Marzo 28, 2024
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Equity americano in balia degli algoritmi “stupidi”. I bond tornano a competere con le azioni

L’algoritmo è programmato per interrompere la sua attività nel momento in cui “non capisce” alcuni spostamenti di prezzo innescati da eventi esterni. Istruzioni: long bonds e short equity.

Di Maurizio Novelli*

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un’anomala fase di rialzo delle borse mentre i tassi salgono, l’economia rallenta, i profitti scendono e le banche falliscono. In questa fase di elevata incertezza negativa, l’attività di trading “algo” (effettuata con gli algoritmi, ndr) si è intensificata ai massimi degli ultimi nove anni, facendo salire un mercato che era invece esposto al rischio di scendere.

Il mercato finanziario americano, pertanto, è ormai manipolato dagli algoritmi, che fanno circa il 70% dei volumi giornalieri del mercato azionario. Le “macchine” comprano mentre gli “umani” vendono. Fa molto riflettere l’articolo apparso sul Financial Times del 14 maggio – Algorithms prop up the market as fretful humans sit out the uncertainty – che descrive un’intensa attività “contrarian” da parte degli algoritmi, in una fase in cui il mercato azionario americano si è esposto ad elevati rischi di ribasso.  In pratica, quando si manifestano eventi improvvisi negativi non prevedibili dagli algoritmi, il mercato cade nel vuoto perché l’algoritmo è programmato per interrompere la sua attività nel momento in cui “non capisce” alcuni spostamenti di prezzo innescati da eventi esterni.

Si verificano così le cadute verticali del mercato, dove è praticamente impossibile vendere, e gli algoritmi, sorpresi da eventi non “programmati in anticipo”, si spengono e interrompono l’operatività abbandonando il mercato. La struttura attuale del mercato azionario americano sembra studiata per evitare impatti negativi provocati dalle “mini crisi”, ma non può impedire il deterioramento inesorabile e ormai costante dei fondamentali, che procureranno comunque la crisi del sistema. È ovvio che tutto quello che viene fatto attraverso questi meccanismi di manipolazione serve a fare in modo che gli asset investiti rimangano focalizzati di volta in volta sugli eventi di breve periodo, cercando di far perdere importanza alle dinamiche fondamentali.

I fallimenti bancari non sono un indicatore di un economia solida e prospera. È comunque evidente che questo sistema non convince quasi più nessuno, dato che in questi anni abbiamo assistito a vari tentativi di “fuga dal sistema” finiti anche male. Trilioni sui Private Markets, centinaia di miliardi sulle criptovalute, e recentemente fughe di capitali sull’Oro (con le Banche centrali di tutto il mondo in prima fila in questo flusso). I bond di breve termine ad alto rating creditizio attirano capitali a ritmi molto più elevati dei mercati azionari, dato che i flussi di acquisto sui Titoli di Stato continuano nonostante i tassi reali su tali investimenti siano sempre negativi. Anche questo flusso è una conferma di una minore propensione al rischio. Molti sentono puzza di bruciato se anche Warren Buffet aumenta il cash in portafoglio.

È ovvio che questi tentativi di manipolazione non potranno modificare comunque i fondamentali sottostanti, che continueranno a peggiorare inevitabilmente e metteranno il sistema finanziario americano in una posizione di insostenibilità sia fiscale che finanziaria (oggi il debito estero Usa è il 90% del Pil vs il 45% del 2008). Il cedimento dei consumi è già iniziato e, guarda caso, la lotta sul tetto del debito si concentra sui sussidi ai cittadini americani che non riescono ad arrivare a fine mese, sussidi pubblici che hanno finora sostenuto i pagamenti delle rate sul debito privato contratto in questi anni e hanno impedito l’impennata dei default sul credito durante e dopo il Covid.

Le banche hanno iniziato ad aumentare gli accantonamenti sui crediti, proprio in attesa di una netta riduzione di sussidi e una fine delle moratorie sui debiti (student loans in particolare), che stanno giungendo a scadenza proprio a giugno, guarda caso con il raggiungimento del tetto sul debito. L’accordo sul tetto del debito Usa avrà comunque un impatto restrittivo sulla politica fiscale, proprio mentre quella monetaria sarà ancora più restrittiva, a causa della contrazione del credito bancario dovuto alla crisi delle banche e mentre gli effetti del rialzo dei tassi iniziano solo ora a farsi sentire. Infatti un accordo è possibile solo se si riducono le spese e il deficit che, per erogare sussidi e aiuti di stato, è in una traiettoria insostenibile.

I problemi dell’economia Usa erano già molto evidenti a fine 2019 e l’evento Covid è stato un grande “colpo di fortuna” per mascherarli con il più grande intervento di salvataggio della storia, che ha permesso così di salvare i segmenti del credito più speculativo che erano già in crisi, ma che ha ulteriormente ingigantito la sua dimensione e il suo peso sull’economia. Dal 2021 a oggi abbiamo fatto solo un colossale rollover di un eccesso di debito privato speculativo non rimborsabile (Subprime, High Yield, Leverage Loans, Private Debt) e non sostenibile, dato che per sostenerlo il settore privato americano ha attinto a piene mani dai sussidi di stato.                       

