandonato il mercato del lavoro e si sono registrati nuovamente come persone in cerca di lavoro, anche il tasso di disoccupazione ha ricominciato a salire. Il calo del tasso di licenziamenti suggerisce inoltre che i lavoratori ritengono che non sia più così facile cambiare lavoro.
 
In definitiva, gli ultimi dati mostrano che gli effetti della stretta monetaria iniziano a farsi sentire sul mercato del lavoro. Inoltre, l’inflazione è già scesa a circa il 3%. Questo è tutto ciò di cui la FED ha bisogno per mettere in pausa i suoi rialzi dei tassi. Dopotutto, il tasso della banca centrale è già ben al di sopra del tasso d’inflazione. Non ci aspettiamo quindi un altro rialzo dei tassi a settembre, ma ciò non pone fine al dibattito su un ulteriore rialzo a novembre o dicembre. Oltre alla crescita del Pil, altri dati mostrano che l’economia in generale rimane forte. Ad esempio, la spesa dei consumatori – il principale motore dell’economia statunitense – è aumentata notevolmente durante l’estate. Insieme all’aumento dei prezzi delle materie prime (in particolare del petrolio), questo potrebbe avere un effetto inflazionistico e alimentare il dibattito su ulteriori rialzi dei tassi d’interesse negli ultimi mesi di quest’anno.
 
Per quanto riguarda la BCE, i principali membri del Comitato esecutivo nell’ultimo periodo hanno evitato di dare una chiara indicazione sulla decisione di settembre sui tassi. Ad esempio, la rappresentante tedesca nel board della BCE, Isabel Schnabel, ha sottolineato che la crescita economica è stata più debole del previsto, mentre l’inflazione rimane ostinatamente alta. Con un valore del 5,3%, sia l’inflazione di fondo che quella complessiva rimangono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% fissato dalla banca centrale. Ciò depone chiaramente a favore di un altro rialzo dei tassi. D’altra parte, è anche chiaro che il tasso d’inflazione scenderà significativamente a circa il 3,5% nei prossimi mesi a causa degli effetti base. “I prezzi dell’elettricità e del gas – conclude Volker Shmidt (nella foto) – in Europa sono esplosi un anno fa e ora sono ben al di sotto dei livelli dello scorso anno. In occasione della prossima riunione della BCE sarà presentata la nuova previsione di inflazione della banca centrale. A giugno la BCE ha previsto un’inflazione media del 3% nel 2024 e del 2,2% nel 2025. Qualsiasi aumento rispetto a questa previsione rende più probabili ulteriori rialzi dei tassi di interesse. Dato che l’inflazione è ritenuta “ostinatamente alta”, possiamo immaginare un leggero aumento nei valori previsti e quindi un altro rialzo dei tassi.

A fine luglio l’ultimo rialzo dei tassi per Bce e Fed?

Nel 2021, sia la Bce sia la Fed sbagliarono pensando che la crescita dell’inflazione fosse soltanto temporanea. Questo precedente spingerà la Bce a enfatizzare la possibilità di ulteriori rialzi dei tassi.

Di Volker Schmidt*

I rappresentanti della BCE hanno già annunciato un altro aumento dei tassi di 25 punti base a fine luglio, che porterà il tasso di deposito al 3,75%. Per settembre, invece, le prospettive sono più intriganti, dato che in agosto non è prevista alcuna riunione e, per ora, non c’è una chiara tendenza verso un ulteriore rialzo dei tassi a settembre.

