Ottobre 12, 2025
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Famiglie, credito e risparmio: mai vista una congiuntura così difficile. Di chi è la colpa?

Poderosa stretta al credito, mercato immobiliare inaccessibile e propensione all’investimento in picchiata. E’ una congiuntura economica figlia di circostanze eccezionali e dell’improvvisazione di chi avrebbe  dovuto gestirle diversamente.  

Di Alessio Cardinale

Proveniente da una overdose di liquidità durata più di dieci anni, l’economia mondiale “tossica” è in gravissima crisi di astinenza monetaria, con una guerra geo-mondiale che sullo sfondo arricchisce l’industria delle armi e non accenna a finire, almeno finchè le giacenze di magazzino delle armerie USA e del vassallo Europeo non cominceranno ad alleggerirsi e i danni da ambo le parti saranno considerati non più sostenibili per le proprie economie.

La stretta al credito, che è già cominciata nel 2008 ed ha rivoluzionato un sistema che proveniva da decenni di decentramento decisionale e tassi medi di sofferenza anche del 7-8%, è aumentata senza sosta, anno dopo anno, esautorando dall’autonomia decisionale le filiali bancarie e micro-aree commerciali, e accentrando rigidamente le delibere. Oggi la stretta è diventata poderosa sia per le imprese che per i privati; per questi ultimi, la stretta sui mutui è sotto gli occhi di tutti: coloro che l’anno scorso avrebbero ottenuto un mutuo casa senza problemi, oggi devono superare mille accertamenti, tassi e spese più elevate, e spesso devono abbandonare l’iniziativa, ripiegando sull’affitto che, dal canto suo, mostra tutti i limiti di una cronica carenza di offerta. Infatti, le statistiche sul “rischio inquilino” – il rischio che l’inquilino non paghi o non possa pagare più il canone – e sugli sfratti sono impietose (il 50% degli inquilini con affitto lungo ha difficoltà a pagare), e questo ha convinto i migliaia di proprietari che non hanno deciso di tenere le case sfitte a preferire gli affitti brevi o, addirittura, a trasformare l’immobile in struttura ricettiva (B&B).

L’inasprimento del credito riguarda in misura minore il credito al consumo e i prestiti alle famiglie, dove la forbice dei tassi è molto più ampia, i ricavi molto elevati e le sofferenze meno frequenti. Il rialzo di 25 punti del tasso Bce, per quanto scontato, non ha aiutato, e la previsione di un ulteriore rialzo a Giugno non infonde serenità, anche perché il tasso di inflazione di Aprile è aumentato. Nel corso degli ultimi 15 mesi, la rata media di un mutuo a tasso variabile è aumentata del  52% rispetto all’inizio dello scorso anno, e di fronte la prospettiva di futuri rialzi in tanti stanno preferendo irrazionalmente il tasso fisso: chi si avvicina adesso a richiedere un mutuo, invece, dovrebbe valutare con attenzione il tasso variabile, destinato negli anni a venire ad una riduzione della rata mensile grazie alla discesa di inflazione prima e tassi poi.

In molte città italiane, chi vuole acquistare casa deve fare i conti con la costante diminuzione del potere d’acquisto che l’entrata nella moneta unica ci ha regalato. Il culmine di questo effetto è registrabile a Milano, dove dal 2015 al 2021 i prezzi di vendita e affitto sono saliti tra il 25 e il 30%, mentre i salari sono cresciuti solo del 7%. Ma anche nelle altre maggiori città l’effetto, sebbene inferiore, è simile, con l’eccezione di alcuni centri (Genova, Palermo) dove la svalutazione delle quotazioni immobiliari rende l’acquisto e la rata del mutuo più sostenibile (delibere bancarie permettendo).

Sul fronte dei risparmi, la pandemia e la guerra, in compagnia dell’aumento dei tassi di interesse, hanno reso i mercati azionario e obbligazionario più “schizofrenici”, aumentando l’incertezza e la voglia di lasciare il denaro in conto corrente. Eppure, l’inflazione erode le giacenze liquide dell’8,3% annuo in questa epoca di alta inflazione, e nonostante ciò i dati di Banca d’Italia di Febbraio registrano 1.384 miliardi di euro di liquidità “inerme” che, dopo anni di tassi negativi e un costo implicito dello 0,40%, viene remunerata mediamente all’1%, sebbene poi impiegata al 4%, con una forbice del +3% che dà nuovo ossigeno al conto economico delle banche. Queste ultime, peraltro, sono tornate a promuovere forme di “parcheggio” della liquidità più remunerative per i risparmiatori, grazie ai rendimenti dal 3 al 5% delle obbligazioni e dei fondi monetari/obbligazionari, oppure grazie ai classici depositi vincolati (a 3, 6 o più frequentemente a 12 mesi), che rendono per un anno il 3% lordo, ma chi spinge a bloccare la liquidità a tre anni ricava fino al 4%, e anche il 4,5% a cinque anni; se nel frattempo i tassi dovessero scendere, però, il loro prezzo non salirebbe come nei BTP, che non sono vincolati e scontano una ritenuta fiscale agevolata.