A un certo punto, il sistema capitalistico americano ha chiesto l’intervento statale per mantenersi e riuscire a pagare il debito fatto per sostenere consumi e Pil. L’indice del mercato azionario è rimbalzato su tali interventi (insostenibili) ma rimane tuttora solo un fuorviante indicatore per far credere che sia tutto ok. Gli algoritmi non possono cambiare un sistema in crisi, possono solo aiutare, nel breve periodo, a manipolare un mercato che non è più sostenuto dai fondamentali. Cercare di sostenere a oltranza un mercato su livelli poco difendibili, mentre i fondamentali sono già in evidente cedimento da tempo, aumenta gli spazi di downside e peggiora la situazione, dato che la tenuta del mercato dipende sempre meno dagli investitori e sempre più dalla speculazione di breve termine.

Al momento nessuna economia (Cina, Usa, Europa) sembra nelle condizioni di poter contrastare il cedimento innescato dalla fine degli stimoli fiscali e monetari post Covid, gli unici fattori che hanno sostenuto il rimbalzo del ciclo negli ultimi 12/18 mesi. È evidente che gli algoritmi non possono cancellare la macroeconomia che, in modo sempre più pronunciato, fa emergere fondamentali in netto e progressivo peggioramento in tutte le principali economie (il consenso creato sul China reopening è un flop). Nel frattempo, le aspettative di una imminente inversione della traiettoria dei tassi d’interesse (Fed Pivot), si stanno decisamente ridimensionando, mentre i bond sono tornati ad essere il competitor degli investimenti in equity dopo 14 anni di Qe. Questo evento è strutturale e conferma la nostra view strategica: long bonds e short equity.

* Gestore del fondo Lemanik Global Strategy

Cresce la fiducia dei millennials nelle criptovalute, ma l’insidia è dietro l’angolo

Finanziariamente “ineducati”, i risparmiatori più giovani valutano con un certo interesse l’investimento in Bitcoin, anche come fondo pensione o come strumento che assicuri un rendimento reale positivo del capitale al netto dell’inflazione.

Tre mesi fa il prezzo del Bitcoin segnava il suo massimo storico di quasi 65.000 dollari; da allora, un crollo verticale fino agli attuali 31.700 dollari circa, con una perdita teorica del 51%. La correzione-monstre, peraltro, è arrivata in maniera del tutto inaspettata, poiché molti analisti prevedevano la continuazione di un ciclo rialzista da record.

Le criptovalute ci hanno abituato ad una certa volatilità, per cui chi ci ha messo dentro del denaro lo ha fatto in modo marginale. Però, negli ultimi 9 mesi il Bitcoin aveva ricevuto un importante endorsement da parte di fondi speculativi e personaggi di spicco del mondo industriale (Elon Musk, soprattutto), i quali hanno poi, altrettamento rapidamente, fatto marcia indietro quando qualcuno ha fatto notare come il c.d. mining andasse contro le problematiche di sostenibilità ambientale. La stessa Unione Europea – è notizia di pochi giorni – ha messo le mani avanti sulla criptovaluta continentale, rinviando di qualche anno il momento della sua entrata sul mercato.

Pertanto, varrebbe la pena chiedersi se, nel medio periodo, il Bitcoin e le altre maggiori criptovalute siano destinate a raggiungere nuovi massimi, e soprattutto se la contrazione in corso è solo una interruzione temporanea della traiettoria rialzista, oppure la tendenza generale sia quella ribassista nel lungo termine premonizzata da Warren Buffett. La risposta a questo secondo quesito, in particolare, è importante perché non mancano gli analisti che consigliano ai propri clienti millennials di accumulare investimenti alternativi, oro e Bitcoin, motivando la scelta con la sempre più stretta correlazione della criptovaluta con il mercato azionario tradizionale. Altri, invece, prevedono un enorme sell-off delle azioni che, nell’immediato, potrebbe spingere gli investitori ad affidarsi ai Bitcoin come bene rifugio.

Qualunque sia la risposta a queste domande, le criptovalute stanno ormai segnando un confine sensibile tra le abitudini di investimento dei babyboomers e quelle dei millennials. Secondo una recente ricerca di Coindance, infatti, il 48% circa di compra bitcoin ha un’età compresa tra 25 e 34 anni, e cioè i millennial più giovani; se a questi sommiamo la percentuale dei millennial un pò più maturi (35-44 anni), che sono il 28%, le criptovalute sono un appannaggio (76%) della generazione dei millennial, che sono caratterizzati dall’avere una visione omogenea dei propri bisogni finanziari in tutto il mondo. Per esempio, un australiano su cinque ritiene che le criptovalute siano una ottima soluzione per risparmiare finalizzando l’accantonamento all’acquisto della casa, sia per il track record del Bitcoin – che non autorizza a sognare – sia per una certa diffidenza sugli strumenti finanziari tradizionali, considerati non più adeguati e/o affidabili.

