Marzo 28, 2024
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La Bce aumenta i tassi di mezzo punto e vara lo scudo anti spread. Quale autunno per l’Italia?

Francoforte chiude ufficialmente la fase storica dei tassi negativi con una stretta più forte del previsto, ma porta con sè anche lo scudo anti-spread. Draghi lascia l’Italia in pessime condizioni.

Sorprende ma non troppo i mercati la decisione del Consiglio direttivo della Bce, che ha deciso per un rialzo di 50 basis point anzichè i 25 previsti fino a pochi giorni fa. L’aumento pesa sui tre tassi di interesse di riferimento, nel quadro di “misure fondamentali per assicurare un ritorno dell’inflazione verso il suo obiettivo del 2% a medio termine”. Piazza Affari, che scambiava in forte ribasso dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Mario Draghi, ha recuperato più di un punto percentuale nel finale (dopo l’annuncio della Bce sui tassi), mentre le borse USA aprivano in continuità con la striscia positiva degli ultimi giorni. 

Il Consiglio direttivo Bce ha comunicato, in una nota, che ha “ritenuto opportuno adottare un primo intervento più ampio nella normalizzazione dei tassi di riferimento rispetto a quanto segnalato nella riunione precedente”, con una “decisione che si basa sulla valutazione aggiornata del Consiglio direttivo sui rischi di inflazione” anche nell’ottica di una “efficace trasmissione della politica monetaria”. La Bce, così, chiude in un colpo solo la fase storica dei tassi negativi inaugurata da Mario Draghi, e annuncia lo scudo anti-spread, ossia lo “strumento di protezione del meccanismo di trasmissione della politica monetaria (Transmission Protection Instrument, TPI) che assicurerà che “l’orientamento di politica monetaria sia trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro” ed “è un presupposto affinché la Bce possa adempiere il mandato di mantenere la stabilità dei prezzi”.

In sintesi, la mossa della Bce sui tassi si basa su una valutazione del Consiglio direttivo relativa ai rischi di inflazione e al possibile sostegno aggiuntivo fornito dal TPI. Nella mente dei tecnici Bce, questo mix tra analisi previsionale e strumenti di protezione per i paesi più indebitati dell’area Euro dovrebbe essere sufficiente per rafforzare le aspettative di minore inflazione “assicurando che le condizioni della domanda si adeguino in linea con il conseguimento dell’obiettivo di inflazione nel medio periodo”. Tale obiettivo, ricordiamolo, è del 2%, ed oggi siamo parecchio lontani.

In ogni caso, la mossa accontenta sia i falchi che le colombe, a cui piace molto lo scudo anti-spread e molto meno un rialzo di mezzo punto. Per quel che riguarda il TPI, invece, esso rappresenta “un ulteriore strumento a disposizione del Consiglio direttivo attivabile per contrastare ingiustificate, disordinate dinamiche di mercato che mettono seriamente a repentaglio la trasmissione della politica monetaria in tutta l’area dell’euro”. In concreto, quindi, la Bce acquisterà i titoli governativi dei paesi che, come l’Italia, sono le prime vittime della speculazione di mercato, con conseguente allargamento dello spread rispetto al BUND tedesco. “La portata degli acquisti del TPI” – secondo il Consiglio direttivo – “dipenderà dalla gravità dei rischi per la trasmissione della politica monetaria. Gli acquisti non sono soggetti a restrizioni ex ante. Salvaguardando il meccanismo di trasmissione, il TPI consentirà al Consiglio direttivo di assolvere più efficacemente il mandato di preservare la stabilità dei prezzi”.

Prima che scatti lo scudo, però, Il Consiglio direttivo Bce ha ricordato che c’è un altro strumento a sua disposizione, e cioè la possibilità di reinvestire il capitale rimborsato sui titoli in scadenza del portafoglio del PEPP (pandemic emergency purchase programme) che “rimane la prima linea di difesa al fine di contrastare i rischi per il meccanismo di trasmissione connessi alla pandemia”. Pertanto, l’avvio del principale strumento di difesa dello spread italiano e spagnolo, secondo la stessa nota del Consiglio Bce, verrebbe usato solo in seconda battuta, dopo la leva – del tutto secondaria, in quanto a efficacia – determinata dall’acquisto dei titoli effettuato grazie alla liquidità generata dal rimborso dei titoli in scadenza precedentemente inseriti nel portafoglio del PEPP.