L’inflazione rimane ben al di sopra dell’intervallo obiettivo della banca centrale. Il tasso complessivo di inflazione è sceso al 5,5% a giugno, quasi dimezzandosi rispetto al picco del 10,6% di ottobre 2022, e si prevede che scenda ulteriormente al di sotto del 4% nel settembre 2023 e addirittura sotto al 3% in ottobre a causa di effetti base estremi: nella seconda metà di agosto dello scorso anno, infatti, i prezzi dell’elettricità e del gas sono esplosi sui mercati all’ingrosso e nelle settimane successive si sono trasmessi ai prezzi al consumo. Quindi, verso la fine del 2023 le cose si faranno interessanti, perché l’inflazione annua tornerà a salire per il venir meno degli effetti base. La BCE si troverà allora di fronte a una sfida decisiva e dovrà decidere se l’aumento è solo una fiammata di breve durata o se riflette il ritorno a un trend di inflazione di fondo che rimane superiore all’intervallo obiettivo della banca centrale.

La tendenza di fondo è spesso misurata sulla cosiddetta inflazione core, che esclude le componenti volatili come l’energia e gli alimenti. A giugno, l’inflazione core era del 5,4%, solo leggermente inferiore al picco del 5,7% di marzo. Quindi, anche se ipotizziamo un leggero movimento al ribasso, è praticamente impossibile che scenda sotto alla soglia del 5% entro la successiva riunione della banca centrale di settembre. Perciò la BCE si troverà ad affrontare il dilemma nel suo meeting di settembre, quando i dati più aggiornati sull’inflazione saranno quelli di agosto. E non porteranno rassicurazioni. Ricordiamo che, nel 2021, sia la BCE sia la FED sbagliarono completamente pensando che la crescita dell’inflazione fosse soltanto temporanea.

Questo precedente spingerà la BCE a enfatizzare la possibilità di ulteriori rialzi dei tassi, dopo quello di 25 punti base atteso a fine luglio. La banca centrale manterrà chiaramente la sua posizione di “falco”. L’economia dell’Eurozona rimane fragile, con il settore manifatturiero che, su tutti, di recente ha mostrato una significativa debolezza. D’altro canto, la disoccupazione rimane bassa, la liquidità delle imprese è solida, nonostante la stretta del credito, e i risparmi delle famiglie sono elevati. L’economia non è in grande espansione, ma certamente non ci sarà nemmeno una recessione nel breve termine. La BCE può quindi continuare a concentrarsi sul suo compito primario di lotta all’inflazione.

E la FED? Sebbene la banca centrale Usa non abbia ancora rilasciato dichiarazioni chiare sulla riunione di luglio, richiamandosi alla centralità dai dati economici, sono proprio questi ultimi che fanno prevedere un nuovo rialzo di 25 punti a fine luglio. Secondo il presidente Powell, infatti, una “forte maggioranza” dei membri della FED ritiene che saranno necessari almeno altri due rialzi dei tassi entro la fine dell’anno. Il mercato del lavoro mostra solo minimi segnali di debolezza, che secondo la FED non sono certo sufficienti a contenere le pressioni sui prezzi in modo sostenibile.

L’inflazione ha chiaramente raggiunto il suo picco, ma è ancora troppo alta e il tasso core è estremamente persistente. A giugno l’inflazione è scesa a un sorprendente 3%, ma il tasso core di quasi il 5% suggerisce che gran parte del calo dell’inflazione complessiva è dovuto a effetti di base. Negli Stati Uniti, i prezzi dell’energia hanno raggiunto il picco nel mese di giugno, pertanto, i segnali di indebolimento dei fattori sottostanti all’inflazione possono emergere prima negli Stati Uniti. L’estate sarà quindi un periodo molto stimolante, visto che, anche nel caso della FED, la prossima riunione si terrà solo a settembre: soltanto allora vedremo i primi segnali di un possibile rientro dell’inflazione stabilmente sotto al 3%, e da questo dipenderanno i prossimi eventuali rialzi dei tassi da parte della FED.

* Nella foto: Volker Schmidt, Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors

Schmidt, ETHENEA: Bce troppo ottimista sull’inflazione

Nel 2024 si prevede un’inflazione al 4%, contro la previsione Bce del 2,9%. Attesa per un nuovo aumento dei tassi di 50 punti base, ma non sarà l’ultimo.
 