Da sempre poco inclini all’investimento immobiliare, per il 40% dei millennial le criptovalute rappresentano una valida alternativa agli immobili, che continuano ad essere amati solo dai babyboomers (i quali non amano affatto i bitcoin). Tutto ciò non è una sorpresa, poiché oggi le persone più giovani vogliono pagare in modalità digitale e mostrano grande interesse, fin dalla maggiore età, ai prodotti digitali e alla tecnologia blockchain, ovvero alla finanza decentralizzata, sebbene questo interesse cresca in funzione della ricchezza personale. Secondo un sondaggio della CNBC, infatti, quasi la metà dei milionari millenial ha almeno il 25% della propria ricchezza investita in criptovalute, ed è il loro elevato grado di percezione positiva verso bitcoin & co. a spingerli ad investire in uno strumento che li “collega” a livello generazionale con il mondo digitale in cui essi sono nati o cresciuti culturalmente. In più, le criptovalute consentono di investire, nelle piattaforme ufficiali e verificate, dover detenere un deposito titolo o persino un conto in banca.

Questo scenario è il naturale portato della scarsa educazione finanziaria dei più giovani, i quali hanno ereditato dai genitori il medesimo (basso) livello di conoscenza della finanza. Pertanto, anziché affidarsi ad un consulente finanziario, moltissimi millennial della fascia d’età più giovane preferiscono fare (e rischiare) da soli, nonostante l’investimento in criptovalute sia da considerare insidioso, volatile e stressante. Ciò che li spinge è la fiducia su queste tecnologie, che secondo loro hanno il potenziale per risolvere i problemi più grandi del futuro, come la pensione e la tutela della salute.

Come valutare una Startup? I principi del metodo adottato da Warren Buffet possono esserci d’aiuto

Qual è il valore di un’azienda, e come possiamo determinare il valore di una Startup dal punto di vista economico e finanziario? L'”oracolo di Omaha” utilizza il criterio del flusso di cassa netto atteso, vediamo in cosa consiste.

Di Alberto Villa*

Gli analisti finanziari hanno fatto uso di varie formule per calcolare il valore di una azienda nella scelta riguardante il suo inserimento all’interno di un portafoglio. Essendo diversi, ogni operatore finanziario è un fervente sostenitore di quello che reputa come il metodo più efficace, dal P/E basso al rendimento da dividendi elevato ed altri ancora.

Il sistema generalmente più utilizzato è quello del P/E (presso/utile) più basso possibile. Secondo Warren Buffet, però, il metodo migliore è stato ideato da John Burr Williams, nel libro The Theory of Investment Value. Il miglior investitore al mondo utilizza diversi criteri per selezionare ed acquistare quote di aziende che poi confluiranno nel suo fondo: 1) criteri di business, 2) criteri di management, 3) criteri finanziari e criteri di mercato. Riguardo a quest’ultimo, “l’oracolo di Omaha” sostiene che il valore di un’azienda si calcola a partire dal flusso di cassa netto atteso nel corso della vita dell’azienda, scontato di un adeguato tasso di interesse. Infatti, Buffett ricorda che “valutate in questo modo, tutte le aziende, dai costruttori di calessi ai gestori di telefonia, diventano economicamente confrontabili”.

In sostanza, si tratta di un metodo di pre-analisi molto valido, che consiste nell’utilizzare i flussi di cassa che verranno generati in un determinato periodo di tempo, per poi scontarli tutti ad un tasso stabilito per ricondurli al valore che l’azienda dovrebbe avere nel presente. Secondo questo criterio, se non si riesce a stabilire il flusso di cassa futuro con un elevato grado di precisione, allora è persino inutile cercare di valutare l’azienda studiando le qualità del team management, le caratteristiche dei prodotti e i mercati di rifermento.

Perché è così importante questo metodo per una pre-valutazione di una Startup? Perché nel caso di una startup non esistono bilanci storici a cui far riferimento, essendo una società appena nata; una delle variabili può essere il Business Plan, cioè il documento con cui gli investitori dovrebbero stimare la fattibilità del progetto imprenditoriale.

Per stabilire correttamente i flussi di cassa netti, Buffet sottolinea che un dato fondamentale è dato dal tasso di sconto da utilizzare – ossia l’altra variabile dell’equazione – ed è qui che la situazione si fa un po’ più complessa.  Infatti, per lui si dovrebbe applicare semplicemente quello dei buoni del Tesoro Usa a lungo termine, salvo poi aggiungere dei punti percentuali al tasso esente da rischi nei periodi in cui diventino troppo bassi, oppure applicando dei margini di sicurezza in casi particolari.