Questo non fa ben sperare per l’Italia, che in autunno sconterà il consuntivo del governo Draghi: 200 miliardi di debito in più; spread a più del doppio del governo precedente; crisi energetica conclamata e Commissione Europea che chiede risparmi per il 15% dei consumi abituali; inflazione all’8,6% e saldo delle partite correnti a – 8,6 miliardi di euro nel primo quadrimestre dell’anno (dopo oltre un decennio di attivo). Se fossimo malpensanti, diremmo che Draghi non vedeva l’ora di lasciare l’incarico per non dover gestire l’autunno “di fuoco” (e freddo) che ci aspetta. Del resto, la crisi di governo l’ha aperta lui stesso, nonostante avesse una maggioranza netta anche senza la Lega e il M5S. La politica non smette mai di sorprenderci.

L’America unita alza i tassi dello 0,75%, l’Europa divisa si limita agli annunci

La Fed vara un energico aumento dei tassi, mentre la Bce annuncia futuri strumenti anti-spread non ancora ben identificati, irritando gli analisti. Un modello debole di Unione Europea non può che produrre soluzioni deboli.  

Che il momento non fosse dei migliori, già anche i poco informati lo avevano capito. In una Unione Europea che, negli ultimi due anni, ci aveva abituato ad interventi “regolarmente straordinari” di finanza pubblica a sostegno dell’economia, in molti si chiedevano come l’attuale congiuntura – certamente più grave di qualunque semplice correzione dei mercati finanziari e dell’economia reale – non avesse ancora generato un dibattito sull’adozione di misure capaci quanto meno di ridurre i danni. In tal senso, un primo segnale era arrivato ieri, con una riunione non programmata del Consiglio direttivo della Banca centrale europea per discutere della recente debacle dei titoli di Stato, cresciuta di intensità dopo che è stato annunciato il piano per l’aumento dei tassi di interesse.

L’annuncio della riunione era arrivato dopo che il rendimento del debito decennale italiano era salito al di sopra del 4% per la prima volta dal 2014, e questo determinava un nuovo scenario di politica monetaria, in cui la Bce pone fine a otto anni di tassi negativi e avvia un ciclo di rialzi pianificati a partire da luglio e con prossima tappa a Settembre. In più – ed è questo ciò che ha generato il sell-off sui titoli di stato italiani – già dal primo Luglio la Bce terminerà gli acquisti netti di obbligazioni (il c.d. Quantitative Easing) che negli ultimi anni ha determinato una enorme espansione della liquidità a sostegno delle economie colpite dal Covid.

La buona notizia, nella mente degli strateghi della Bce, sarebbe stata quella di aver incaricato gli uffici tecnici di accelerare il completamento di un nuovo strumento anti-frammentazione dello spread – che in Italia è aumentato  sensibilmente nelle ultime settimane rispetto al BUND tedesco – con l’obiettivo di avere delle opzioni nel caso in cui il programma di finanza straordinaria inaugurato  con la pandemia non dovesse bastare; ma la mossa della Bce non ha convinto del tutto gli analisti, poiché la sua efficacia è tutta da dimostrare, e la speculazione  sui titoli di stato dei paesi periferici raramente si ferma di fronte ai semplici annunci di eventi o mezzi ancora da definire, neanche se hanno il marchio della Banca centrale europea. Infatti, secondo gli analisti di Carmignac, è probabile che questo strumento genericamente annunciato non impedirà ai mercati di continuare a spingere per un aumento degli spread europei, frammentandoli ulteriormente al punto che, quando il c.d. scudo anti-spread vedrà la luce, l’entità del differenziale di rendimento tra BTP e BUND sarà tale che l’efficacia del nuovo strumento potrebbe rivelarsi insufficiente.

Pertanto, si tratterebbe del classico elefante che partorisce un topolino, e questo purtroppo è il prodotto di un modello fallimentare di Unione Europea, che di fronte agli eventi straordinari – l’inflazione al 7% è un fenomeno dai risvolti economici del tutto simili, se non più gravi, di quelli scatenati dalla pandemia – rimane diviso sull’opportunità e la necessità di introdurre un nuovo e più difficile meccanismo di stabilizzazione che possa mettere in repentaglio l’equilibrio economico dei paesi del Nord Europa, lasciando a se stessi quelli del Sud (tra cui, naturalmente, l’Italia). La circostanza che ha più irritato gli analisti, inoltre, è che la Bce, dopo soli sei giorni dall’aver annunciato la fine del QE, rilancia lo strumento dei reinvestimenti flessibili del programma PEPP che aveva già ripetutamente annunciato dal 2020, riformulandolo adesso in chiave “anti-spread”. La verità è che la Bce non ha ancora un piano, o non è stata in grado di definirlo entro la giornata di ieri, ma le circostanze richiedevano una mossa e la banca centrale si è limitata ad annunciare la prossima creazione di un nuovo strumento di sostegno contro gli spread di cui, però, non si conoscono bene le coordinate, rivelando così una incertezza di fondo che nessuna istituzione finanziaria può permettersi senza trasmetterla irrimediabilmente agli analisti e ai mercati.