“Probabilmente la Bce effettuerà un nuovo rialzo dei tassi di interesse di 50 punti base. Prevediamo però che serviranno altri interventi, perché le previsioni sull’inflazione a nostro parere sono sottodimensionate: per il 2024 ci aspettiamo un valore del 4% o superiore”. È la view di Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di ETHENEA Independent Investors.
 
Quale sarà la scelta, imminente, della Bce sui tassi di interesse appare questa volta meno chiaro rispetto alle precedenti riunioni. La banca centrale vuole ancorare le proprie decisioni sui tassi ai dati sull’inflazione e ai dati economici più recenti. L’ultima decisione, a marzo 2023, era arrivata solo pochi giorni dopo il fallimento della Silicon Valley Bank, mentre il Credit Suisse vacillava e sarebbe stato venduto a Ubs solo pochi giorni dopo. Oggi possiamo dire che l’impatto sull’economia dell’Eurozona è stato trascurabile. Il settore dei servizi è in fermento, come hanno confermato gli indicatori sul sentiment pubblicati di recente (Purchasing Managers’ Index – PMI). Nel comparto industriale la situazione è più diversificata, ma anche in questo caso gli ordini sono in ripresa. La situazione economica è in fin dei conti solida e non c’è motivo per la Bce di essere cauta. Mentre l’inflazione è ancora troppo alta, anche se in leggero calo.
 
Con la precedente decisione sui tassi di interesse, la Bce ha anche pubblicato le sue previsioni sull’inflazione, riviste al ribasso rispetto a dicembre: un tasso medio d’inflazione del 5,3% nel 2023 e del 2,9% nel 2024. Nel breve termine, contribuiranno a questo risultato il calo dei prezzi dell’energia e la normalizzazione delle catene di approvvigionamento. Un dato chiave in questo senso è stato il crollo dei prezzi regolamentati dell’elettricità in Italia, con un impressionante -55% in aprile. Ma ciò dimostra anche che il tasso d’inflazione generale impedisce di vedere con chiarezza la tendenza di fondo.
 
L’inflazione di fondo, escludendo le componenti volatili dell’energia e dei beni alimentari, continua a salire e si avvicina al 6%. Il che dovrebbe rappresentare un chiaro segnale per la Bce che la lotta all’inflazione è tutt’altro che vinta. “A nostro parere, un ulteriore aumento dei tassi di interesse di 50 punti base sarebbe il modo migliore per portare il tasso di deposito dall’attuale 3% al 3,5% e poi almeno al 4% entro la pausa estiva”, sostiene Schmidt. “Alla fine, l’inflazione di fondo e l’inflazione complessiva convergeranno entro il 2024, ma ci aspettiamo che il valore sarà attorno al 4%, se non superiore, quindi ben al di sopra delle previsioni della Bce, che sarà quindi chiamata a prendere ancora decisioni scomode sui tassi“.

Ethenea: allarme debito federale, senza accordo bipartisan Usa in recessione

Secondo Volker Schmidt, gli Stati Uniti hanno già raggiunto il tetto del debito e la spesa pubblica è coperta soltanto fino a giugno. Gli spread dei CDS sono pericolosamente vicini ai livelli del 2011.

“Il 19 gennaio la segretaria al Tesoro statunitense, Yellen, ha avvertito le camere che era stato raggiunto l’attuale tetto del debito, pari a circa 31.400 miliardi di dollari, mentre le disponibilità di cassa del Tesoro e le entrate fiscali sono sufficienti per effettuare tutti i pagamenti pubblici necessari soltanto fino a giugno. O si trova un compromesso in parlamento per evitare un default entro quella data o si rischia una profonda recessione”. È l’analisi di Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors.