Nelle startup questo elemento va misurato attentamente, perché utilizzare un tasso di sconto poco adatto – come ad esempio i buoni ordinari trentennali, oppure un equity risk premium di società quotate – potrebbe essere forviante. Pertanto, solo utilizzando una variabile dell’equazione che riconosca la particolarità di queste società ci si può realmente permettere di fornire una pre-valutazione coerente. Determinare questo, inoltre, significa essere in grado di stimare in modo appropriato anche il rischio che sto affrontando, e se i possibili guadagni siano congrui.

Perché è così importante questo criterio rispetto ad altri? La risposta è data dai numeri. Se utilizzo solo un criterio come quello del P/E (prezzo/utile), difficilmente investirò mai in una Startup, preferendo magari un’azione quotata o altri strumenti. Questo è l’assunto principale: un patrimonio è composto da diversi strumenti finanziari, ma non è detto che debba necessariamente utilizzare il medesimo metodo di valutazione.

Impiegare i propri risparmi di lungo termine in beni reali non intacca i principi base di una buona pianificazione finanziaria. Infatti, diversificare un portafoglio con Startup e PMI innovative, da affiancare ai settori più “tradizionali”, ormai sembra essere una strada quasi obbligata per ottenere risultati gratificanti dai propri investimenti. Occorre comprendere, però,  che per fare ciò si deve necessariamente utilizzare un metodo poco usato dalla maggioranza dei consulenti finanziari e private banker, cui servirebbe una formazione specifica sull’argomento.

* Alberto Villa, Consulente in Finanza d’Impresa, membro A.I.A.F. e Consulente Finanziario Autonomo, collabora con la rete professionale M&V Private Corporate Advisor 

Dubbi sul Bitcoin. Antonio Mazzone: stop alle ipocrisie, la moneta virtuale non rispetta i criteri ESG

Se all’improvviso scomparissero tutte le cripto-valute, l’intera comunità mondiale ne ricaverebbe un vantaggio. I miners sottraggono allo sviluppo di intere comunità e nazioni ingenti risorse naturali e fonti energetiche indispensabili.

La storia recente di Bitcoin è nota. Con lo scoppio della pandemia, l’interesse verso le cripto-valute è cresciuto a dismisura, determinando anche un furioso aumento delle quotazioni. E così, Bitcoin ha superato la quota “psicologica” dei 50.000 dollari USA (portando il suo massimo fino a quasi 60.000) ed oggi, dopo una correzione ampiamente prevista, mentre scriviamo vale circa 42.400 euro (51.000 dollari circa), avendo raddoppiato il suo valore in meno di tre mesi e portando la sua capitalizzazione di mercato a quasi 900 miliardi di dollari (+400% in 12 mesi).

Per molti operatori, la sensazione è quella di trovarsi in un contesto simile a quello del 2017, quando ai record della moneta virtuale seguì un crollo verticale del 75%. Secondo le stime recentemente riportate dal Wall Street Journal, rispetto all’offerta di Bitcoin “di fresco conio” pari a 150.000 nell’ultimo quadrimestre del 2020, la domanda nello stesso periodo è stata di circa 360.000 unità, stabilendo uno squilibrio che, da solo, anticipava con chiarezza la rapidissima crescita di valore dei primi mesi del 2021.

C’è da dire che, oltre ai Bitcoin già in circolazione, ogni giorno una (modica) quantità di nuovi bitcoin viene immessa sul mercato grazie al protocollo denominato Blockchain, che permette di far funzionare un particolare processo di estrazione digitale (circa 900 nuove monete digitali al giorno).

Su questo fenomeno – a metà strada tra la finanza innovativa ed il marketing puro – molti esperti si sono pronunciati nell’ultimo periodo, determinando un dibattito piuttosto acceso tra i fedeli sostenitori dell’Economia Reale e quelli della finanza “a tutti i costi”. Warren Buffett, per esempio, già nel corso dell’assemblea annuale dei soci del 2018 di Berkshire Hathaway aveva affermato che il Bitcoin è “veleno per topi al quadrato”, mentre per il suo socio storico Charlie Munger si tratterebbe di “demenza finanziaria”. Buffett, che non è affatto avverso alla tecnologia (lo dimostra il suo corposo investimento in azioni Apple) motiva il suo giudizio spietato sulla base del fatto che il Bitcoin è “un asset che di per sé non sta creando nulla. Quando si comprano asset non produttivi, tutto quello su cui si conta è che ci sia qualcuno che paghi di più perché è ancora più entusiasta di chi lo ha acquistato prima di lui”. Micheal Burry, analista finanziario famoso per essere stato interpretato al cinema nel cult-movie “The Big Short” (La Grande Scommessa) dall’attore Christian Bale, da mesi sta mettendo tutti in guardia dal rischio di una enorme bolla speculativa legata alle cripto-valute.

