Novembre 4, 2025

Morireste per questa Europa? Se l’UE vuole la pace, costruisca una civiltà

“Se vuoi la pace, prepara la guerra” è il mantra delle massime istituzioni europee. Il ritorno del mito del riarmo e la fragilità dell’Europa di oggi.

Di Valerio Giunta, CEO di Startup Italia e Founder di Banking People

Nel cuore delle istituzioni europee si sente risuonare, come all’inizio del ‘900, una vecchia idea: “Per essere ascoltati nel mondo, dobbiamo riarmarci“. Questo strano principio arriva anche da parte di politici dichiaratamente cattolici: “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra“, ha affermato Ursula von der Leyen presso la Royal Danish Military Academy, lo scorso 18 marzo 2025. Una dichiarazione del tutto simile a quella del 1909 di Sir Edward Grey, Ministro degli Esteri britannico, in occasione dell’intervento alla Camera dei Comuni di quel tempo (“Un’adeguata preparazione militare è la migliore garanzia di pace“). Due frasi, pronunciate a oltre un secolo di distanza, in due epoche diverse eppure identiche nella logica: la pace si ottiene mostrando la forza, il rispetto si conquista con le armi, e la diplomazia è efficace solo se accompagnata da un arsenale temibile.

È la riscrittura moderna del vecchio motto latino: “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, preparati alla guerra). Ma nel XXI secolo, cosa vuol dire “prepararsi alla guerra“? Significa costruire armi (soprattutto nucleari) di nuova generazione, aumentare il budget della difesa, sviluppare intelligenze artificiali belliche, impiegare droni autonomi, militarizzare il cyberspazio. Tutto ciò in un’Europa che, paradossalmente, non ha nemmeno più la forza lavoro per produrre quelle armi, né la volontà collettiva di difendersi realmente. Le aziende non trovano operai specializzati, tecnici, ingegneri, mancano le mani e le menti per costruire: figuriamoci se l’UE dovesse trovare i soldati per combattere. Siamo intrisi dalla cultura del disimpegno, dell’equilibrio vita-lavoro come valore assoluto e come sostituto dell’etica del dovere, della responsabilità civile, dell’identità condivisa.

La vera crisi non è militare, è identitaria. Il problema dell’Europa non è la mancanza di armi, bensì la mancanza di ethos, di una visione comune, di una identità collettiva per cui valga la pena vivere e, se necessario, morire. Senza un fondamento culturale e spirituale, ogni strategia militare è un artificio vuoto. Possiamo avere missili, ma non avremo motivazione, né coraggio, né coesione. Quale identità, quindi? L’Europa è nata da radici greche, romane e cristiane. È il cristianesimo che ha fornito per secoli la bussola morale, la coesione spirituale che ha dato dignità al lavoro, centralità alla persona, senso al sacrificio. Il fallimento storico del “para bellum” lo abbiamo già sperimentato nel decennio antecedente la Prima Guerra Mondiale, allorquando le potenze europee hanno creduto che prepararsi alla guerra avrebbe garantito la pace. Il risultato? 16 milioni di morti, un continente devastato, naturale terreno di coltura dei germi del fascismo e del bolscevismo.

Durante il XX secolo, la cd. Guerra Fredda, il riarmo nucleare garantì una “pace dell’incubo”. La Crisi di Cuba del 1962 portò il mondo a un passo dall’apocalisse. Solo la diplomazia segreta salvò l’umanità — non certo le testate nucleari. Oggi quella logica ritorna. Ma con tecnologie più sofisticate, soglie di attacco più basse e Stati più instabili. In questo contesto nessuno ci dice che nel 2024, la spesa militare europea ha superato quella russa del 58% quando calcolata a parità di potere d’acquisto e secondo la definizione NATO. Anche considerando solo i Paesi dell’UE e della NATO, il vantaggio rimane significativo (+56%), e persiste (+19%) limitandosi alla sola UE.  Tuttavia, l’efficacia di questa spesa è compromessa da una frammentazione strutturale (Fonte: Università Cattolica del Sacro Cuore – Osservatorio CPI, 22 febbraio 2025).

Cosa vuol dire “frammentazione strutturale“? Non c’è un comando unificato, le dottrine operative sono frammentate, gli armamenti non sono pienamente interoperabili e manca una volontà politica e popolare di impiego reale. Armarsi senza tecnologia e spirito di crescita è un’illusione. Lo confermano i due recenti brevi conflitti:
1) nella “guerra” per il Kashmir, il Pakistan ha abbattuto diversi caccia indiani di quarta generazione (inclusi i Rafale francesi) grazie ai J-10C cinesi, che costano un sesto dei Rafale francesi (nb: la Cina sta rilasciando sul mercato caccia di sesta generazione). Una tecnologia emergente e costi molto contenuti che batte quella occidentale, pertanto. I mercati hanno premiato Pechino, mentre Parigi si è chiusa in un imbarazzante silenzio.
2) Non hanno fatto meglio gli USA contro gli Houthi: aerei caduti, difese navali eluse, miliziani resilienti: una superpotenza in difficoltà contro guerriglieri determinati.

L’Europa oggi si trova quindi di fronte a un bivio storico: spendere ulteriori miliardi in armi, in una nuova illusione di “peso geopolitico” che maschera la fragilità interna, oppure investire in cultura, educazione, ethos, spiritualità. La vera difesa di un popolo non è l’acciaio dei cannoni, ma la fibra morale, associata ad una scuola che insegna storia, bellezza, filosofia, ad una società che non ha vergogna delle proprie radici cristiane e ad una politica che forma cittadini, non solo consumatori. Pertanto, il motto da rilanciare oggi non è “Si vis pacem, para bellum“, bensì “Si vis pacem, para civitatem“, ossia “Se vuoi la pace, costruisci una civiltà“, una comunità vera. Lo stesso Papa Francesco aveva affermato che la pace si costruisce “con il lavoro, la giustizia, l’educazione e la cultura del dialogo”. Lo ha detto chiaramente già durante la Giornata Mondiale della Pace nel gennaio 2014: “La pace non è un bene che viene da fuori, è un bene che nasce dal cuore dell’uomo. Si costruisce giorno per giorno, nel lavoro, nella giustizia, nell’educazione e nella cultura del dialogo“.

Di conseguenza, l’Europa non ha bisogno di incrementare la potenza militare, ha bisogno solo di ritrovare se stessa. In tal modo potrà tornare a parlare al mondo non con le armi, ma con la forza silenziosa di una civiltà viva. La forza di un popolo non è nei carri armati, ma nella sua capacità di rispondere alla domanda: “Chi siamo?”. Questo comporta dirottare gli investimenti non negli arsenali – che arricchiscono una industria, quella delle armi, che per essere alimentata ha bisogno di periodici conflitti – ma in educazione e cultura. Non in deterrenza, ma in coesione sociale. Non in propaganda, ma in una rinnovata identità europea fondata su ethos, comunità e radici cristiane. Questa è l’unica vera strategia per contare nel mondo, ed essere nuovamente una civiltà guida per i popoli. Primo fra tutti, quello europeo.

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