Quando ha informato le camere che gli Usa hanno già raggiunto il tetto del debito, Yellen ha anche annunciato di dover interrompere temporaneamente gli investimenti nei fondi pensione dei lavoratori postali e dei dipendenti statali come parte di “misure straordinarie”. Sebbene il limite del debito sia stato innalzato 79 volte nella storia degli Stati Uniti e più di dieci volte con maggioranze bipartisan dal 2010, gli operatori ricordano dolorosamente le dure battaglie del 2011, che hanno notevoli similitudini con il periodo che stiamo vivendo adesso. Anche allora, infatti, il segretario al Tesoro aveva indirizzato una lettera al presidente del Congresso controllato dai repubblicani, mentre al Senato i democratici avevano la maggioranza, e il presidente democratico era al terzo anno del suo mandato, come Biden oggi. Nell’estate del 2011, i membri della Camera dei Rappresentanti evitarono per un soffio la bancarotta nazionale, trovando un accordo soltanto due giorni prima della scadenza del 2 agosto. Non si può quindi escludere che anche oggi il problema del tetto del debito rimanga irrisolto a lungo.

Nel 2011, l’impasse aveva fatto crollare la fiducia dei consumatori e delle imprese, l’indice azionario S&P 500 aveva ceduto il 17% nelle due settimane intorno alla scadenza, la volatilità dei prezzi delle azioni e gli spread creditizi erano aumentati bruscamente, rimanendo per lungo tempo a un livello elevato. I rendimenti dei Treasury in scadenza intorno al 2 agosto 2011 e altri strumenti del mercato monetario avevano subito un calo temporaneo particolarmente marcato, mentre alcuni Treasury non erano più accettati come garanzia per le operazioni in derivati. L’aumento dei rischi di default aveva frenato la domanda di titoli governativi statunitensi a breve termine da parte degli investitori stranieri e il dollaro aveva perso il 9,2% rispetto all’euro dall’inizio del 2011 fino alla risoluzione del problema.

Non sappiamo se la storia si ripeterà, ma sullo sfondo di un indebolimento dell’economia statunitense, un ulteriore fattore negativo come il protrarsi dei negoziati sul tetto del debito potrebbe far oscillare l’ago della bilancia verso una profonda recessione. Nel 2011, ci fu tuttavia un vincitore inaspettato: i titoli governativi statunitensi a lungo termine, che furono acquistati in massa dagli investitori nelle due settimane precedenti la scadenza, facendo scendere il rendimento decennale dal 3% al 2%. Sebbene il rischio di default sovrano fosse più che mai elevato, gli investitori paradossalmente considerarono il debito Usa a lungo termine come un porto sicuro, poiché il dollaro era ancora la valuta di riserva mondiale e il governo americano disponeva di una capacità di emissione di moneta teoricamente illimitata, che successivamente avrebbe anche utilizzato.

Se quest’anno ci sarà una resa dei conti come avvenne nel 2011, gli investitori preferiranno i titoli di Stato sicuri per le stesse ragioni e faranno scendere nuovamente i rendimenti. “Sul mercato dei Credit Default Swap (CDS) il rischio che si ripeta uno scenario analogo a quello del 2011 è già considerato molto elevato e gli spread dei CDS, che riflettono il costo dell’assicurazione del debito USA, sono saliti a livelli simili a quelli del 2011”, spiega Schmidt (nella foto). “Il mercato azionario Usa, invece, sta ancora recuperando le perdite dell’anno precedente e non c’è nessun segno di panico: l’attenzione dei media è puntata altrove e gli americani hanno altro di cui preoccuparsi. Ma tutto questo potrebbe cambiare con l’avvicinarsi della scadenza, soprattutto quando la questione del debito finirà sotto i riflettori dei media. Senza un accordo il rischio di recessione è in agguato”.

Ethenea: i rialzi di 50 punti base non sono sufficienti per fermare l’inflazione

Il tasso d’inflazione nelle ultime settimane è diminuito, ma a quasi il 9% è ancora ben al di sopra dell’intervallo obiettivo della banca centrale.