Sembra essere stato toccato, quindi, un punto altamente critico, nel quale, da una lato, il Bitcoin riceve attestati di stima dalle grandi banche internazionali, da investitori c.d. “visionari” (Elon Musk, per esempio, ci ha investito parecchio) da colossi dei pagamenti digitali e dagli hedge fund e, dall’altro, sussiste il rischio di una rigida regolamentazione che è già stata sollecitata dal segretario al Tesoro USA, Janet Yellen, e dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Inoltre, grava l’accusa secondo la quale le attività di mining non siano ecosostenibili, perché determinano un enorme consumo di energia elettrica e una elevatissima produzione di CO2 all’interno di un contesto dominato dai criteri ESG.

Non mancano anche in Italia le voci fuori dal coro di chi osanna l’investimento in Bitcoin. Secondo Antonio Mazzone, fondatore di Bancadvice.it, “è venuto il momento di chiudere tutte le posizioni attive su azioni Tesla e wallet in cripto-valute. Recentemente ho avuto un flashback: mi è sembrato di rivivere il periodo 1999-2000, dove all’euforia successe presto lo “sboom” delle dot.com”. Secondo Mazzone, oggi è bene porsi tre domande sul Bitcoin, e darsi immediatamente delle risposte prima di soccombere:

1) “relativamente a Tesla, una azienda automobilistica che commercializza solo mezzo milione di vetture, e fa utili solo da attività di trading in bitcoin, può capitalizzare quanto l’intero settore auto mondiale ed avere un P/E (indice price/earnings) superiore a 1.000? Per me NO”.

2) “L’intera popolazione dei miners produce in un mese un quantitativo di CO2 pari a quello prodotto in un intero anno da un paese come la Giordania, e consuma energia elettrica in un mese quanto l’Argentina in un anno. E’ un sistema sostenibile? Per me NO”.

3) “Se all’improvviso scomparissero tutte le cripto-valute, l’intera comunità mondiale se ne accorgerebbe e ne avrebbe un danno significativo? Per me, assolutamente NO. Anzi, ne ricaverebbe un vantaggio. Infatti, il numero dei miners negli ultimi 18 mesi è cresciuto di nk-volte rispetto al periodo precedente, seguendo una progressione simile a quella logaritmica. Sono state così sottratte allo sviluppo di intere comunità e nazioni ingenti risorse naturali e fonti energetiche indispensabili, senza avere in cambio alcuna partecipazione su larga scala ai profitti di queste nuove “miniere”.

Antonio Mazzone

“Solo a febbraio e solo in Iran – prosegue Mazzone – sono stati disconnessi dalla rete elettrica locale oltre 1.600 nuovi miners dopo aver procurato diversi blackout”. “Diventa evidente – conclude Mazzone – il contrasto paradossale, al limite dell’ipocrisia, tra la diffusione di investimenti con criteri ESG, l’attenzione sulla riduzione dei gas serra e sul disastro climatico e la corsa a proteggerci da eventuali nuove pandemie con le sollecitazioni di big Financial corporation (JPM, Citi, Bayerische L., per citarne alcune) e blasonati miliardari che consigliano investimenti sulle cripto-valute, la cui attività estrattiva è tra le più energivore ed inquinanti del pianeta”.

Addio all’età del risparmio a basso rischio: la funzione-Tempo alla guida della nuova era geologica dell’Investitore

Il crollo dello Stato Sociale e la prolungata fase di tassi negativi attribuiscono al  fattore tempo un ruolo fondamentale nelle decisioni di investimento e di accantonamento previdenziale, soprattutto  per i millennials.

Articolo di Ilaria Porro

Il crollo del Welfare State italiano ha dettato, negli ultimi cinque anni, un profondo cambiamento socio-economico i cui risvolti sembrano non essere ancora chiari alla quasi totalità degli ex risparmiatori del nostro Paese.

Perché “ex”?

E’ presto detto. Il c.d. “stato sociale”, e cioè l’insieme delle prestazioni che lo Stato garantisce nei settori della Scuola, della Sanità, dei Servizi Pubblici, dell’Assistenza Sociale (ed altro ancora), che per decenni ha tenuto gli italiani sotto una campana di vetro in materia di cura delle malattie, istruzione e pensione, ha trasmesso alcune abitudini finanziarie che oggi sono difficili da interrompere, soprattutto per le fasce di popolazione “over 60”. Infatti, nessuno si era preoccupato, in tutti quegli anni, di pianificare i propri obiettivi nel tempo, perché sulle tipiche emergenze della vita interveniva sempre il nostro generoso Welfare.

I consulenti (allora promotori finanziari) che parlavano di pianificazione e di investimento “a rate” per gli studi dei figli o per una pensione integrativa sembravano parlare una lingua straniera; chi proponeva polizze sanitarie per i grandi interventi chirurgici, poi, era visto come una specie di extraterrestre.

La conseguenza più grave di questo scenario è stata quella di non far capire a coloro che detenevano risparmio il valore della “funzione-Tempo”, ed in particolar modo dell’investimento di lungo periodo, perché semplicemente non ne avevano bisogno, pieni com’erano di BOT e BTP brevi con cedole al 15%.