In pratica, la Bce avrebbe dovuto usare la stessa sicurezza ostentata nel comunicare nettamente che, nella prossima riunione di Luglio, sarà deciso un rialzo di 25 punti base, e un altro rialzo di entità ancora non definita (e questo ci sta, invece) a settembre. Si pensa che l’aumento di tasso di fine estate sarà dello 0,50%, e che tale misura potrebbe essere più leggera solo qualora in quel periodo le pressioni inflazionistiche non siano migliorate. La Fed, dal canto suo, è intervenuta con il suo stile tradizionalmente energico, ed ha alzato i tassi di interesse dello 0,75%, con una mossa che non si vedeva dal 1994. Il costo del denaro sale così in una forchetta fra l’1,50 e l’1,75%, e la Fed prevede per il 2022 tassi di interesse compresi tra il 3,1% e il 3,6% un range compreso tra il 3,6% e il 4,1% nel 2023. Coerentemente, la Federal Reserve ha tagliato le stime sul Pil Usa all’1,7% contro +2,8% stimato a marzo, sia per il 2022 che per il 2023, e all’1,9% per il 2024. Ciò consentirà agli USA di mantenere il contesto di sostanziale piena occupazione, poiché la Fed stima che il Paese chiuderà il 2022 con un tasso di disoccupazione del 3,7% ed il 2023 con un tasso del 3,9%.

In definitiva, l’attuale congiuntura economica mondiale ha fatto emergere, ancora una volta, la profonda differenza tra i due “modelli federativi” continentali  del mondo occidentale. Da un lato, infatti, abbiamo il modello degli Stati Uniti d’America che, appunto, è una consolidata unione di popoli, sviluppatasi lungo l’arco di eventi storici e culturali anche gravi, che però ne hanno forgiato il carattere e il senso di appartenenza; dall’altro, abbiamo l’Unione Europea che non è una vera unione (né popolare né fiscale), ed è nata da un semplice disegno economico a guida franco-tedesca capace di realizzare un modello basato sulla dicotomia tra Nord e Sud Europa, che oggi impedisce la realizzazione di programmi unitari efficaci (e rapidi) ogni qual volta che le circostanze straordinarie lo richiedono.

Si tratta, quindi, di un modello “depotenziato” di Unione Europea, con il quale dovremo convivere per molti anni ancora. E da un modello economico debole (solo per i paesi del Sud Europa, però), ci si possono aspettare soltanto soluzioni  deboli. 

Prezzi dei bond stabili nel 2022 secondo Ethenea

Per Volker Schmidt, le strozzature negli approvvigionamenti e i prezzi dell’energia dovrebbero attenuarsi riducendo l’inflazione. C’è il rischio di una spirale salari-prezzi che costringerebbe le banche centrali ad alzare anticipatamente i tassi di interesse.

“Per il 2022 prevediamo un anno dominato dal carry sul lato obbligazionario, con bassa volatilità e pagamenti delle cedole in corso, ma anche nessun aumento significativo dei prezzi, a causa degli spread già molto bassi e del loro potenziale limitato di ulteriore contrazione”. È la previsione per il comparto obbligazionario di Volker Schmidt, senior portfolio manager di Ethenea Independent Investors.

Nel 2021, le banche centrali hanno continuato ad acquistare obbligazioni a volumi record, fornendo un forte sostegno ai mercati obbligazionari. Gli aumenti dei rendimenti sono stati relativamente moderati nonostante un’economia in rapida ripresa e, in alcuni casi, un marcato superamento dei tassi di inflazione. Nel 2022, prevediamo che le banche centrali si allontaneranno gradualmente dalla loro politica monetaria ultra accomodante e ridurranno la loro espansione della liquidità, come in alcuni casi è già accaduto. La Bce ha già ridimensionato i suoi acquisti di obbligazioni da circa 80 miliardi di euro nel secondo e terzo trimestre a 65-70 miliardi nel quarto trimestre.