Queste redivive opportunità, anziché creare concorrenza interna agli strumenti di investimento di lungo periodo (azioni e fondi/ETF azionari), hanno determinato nel primo trimestre 2023 una raccolta di OICR negativa di 9 miliardi, ma il comparto azionario ha segnato flussi per 5,4 miliardi. Pertanto, ai fondi obbligazionari sono stati preferiti i Btp, che rendono il 4,2% con i decennali e pagano una imposta sul capital gain del 12,5% anziché del 26% di fondi comuni, azioni, bond e conti di deposito. Inoltre, la possibilità di acquistare oggi un BTP decennale a 85-86 rende l’investimento prospetticamente molto conveniente per  via della possibile plusvalenza in conto capitale da realizzare realisticamente nell’arco di un triennio, allorquando gli effetti della minore inflazione e di un ribasso dei tassi di interesse avrà riportato la quotazione del BTP scadenza 2023 ad una quotazione di 100 e oltre, in costanza di cedola di interessi. Tutto questo, naturalmente, salvo improvvise “imboscate” delle agenzie di rating, diventate severissimi censori del debito pubblico mondiale – e di quello italiano in particolare – dopo essere state complici del crollo dell’economia mondiale nel 2008, e salvo che il quantitative tightening totale che inizia a luglio – meno 25 miliardi al mese di titoli pubblici detenuti dalla BCE – non mantenga  i prezzi dei BTP, per un tempo maggiore di un triennio, alle attuali quotazioni sensibilmente sotto la pari.

In definitiva, si tratta di una congiuntura economica figlia di circostanze eccezionali che, in assenza di inflazione, sono diventate per lungo tempo “ordinarie”, e figlia anche dell’improvvisazione della BCE che, di fronte ai prezzi al consumo in ascesa, avrebbe dovuto gestirle in altro modo, anticipando di almeno sei mesi il ciclo di rialzi dei tassi di interesse senza seguire, da autentico principiante, l’iniziale ritardo della FED. Infatti, le caratteristiche dell’indice dei prezzi al consumo (compresi petrolio, energia e alimentari) statunitense sono sensibilmente diverse da quelle europee, che rispetto agli USA scontano una cronica carenza di fonti energetiche tradizionali (petrolio e gas) e, quindi, costringono la BCE ad essere maggiormente attendista. La banca centrale americana, invece, da sempre manovra con maggiore virulenza i tassi – che oggi sono al 5.25%, contro il 3.75% di quelli europei – e così facendo ha recuperato il ritardo causato da un iniziale tentennamento e sta raggiungendo i risultati programmati.

Queste due differenze, a tutti ben note, sarebbero state sufficienti al board BCE per agire con un migliore tempismo, ed evitare all’Europa – e all’Italia – di girare a vuoto come una ruota sul carrello sollevatore di una officina meccanica. Dal momento che la modestissima Lagarde resterà in carica per altri quattro anni, non c’è da stare tranquilli.

Schmidt, ETHENEA: Bce troppo ottimista sull’inflazione

Nel 2024 si prevede un’inflazione al 4%, contro la previsione Bce del 2,9%. Attesa per un nuovo aumento dei tassi di 50 punti base, ma non sarà l’ultimo.
 
“Probabilmente la Bce effettuerà un nuovo rialzo dei tassi di interesse di 50 punti base. Prevediamo però che serviranno altri interventi, perché le previsioni sull’inflazione a nostro parere sono sottodimensionate: per il 2024 ci aspettiamo un valore del 4% o superiore”. È la view di Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di ETHENEA Independent Investors.
 
Quale sarà la scelta, imminente, della Bce sui tassi di interesse appare questa volta meno chiaro rispetto alle precedenti riunioni. La banca centrale vuole ancorare le proprie decisioni sui tassi ai dati sull’inflazione e ai dati economici più recenti. L’ultima decisione, a marzo 2023, era arrivata solo pochi giorni dopo il fallimento della Silicon Valley Bank, mentre il Credit Suisse vacillava e sarebbe stato venduto a Ubs solo pochi giorni dopo. Oggi possiamo dire che l’impatto sull’economia dell’Eurozona è stato trascurabile. Il settore dei servizi è in fermento, come hanno confermato gli indicatori sul sentiment pubblicati di recente (Purchasing Managers’ Index – PMI). Nel comparto industriale la situazione è più diversificata, ma anche in questo caso gli ordini sono in ripresa. La situazione economica è in fin dei conti solida e non c’è motivo per la Bce di essere cauta. Mentre l’inflazione è ancora troppo alta, anche se in leggero calo.
 