Tutti costoro erano, appunto, quelli che una volta si chiamavano risparmiatori. E oggi, con i tassi a breve stabilmente negativi (e quelli a lungo al 2% scarso),  com’è cambiata la loro mentalità? La risposta è che non è affatto cambiata: essi sono sempre alla ricerca, come se nulla fosse successo, di un buon rendimento senza rischio né volatilità. Eppure, già da anni il Welfare State è stato drasticamente ridimensionato, e a molte delle spese per sanità, pensione e scuola dei figli ci devono pensare i millennials e (soprattutto) i patrimonials con i loro soldi faticosamente accantonati. Pertanto, anche il c.d. risparmiatore non esiste più, e chi detiene patrimoni liquidi (e non solo), anche di modesta entità, deve oggi cominciare a ragionare come un investitore dotato di grandi mezzi finanziari, dando spazio ai progetti di lungo periodo e cercando di acquisire competenze che prima erano destinate solo ai ricchi.

Il web, per fortuna, consente di ricevere già oggi un buon livello di consulenza di base, ma molto dovrà succedere nei prossimi anni. In questo nuovo scenario, l’importanza del fattore tempo diventa una componente fondamentale nelle decisioni di investimento e di accantonamento previdenziale, sia per i più giovani millennials (che di tempo a disposizione ne hanno un po’ di più), sia per i c.d. patrimonials (indicativamente i genitori dei millennials) cinquantenni, ed in particolar modo per quanti tra loro esercitano lavoro autonomo e dovranno affidarsi ad una cassa di previdenza per costruire l’ossatura principale della pensione.

Warren Buffet, il guru di Omaha e il più grande value investor di sempre, ha affermato in diverse occasioni che se la Borsa chiudesse per 10 anni per lui sarebbe indifferente: ”se non sei pronto a tenere un’azione per 10 anni, non tenerla nemmeno per 10 minuti”.

La prerogativa dei nuovi investitori  dovrebbe essere quella di proiettare i propri investimenti nel lungo periodo, allungando il più possibile l’orizzonte temporale, che quasi mai dovrebbe essere inferiore ai 10-15 anni. In particolare, nel 2019 il profilo finanziario di un giovane dovrebbe prevedere:

Obiettivi finanziari e previdenziali di lungo raggio → lungimirante

Propensione al risparmio → previdente

Conoscenza e accettazione del rischio → razionale

ESSERE LUNGIMIRANTI – In un investimento il tempo è l’elemento fondamentale, e potendo contare sul giusto tempo a disposizione è possibile ottenere risultati eccezionali dai propri risparmi. La regola generale, infatti, è che la pianificazione di lungo periodo consente di mettere in portafoglio strumenti migliori con lo stesso profilo di rischio. Ovvero, quanto più a lungo resta investito il capitale, tanto maggiore è il rischio che si può sostenere. Il lungo periodo, inoltre, mette al riparo dall’ansia delle decisioni prese all’improvviso e dalle mode del momento. Investire nel lungo termine consente infine di mettersi al sicuro dalle oscillazioni di breve termine, e poter investire persino sulle aziende attive nel settore Green e nei prodotti c.d. SRI (Social Responsible Investment).

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ESSERE PREVIDENTI – La generazione di coloro che ad oggi hanno una età compresa tra i 18 e i 35 anni è composta da persone con condizioni lavorative spesso precarie, oppure da chi ha già avviato una carriera lavorativa e si trova a sostenere spese sempre più elevate. Tutti costoro, viste le circostanze e la bassa capacità di risparmio, tendono a non investire e a lasciare parcheggiati i soldi sui conti correnti o nei così detti conti deposito, esponendo così il denaro alla ineluttabile erosione dell’inflazione. Infatti, negli ultimi anni il tasso di inflazione è stato mediamente pari al 2 % annuo, e ipotizzando che rimanga tale nei prossimi dieci anni 100.000 euro del 2019 varranno circa 80.000; praticamente una perdita del 20% dovuta alla decisione di non investire.

Inoltre, la maggior parte dei giovani adulti riconosce il problema legato alle future pensioni, ma solo in pochi affrontano la situazione aderendo a forme di previdenza complementare, al fine di costruire un assegno integrativo che possa affiancarsi a quello della pensione principale e mantenere un livello di vita soddisfacente quando servirà.  Peraltro, lo Stato riconosce ai sottoscrittori di questi contratti importanti forme di agevolazioni fiscali: i versamenti volontari sono deducibili fino al limite di 5.164,67 euro all’anno; ai rendimenti ottenuti viene applicata un’aliquota ridotta pari al 20% (anziché al 26%) e la pensione integrativa ottenuta viene tassata con un’aliquota agevolata massima del 15% (con una riduzione dopo il quindicesimo anno di adesione dello 0,3 % fino a raggiungere un minimo del 9%).