A marzo del prossimo anno scadrà il Programma di acquisto di emergenza pandemica (Pepp): pur ritenendo improbabile un’estensione del programma, date le condizioni di finanziamento molto favorevoli e le basse insolvenze aziendali, è probabile un graduale passaggio al regolare Asset Purchase Program (App). Ciò significherebbe che lo stimolo continuerebbe ma su scala molto più ridotta. Negli Stati Uniti, la posizione della politica monetaria è molto più chiara. La Fed ridurrà il suo programma di acquisto di obbligazioni da 120 miliardi di dollari di 15 miliardi di dollari al mese e probabilmente entro la metà del prossimo anni avrà ridimensionato completamente il programma. Il prossimo passo potrebbe quindi essere il primo rialzo dei tassi di interesse.

“Dati i venti favorevoli forniti dalle banche centrali, prevediamo che l’economia continuerà a riprendersi e sperimenterà un’altra ripresa”, sottolinea Schmidt. “Le prime indicazioni sono che le strozzature della catena di approvvigionamento e ii prezzi elevati dei trasporti e dell’energia si stanno gradualmente attenuando, il che ridurrebbe le pressioni inflazionistiche nel prossimo anno. In altre aree la situazione rimane tesa, in particolare nel mercato del lavoro, dove sussiste una forte pressione al rialzo dei salari. Una moderata spirale salari-prezzi sarebbe sicuramente uno scenario negativo per i mercati obbligazionari globali e costringerebbe le banche centrali ad alzare anticipatamente i tassi di interesse. Tuttavia, questo non è lo scenario attuale”.

“Il nostro scenario di base prevede un ulteriore moderato aumento dei rendimenti nel prossimo anno”, spiega Schmidt. “Nel 2021, i rendimenti nell’area del dollaro Usa sono aumentati ben più di quelli nell’Eurozona, motivo per cui vediamo un potenziale di recupero alla luce della scadenza del programma Pepp. D’altro canto, l’elevata domanda da parte di investitori istituzionali come compagnie assicurative, fondi pensione, banche e hedge fund, che richiedono obbligazioni sovrane come garanzia per le loro strategie con leva finanziaria, limiterà la possibilità di rendimenti significativamente più elevati”.

“Per quanto riguarda le società, ci aspettiamo utili stabili nel 2022, anche se i maggiori costi di produzione potranno esercitare pressioni sulle imprese che hanno minor potere contrattuale sui prezzi. Pertanto, continuiamo a privilegiare le aziende con margini e modelli di business solidi, che sono maggiormente in grado di trasferire ai clienti i costi di input più elevati, grazie alla loro posizione di mercato. È probabile che gli spread sulle obbligazioni societarie investment grade rimarranno bassi, poiché le società dispongono di liquidità sufficiente per gli anni a venire e tendono a utilizzare il mercato primario in modo molto opportunistico, ad esempio in caso di condizioni di finanziamento favorevoli o per fusioni e acquisizioni. Nel mercato high yield gli spread potranno allargarsi solo in misura limitata, a causa del livello di stress estremamente basso del mercato”.

Stime di crescita UE incoraggianti. Il mondo sostiene la ripresa, occhio al comparto obbligazionario

Nonostante le incognite legate all’evoluzione della pandemia e all’efficacia delle misure di sostegno all’economia, la ripresa è trainata dagli investimenti. Il miglioramento economico globale porterà la fine delle politiche monetarie accomodanti ed un aumento dei rendimenti delle obbligazioni, destinate così a rendere il comparto obbligazionario scarsamente conveniente.

Il quadro generale di ripresa delle economie mondiali rimane ancora strettamente legato al miglioramento del quadro sanitario globale e, localmente, al sostegno proveniente dalla politica monetaria e dalle politiche di bilancio dei singoli stati. In Europa, poi, la crescita – Il consensus prevede un crescita del 4,3% nel 2021- sarà fortemente dipendente dal modo in cui i paesi aderenti all’UE riusciranno a spendere al meglio le risorse derivanti dai fondi europei del Recovery Plan.

In Italia, queste risorse rientrano nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sul quale da tempo sono puntati i riflettori per via dei dubbi – assolutamente fondati, in considerazione del livello di responsabilità politica della nostra classe dirigente – mitigati dal ruolo di garanzia di Mario Draghi, che nel passaggio da “tecnico” a “politico” pare non abbia perso il patrimonio di credibilità acquisito negli anni scorsi. Nel frattempo, la BCE lascia intatti i tassi d’interesse, con il tasso principale che rimane a zero ed il tasso sui depositi a -0,50% (quello sui prestiti marginali a 0,25%). Gli acquisti netti di titoli per immettere liquidità nel sistema continueranno ad un elevato, e le stime di crescita per l’Eurozona nel 2021 e 2022 sono riviste al rialzo (+4,6% e +4,7%, +2,1% nel 2023).