Di Volker Schmidt*

La prossima decisione della BCE sui tassi di interesse è attesa per il 2 febbraio. Quella di dicembre è stata oggetto di forti discussioni tra chi sosteneva un rialzo di 50 punti base e chi avrebbe invece preferito un altro strappo di 75 punti. Alla fine sono passati i 50 punti, con una chiara indicazione che potranno seguire diversi ulteriori rialzi della stessa entità nel 2023.

Pertanto, è ovvio aspettarsi da parte della BCE due aumenti di 50 punti base sia il 2 febbraio sia a marzo, dato che non si sono verificati eventi straordinari che giustifichino una deviazione dalle previsioni. Tuttavia, il tasso d’inflazione nelle ultime settimane è diminuito, ma a quasi il 9% è ancora ben al di sopra dell’intervallo obiettivo della banca centrale. Un ulteriore calo è sicuro ed è possibile che in estate scenda fino al 5% circa. Tuttavia, l’inflazione di fondo è in costante aumento e ha superato il 5% a dicembre. Ciò dimostra che l’inflazione si è radicata e che sono necessari ulteriori sforzi per riportare il tasso di inflazione nell’intervallo di riferimento della banca centrale.

Ma oltre a chiederci cosa farà la banca centrale, dobbiamo anche chiederci cosa faremmo noi se fossimo nei panni della BCE. La nostra principale preoccupazione riguarda il massiccio sostegno della politica fiscale nell’area euro e il suo impatto sull’andamento futuro dell’inflazione. Gli aiuti Covid hanno aumentato in modo significativo soprattutto gli attivi delle famiglie. Ma anche la capitalizzazione di molte aziende è migliore rispetto a prima della crisi. Gli interventi di sostegno per far fronte all’esplosione dei prezzi dell’energia ci dicono che questi paracadute finanziari saranno mantenuti. Inoltre, c’è l’intenzione di contrapporre al programma infrastrutturale del governo americano un intervento corrispondente nell’area euro.

Tutto ciò sta creando un potenziale inflazionistico che la banca centrale dovrebbe contrastare al più presto, con aumenti ancora più consistenti dei tassi di interesse. L’aumento del tasso di deposito dall’attuale 2% al 3% non sarà sufficiente. L’obiettivo dovrebbe essere il 4 o il 5%, se non addirittura il 6%, accompagnato da una rapida riduzione delle obbligazioni detenute dalla BCE.

* Senior portfolio manager di Ethenea Independent Investors

L’inflazione persistente potrebbe spingere i tassi europei tra il 4 e il 6%

Secondo Volker Schmidt, lo scenario più probabile è che la Bce porti i tassi al 4%. Per combattere l’inflazione, tutte le banche centrali dovranno agire in sinergia per scongiurare un continuo aumento dei tassi.

“Mentre in autunno le diverse banche centrali in molti casi hanno alzato i tassi di 75 punti base, di recente il ritmo è sceso a 25/50 punti base. Tuttavia, se nel 2023 si dovesse riscontrare un’inflazione più ostinata di quanto molti attualmente ipotizzano, allora dovremo convivere ancora a lungo con questi rialzi”. È la previsione di Volker Schmidt, senior portfolio manager di Ethenea Independent Investors.

A dicembre, le banche centrali di tutto il mondo, inclusa anche la Bank of Japan, hanno alzato ulteriormente i tassi. A livello formale, la BoJ si è limitata ad ampliare l’intervallo obiettivo per i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi a 10 anni da -0,25%/+0,25% a -0,5%/+0,5%. Tuttavia, dato che in tal modo i rendimenti dei titoli interessati sono aumentati dallo 0,25% allo 0,5%, consideriamo questo intervento un aumento dei tassi. Dal Canada agli Stati Uniti, dall’Eurozona alla Svizzera e dalla Norvegia alla Gran Bretagna, a dicembre i tassi di riferimento sono stati rivisti al rialzo ovunque: sette in un colpo solo. Altri rialzi dei tassi seguiranno nel 2023, ma il ritmo sta rallentando.