ESSERE RAZIONALI – Gli ex risparmiatori italiani hanno paura del comparto azionario, perché lo associano a concetti estremi di rischio, speculazione, perdita, scommessa, convincendosi che tutto questo è lontano dalle proprie attitudini e che non potrebbe che portare con sé una qualche fregatura dalla quale tenersi serenamente alla larga. Invece, il mondo azionario potrebbe rivelarsi il migliore alleato in tema di investimenti, se ben conosciuto ed utilizzato. E non si tratta di market timing (abilità nel cogliere il momento preciso in cui entrare e uscire dal mercato), ma di semplice informazione storica: sfruttando il nostro amico tempo, il mercato azionario si è dimostrato negli anni il più profittevole e sicuro.

Volete una dimostrazione? Eccola. Gli esperti di Goldman Sachs, prendendo ad esempio i risultati storici dell’indice azionario MSCI World, hanno concluso che rimanere investiti nell’intero periodo Gennaio 1999-Marzo 2019 (cioè tutti i 5281 giorni) ha permesso di realizzare più del doppio dei guadagni di chi si è lasciato sfuggire i migliori 10 giorni di mercato.

Pertanto, rimanere investiti, piuttosto che provare a scegliere il momento giusto, è un elemento fondamentale per il successo degli investimenti nel lungo termine.

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Buona lettura !

 

Warren Buffet e Ray Kroc (McDonald’s), ovvero come creare ricchezza grazie agli immobili e all’economia reale

Due leggendarie storie di successo imprenditoriale, molto diverse tra loro, ma unite dal comune denominatore dei beni reali durevoli.

Il nome di Warren Buffet è quello probabilmente più pronunciato tra i professionisti della finanza e dai cultori del sogno americano. Un uomo di grande intelligenza, arrivato dal nulla, che passo dopo passo costruisce una delle aziende più ricche al mondo. Leggendaria, anche tra gli studenti di Economia, la sua capacità di creare ricchezza usando il buon senso e la pazienza.

Il suo approccio agli investimenti è sempre stato molto semplice, e consiste in quattro fasi:

– scelta di un settore di attività in cui si vuole investire;

– individuazione di una o più aziende interessanti operanti in quel settore;

– esame dei loro bilanci;

– investire “pesantemente” e per lungo tempo, tra quelle prese in esame, nelle aziende sottovalutate, in cui il rapporto tra il valore di libro (che si ottiene sommando il capitale sociale, gli aumenti di capitale intervenuti negli anni e gli utili accantonati) e tutte le azioni in circolazione è superiore o uguale al valore di borsa di una singola azione.

In sintesi, Buffett e il suo socio di sempre – sapevate che avesse un socio? Charlie Munger, il suo primo finanziatore – hanno sempre pensato che la finalità dell’acquisto di azioni sia quello di partecipare concretamente ad un business di lungo termine, e non quello di fare una speculazione di breve periodo sulla base di grafici a candela e su obiettivi di prezzo assolutamente opinabili e differenti da un analista finanziario all’altro.

Seguendo questa metodologia è nata e si è sviluppata Berkshire Hathaway, la “grande creatura” di Warren Buffet, sulla quale egli ha lavorato fin dagli anni ’70. Oggi il suo fatturato complessivo si aggira intorno ai 150 miliardi di dollari USA, e il valore di mercato è pari a circa 400 miliardi di dollari.

Warren Buffett comprò le prime azioni della Berkshire (che era un’azienda tessile) nel 1962, quando crollarono fino a 8 dollari per azione. Siccome il valore dei mezzi propri era di 16,50 dollari ad azione, cominciò ad accumularne in grande quantità fino al 1965, quando raggiunse la maggioranza azionaria e ne assunse il controllo, trasformandola in una holding di partecipazioni. Il prezzo medio di acquisto, per Buffet, fu di 15 dollari ad azione; oggi ognuna di esse vale 294.000 dollari.

Negli ultimi 40 anni, i suoi azionisti hanno ottenuto una crescita del 20% annuo, anche nelle fasi di mercato molto difficili; per esempio, tra il 2000 e il 2010 il rendimento delle azioni è stato pari al 76%, contro il -11% dello S&P500 (l’indice delle prime 500 aziende USA per capitalizzazione).

la mossa vincente di Buffett fu quella di reinvestire gli utili, anziché direttamente nella produzione industriale, in partecipazioni azionarie di altre aziende sottovalutate il cui patrimonio era solido, composto da immobili, impianti industriali e macchinari; aziende, insomma, fortemente legate alla c.d. Economia Reale, e quindi capaci di durare nel tempo. Infatti, in 53 anni, le azioni Berkshire sono cresciute del 2.404.748% (20,9% l’anno), contro un andamento dell’indice S&P500 del 9,9% all’anno.

Solo negli ultimi dieci anni, a seguito della crisi del 2008, Berkshire ha cominciato ad investire sui gruppi finanziari americani, ma la cosa non deve sorprendere: coerentemente con il suo metodo, Buffett ha scelto le banche più sottovalutate e con dentro il più alto patrimonio proprio (immobili, uffici etc), quadruplicando il proprio investimento in pochi anni.