L’inflazione, che negli ultimi mesi ha causato dolori in USA (con il prezzo dei treasury a picco), sarà dell’1,9% nel 2021, dell’1,5% nel 2022 e dell’1,4% nel 2023. Sul tema, la presidente Lagarde ha affermato che l’inflazione sta risalendo principalmente a causa di fattori temporanei, e che in questo momento “una stretta sarebbe prematura e creerebbe dei rischi”. In pratica, se nel primo trimestre l’economia europea ha beneficiato della riapertura dell’economia mondiale, grazie al programma di vaccinazione ed alla spesa pubblica, nel secondo trimestre la ripresa economica globale si svilupperà più lentamente, ed accelererà nella seconda metà dell’anno, creando frizioni inflazionistiche di fronte alle quali, però, le banche centrali manterranno posizioni attendiste, favorendo così i mercati emergenti oggi al traino di Cina e India.

Naturalmente, il miglioramento economico globale porterà ineluttabilmente – e gradualmente, senza scossoni – la fine delle politiche monetarie accomodanti, e le aspettative di questa circostanza porteranno ad un aumento dei rendimenti delle obbligazioni e ad una diminuzione dei loro prezzi, destinati così a rendere il comparto obbligazionario piuttosto rischioso per qualunque portafoglio che non contenga soluzioni flessibili e covered bond.

“I dati relativi all’andamento dell’economia nell’Eurozona sono incoraggianti, e spingono ad un cauto ottimismo. La BCE ha infatti alzato le stime di crescita per il 2021″, ha dichiarato Moreno Zani (nella foto), Presidente di Tendercapital. “Positiva la rassicurazione della Presidente Lagarde in merito al mantenimento del Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (PEPP) a sostegno delle politiche di bilancio. Occorrerà, peraltro, monitorare con attenzione il tasso di inflazione core alla luce del lieve rialzo che ha portato la BCE a rivedere le proiezioni, pur rimanendo ben al di sotto del target del 2%. Preoccupa maggiormente il balzo dell’inflazione negli Stati Uniti, salita al +0,6% nel mese di maggio con una previsione per il 2021 pari al +5%”. E’ realistico – secondo Zani – ipotizzare che si tratti, almeno in Europa, di un fattore temporaneo legato alle manovre espansive, alla rapida ripartenza dell’economia ed ai prezzi delle materie prime. In tale contesto è ragionevole immaginare che il ritorno alla normalità della politica monetaria sarà graduale. “La previsione di uno strumento innovativo come il Next Generation EU – conclude Zani – è fondamentale purchè i Paesi membri utilizzino tali risorse in maniera virtuosa”.

Oltreoceano, l’economia americana crescerà almeno del 5% nel 2021, ma queste previsioni sono destinate ad essere ritoccate al rialzo per via degli effetti del pacchetto fiscale da 1,9 trilioni di dollari già approvato, e di quelli futuri di un altro pacchetto da 3 trilioni in fase di studio. Ciò aumenta i timori che un aumento strutturale dell’inflazione (al momento negato dal governo, ma non sappiamo fino a quando) costringa la Federal Reserve a reagire. Di certo, questo dibattito sulla FED-attendista-fino-a-quando sta già dominando la scena da alcune settimane, animando i mercati e mettendo pressione alla curva dei rendimenti dei Treasury.

In Cina la crescita dovrebbe tendere all’8%, ma il paese sembra attraversare una fase di debolezza nonostante la politica fiscale ancora accomodante. I consumi, infatti, sono in fase di stagnazione dopo una corsa lunga alcuni anni, ma la domanda è prevista in aumento, e questo rende solide le esportazioni, in particolare quelle di semiconduttori. Permane il rischio-bolla nel mercato immobiliare, e la banca centrale sembra indirizzata ad aumentare i tassi di interesse di soli 20 punti base, ma il governo continuerà a perseguire un programma di prudente riduzione dei rischi nei settori immobiliare e finanziario, concentrandosi sulla “crescita di qualità” e ponendo quindi maggiore attenzione sulla tecnologia, sull’ambiente e sui consumi interni.