Per quando riguarda l’Eurozona, lo scenario più probabile è quello che vede i tassi arrivare al 4%, un compromesso tra le necessità di raffreddare la domanda, ancorare le aspettative d’inflazione a un livello basso ed essere cauti nel superare i rialzi dei tassi. Non si può escludere anche un rialzo dei tassi che arrivi al 6%: nel 2023 l’inflazione nell’Eurozona supererà nuovamente il 6% in media, superando quella degli Stati Uniti. E questo singolo elemento da solo potrebbe già giustificare un livello di tassi d’interesse del 6%, dato che per combattere l’inflazione nel lungo periodo, i tassi di interesse di riferimento dovrebbero essere più alti del tasso di inflazione. Tuttavia i programmi di sostegno del governo lavorano contro le misure restrittive delle banche centrali. L’ultimo scenario è quello della terapia d’urto, sotto forma di aumento dei tassi di interesse di riferimento all’8%, come in Ungheria: una extrema ratio che è però tendiamo a escludere.

“In ogni caso, sarà l’inflazione a tenere banco”, conclude Schmidt (nella foto). “L’inflazione nella sua forma attuale è globale e può essere combattuta soltanto insieme: ogni banca centrale deve fare la sua parte e nessuna può agire da sola. Non è concepibile che l’inflazione rimanga alta solo nell’Eurozona e scenda stabilmente sotto il 2% nel resto del mondo. Ed è ancora meno concepibile che l’inflazione possa scendere stabilmente nell’Eurozona, rimanendo alta nelle altre principali economie. O le banche centrali si muovono insieme o non raggiungeranno l’obiettivo. E se non ci riusciranno rapidamente, i tassi d’interesse potrebbero continuare a salire, sia nell’Eurozona che a livello globale”.

Schmidt, Ethenea: Bce inadeguata, serve un nuovo “whatever it takes”

I rialzi dei tassi attesi da parte della Banca centrale europea fino all’1.25% potrebbero non bastare per difendere l’euro. Possibile un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine.

“È ora che la Bce metta fine alla politica monetaria degli ultimi dieci anni e inizi ad adottare misure coerenti e credibili per contenere l’inflazione. Come ha dimostrato di saper fare, invece, la Banca nazionale svizzera, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% per difendere il cambio del franco svizzero”, sostiene Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors. “Gli strumenti più importanti nell’arsenale di una banca centrale non sono gli acquisti di obbligazioni o i tassi d’interesse di riferimento, bensì l’integrità e la credibilità”, prosegue Schmidt. “La Bce ha perso buona parte di entrambe negli ultimi anni, ma è ancora in tempo per riconquistare la fiducia dei cittadini. Ciò richiede una consistente svolta di politica monetaria, un nuovo momento whatever it takes”.

Sono passati circa dieci anni da quando, il 26 luglio 2012, l’allora presidente della Banca centrale europea e attuale campo del Governo italiano, Mario Draghi, pronunciò quel famoso Whatever it takes, che avrebbe dato una svolta alla crisi dell’euro. In quel periodo, i paesi dell’Europa meridionale come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo erano afflitti da enormi problemi di rifinanziamento a causa di deficit delle partite correnti persistentemente elevati, dell’andamento del debito pubblico nel periodo precedente la crisi finanziaria e dell’eliminazione dei meccanismi di cambio dovuta all’Unione monetaria europea. Nel giro di pochissimo tempo, i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni schizzarono oltre il 6%. Solo il coraggioso intervento delle autorità politiche e della Banca centrale europea, con al centro l’annuncio del presidente della Bce, a settembre 2012, di voler acquistare quantità illimitate di titoli governativi degli Stati dell’Ue, riuscì a frenare il massiccio aumento dei rendimenti dei titoli dei Paesi del Sud e a stabilizzare l’economia dell’area dell’euro. “Gli attuali dati sull’inflazione mostrano che ci troviamo di nuovo in un momento whatever it takes”, sottolinea Schmidt. “Con un aumento dei prezzi del 7,9% in Germania a giugno, gli economisti prevedono un’inflazione media del 6,8% nell’area euro per l’intero 2022 e un’inflazione in rallentamento ma ancora elevata nel 2023 a causa degli effetti di base”.