Dal suo portafoglio complessivo di partecipazioni, Berkshire ha ricevuto, solo nel 2018, circa 4 miliardi di dividendi, ma non è questo il suo reale guadagno. Buffett infatti realizza grandi ritorni prospettici soprattutto dagli utili non distribuiti, che nel lungo termine costruiscono valore nelle società e si riflettono sul prezzo delle singole azioni. Gli utili non distribuiti, infatti, consentono di acquistare immobilizzazioni techiche (macchinari o software) e immobili industriali (uffici nelle city), e attribuiscono valore reale all’investimento, e non semplice plusvalore finanziario, che per sua natura è destinato a sgonfiarsi nel tempo.

Questa costruzione del valore, basata sul patrimonio reale delle aziende, è impossibile da praticare nel breve periodo, dove i prezzi delle azioni sono guidati nel dagli umori di mercato e non dal business reale della compagnia.

La storia di Ray Crok eleva il mito del sogno americano a livelli altissimi, perché nel caso del fondatore di McDonald’s esso si è avverato quando lui aveva già 52 anni, e da rivenditore di frullatori ebbe l’idea di sfruttare su vasta scala l’invenzione dei fratelli Mc Donald (che finirono per essere esclusi dal business e persino dall’uso commerciale del loro stesso cognome).

Sappiamo che Buffet non ha mai amato investire nelle aziende commercialmente e geograficamente massificate, giacchè teme i devastanti effetti negativi derivanti dalla erosione della tipica posizione di monopolio in cui esse operano. Pertanto, come si spiega che egli abbia investito – e continua a farlo ancora adesso, anche se in misura minore – nelle azioni di McDonald’s?

Semplice: il vero business della famosa catena di fast food non sono gli hamburger, ma gli immobili. La formula di successo di Mc Donald’s, infatti, è unica nel settore dei fast food: comprare tutti i negozi, affittarli ai gestori in franchising, patrimonializzare il gruppo con valori reali stabili e creare cash con la vendita di hamburger e patatine fritte per consentire buoni guadagni ai franchesee e incassare i canoni di locazione senza problemi. A tal proposito, l’ex direttore finanziario Harry Sonneborn ha detto: “Non siamo nel settore alimentare, ma nel settore immobiliare. L’unica ragione per la quale vendiamo hamburger da 15 centesimi è perché sono i migliori prodotti per realizzare alti margini di incasso, con cui i nostri locatari possono poi pagare l’affitto”.

In sintesi, rispetto alle altre catene di franchising, McDonald’s ha sempre avuto una diversa strategia: invece di fare business vendendo scorte di hamburger e altro materiale di consumo ai locatari o chiedendo loro le royalties, l’azienda di Crok diventa proprietaria dei punti vendita e li affitta ai gestori, i quali hanno il vantaggio di condurre un business con un alto margine di utile grazie ad un marchio che, da solo, vale circa 60 miliardi di USD. In questo modo, McDonald’s riesce a trattenere l’82% dei ricavi generati dai canoni di locazione, mentre si accontenta di un più modesto 16% di ricavi prodotti dall’attività dei punti vendita, a cui destina la fetta maggiore delle vendite.

A ben vedere, quindi, si tratta di un circolo virtuoso che solo in apparenza poggia i piedi sul franchising, per il quale la selezione dei candidati è durissima. L’investimento complessivo necessario all’apertura di un ristorante è di circa 800.000 euro, dei quali 200.000 devono essere di proprietà del candidato e la restante parte può essere ottenuta mediante un finanziamento. L’affiliato, in cambio, dovrà corrispondere a McDonald’s l’affitto del locale, una royalty in percentuale sui profitti e un contributo al finanziamento della pubblicità nazionale.

Grazie a questa formula, l’azienda di Crok ha raggiunto dimensioni impressionanti:

  • 69 milioni: clienti serviti ogni giorno
  • 37.000: ristoranti presenti in tutto il mondo, di cui l’85% in franchising
  • 4,7 miliardi: utile netto.

Concludendo, l’attenzione al valore reale dei beni è ciò che accomuna Warren Buffet a Raymond Kroc (il primo ancora in vita, il secondo morto nel 1984). Buffet, attraverso le sue partecipazioni azionarie, ha basato il proprio successo investendo in aziende con un business solido ed un patrimonio proprio (immobili e macchinari industriali) di notevole entità, che si riflette sempre nel valore intrinseco di ogni singola azione. Crok, invece, ha “mascherato” la più grande società immobiliare del mondo con la catena di fast food più grande del mondo, investendo direttamente negli immobili e ottenendo così un “effetto leva immobiliare” che consente oggi all’azienda di avere una fonte di ricavi e utili molto stabile, nonchè un accesso pressoché illimitato alle fonti di finanziamento, soprattutto nei momenti di rallentamento dell’economia.

Niente “finanza creativa”, insomma, ma solo roba che vedi e che tocchi con le tue stesse mani: case, aerei, soldi, panini e milk-shake.

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