Naturalmente è difficile fare previsioni nell’attuale contesto economico. La crisi ucraina, le misure contro il Covid-19 e le strozzature lungo le catene di approvvigionamento rappresentano un mix difficilmente prevedibile di variabili in costante evoluzione e il desiderio di non spegnere subito la timida ripresa economica dell’area euro dopo la crisi sanitaria è più che comprensibile. Tuttavia, tassi d’interesse di riferimento pari al -0,5% non sono più graditi ad ampie fasce della popolazione, visto l’attuale andamento dell’inflazione, e, nel peggiore dei casi, determineranno una notevole perdita di fiducia e spaccature sociali.

La Banca nazionale svizzera (Bns) ha recentemente dimostrato che esistono alternative, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% e portandolo a -0,25%, in risposta a un tasso d’inflazione che a maggio aveva raggiunto il massimo da 14 anni ma che, al 2,9%, resta nettamente inferiore a quello dei vicini Paesi europei. Con questa mossa, l’istituto centrale svizzero anticipa la Banca centrale europea, che probabilmente annuncerà un primo rialzo dei tassi dello 0,25% nella prossima riunione di luglio. Se la Bns non avesse alzato i tassi, il franco svizzero si sarebbe probabilmente svalutato in misura significativa, alimentando ulteriormente le pressioni inflazionistiche con l’aumento dei prezzi delle importazioni.

Per sottolineare ulteriormente la posizione della Bns, il presidente dell’istituto, Thomas Jordan, ha indicato che in futuro continuerà a monitorare l’andamento dei mercati dei cambi e, se necessario, interverrà vendendo titoli di Stato dell’area euro, Bund in primis, al fine di rafforzare il franco svizzero. “La svolta di politica monetaria è arrivata”, è convinto Schmidt. La Federal Reserve statunitense ha recentemente innalzato dello 0,75% l’intervallo obiettivo per il tasso sui federal funds, ora compreso tra l’1,50% e l’1,75%, la Bank of England (BoE) ha aumentato per la quinta volta consecutiva il tasso d’interesse di riferimento dello 0,25% portandolo all’1,25% nonostante i crescenti timori di recessione e persino la banca centrale svizzera ha aumentato a sorpresa i tassi d’interesse dello 0,5% nonostante livelli d’inflazione a una sola cifra. Solo la Banca centrale europea sembra paralizzata e continua ad aderire alla sua politica di tassi d’interesse bassi. “L’istituto di Francoforte non potrà esimersi dall’intraprendere un nuovo corso. La banca centrale d’oltreoceano è troppo influente perché la Bce possa opporsi alla sua politica monetaria, rischiare una svalutazione dell’euro e, nella peggiore delle ipotesi, alimentare ulteriormente l’inflazione”, conclude Schmidt. “Il mercato prevede quindi almeno cinque rialzi dei tassi, per un totale di ben l’1,25%. Riteniamo addirittura che ciò non sarà sufficiente e che nel corso del prossimo anno la Banca centrale europea dovrà portare il tasso di riferimento ben oltre la soglia dell’1,5%, in direzione del 2%, al fine di contrastare un ulteriore deprezzamento dell’euro. Vediamo pertanto il potenziale di un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine (calo dei prezzi delle obbligazioni) e abbiamo posizionato i nostri portafogli di conseguenza vendendo futures sui tassi d’interesse in euro”.