Con la precedente decisione sui tassi di interesse, la Bce ha anche pubblicato le sue previsioni sull’inflazione, riviste al ribasso rispetto a dicembre: un tasso medio d’inflazione del 5,3% nel 2023 e del 2,9% nel 2024. Nel breve termine, contribuiranno a questo risultato il calo dei prezzi dell’energia e la normalizzazione delle catene di approvvigionamento. Un dato chiave in questo senso è stato il crollo dei prezzi regolamentati dell’elettricità in Italia, con un impressionante -55% in aprile. Ma ciò dimostra anche che il tasso d’inflazione generale impedisce di vedere con chiarezza la tendenza di fondo.
 
L’inflazione di fondo, escludendo le componenti volatili dell’energia e dei beni alimentari, continua a salire e si avvicina al 6%. Il che dovrebbe rappresentare un chiaro segnale per la Bce che la lotta all’inflazione è tutt’altro che vinta. “A nostro parere, un ulteriore aumento dei tassi di interesse di 50 punti base sarebbe il modo migliore per portare il tasso di deposito dall’attuale 3% al 3,5% e poi almeno al 4% entro la pausa estiva”, sostiene Schmidt. “Alla fine, l’inflazione di fondo e l’inflazione complessiva convergeranno entro il 2024, ma ci aspettiamo che il valore sarà attorno al 4%, se non superiore, quindi ben al di sopra delle previsioni della Bce, che sarà quindi chiamata a prendere ancora decisioni scomode sui tassi“.

Andrea Siviero: rischio recessione se Fed e Bce rialzano ancora i tassi

La Fed appare meglio posizionata di altre banche centrali per orchestrare un soft landing. La determinazione della Bce nel perseguire il proprio corso restrittivo alla prova del rallentamento economico e delle tensioni politiche.

“I dati più recenti indicano un discreto andamento della congiuntura negli Stati Uniti e nell’Eurozona nel primo trimestre dell’anno. Abbinati alla ripresa in Cina, hanno fatto salire il rischio che l’inflazione rimanga elevata e che le banche centrali alzino quindi i tassi di riferimento in misura superiore al previsto. Le autorità monetarie si trovano di fronte a una sfida: devono inasprire ulteriormente la propria politica per contenere l’inflazione, ma altri rialzi dei tassi e l’effetto ritardato della rapida stretta monetaria effettuata lo scorso anno, combinati con la recente instabilità nel settore finanziario, potrebbero far scivolare le economie in una recessione”. È l’analisi di Andrea Siviero, Investment Strategist di Ethenea Independent Investors.

Nella seconda metà del 2022 l’economia Usa ha continuato a esibire vigore e i recenti dati indicano un solido andamento congiunturale all’inizio del 2023. L’effetto ritardato dell’inasprimento monetario e di ulteriori giri di vite da parte della Fed potrebbero tuttavia causare il rallentamento della crescita. I settori sensibili ai tassi (immobili residenziali) hanno evidenziato una contrazione per diversi mesi. La produzione industriale, gli investimenti aziendali e gli indicatori regionali del settore manifatturiero tendono al ribasso e fanno temere che la congiuntura statunitense potrebbe presto subire un raffreddamento. Al momento, il mercato del lavoro ha raggiunto la piena occupazione, ma la domanda di manodopera va indebolendosi in molti settori, al pari degli aumenti salariali. I redditi, i consumi privati e il commercio al dettaglio si sono ripresi dopo la debolezza di fine 2022, ma prima o poi le pressioni dovute al calo dei redditi reali saranno avvertite dai consumatori.

Dopo il ciclo di inasprimento più aggressivo degli ultimi 40 anni, la Fed ha in parte raggiunto il proprio obiettivo di riduzione della domanda, ma non ha ancora terminato il suo compito e i rischi di recessione sono decisamente aumentati. Per evitare un grave crollo congiunturale, la Fed ha gradualmente ridotto il ritmo dei rialzi, ma continuerà probabilmente ad aumentare il costo del denaro fino all’estate in attesa di osservare le ripercussioni complessive della sua politica. Un soft landing resta possibile ma sarà difficile orchestrarlo, e la strada in tale direzione è irta di ostacoli. L’inflazione nel terziario resta elevata e la Fed necessita di maggiori prove di disinflazione prima di interrompere i rialzi dei tassi. La recente crisi bancaria causerà inevitabilmente un inasprimento degli standard di credito che, combinati ad una ulteriore stretta della politica monetaria potrebbe spingere l’economia statunitense nella recessione. “La banca centrale statunitense ha guidato l’economia Usa verso la disinflazione, guadagnando tempo e ampi margini di manovra per la sua politica. La situazione rimane complessa e incerta ma appare meglio posizionata di altre banche centrali per orchestrare un soft landing”, chiosa Siviero.

Per quanto riguarda l’Eurozona, nel 2022 la sua economia si è mostrata sorprendentemente robusta. Malgrado l’inflazione storicamente elevata, la guerra in Ucraina, la crisi energetica e il rallentamento congiunturale in Cina, l’area Euro è riuscita a evitare la recessione. La solidità del mercato del lavoro, unita al forte sostegno fiscale e all’atteggiamento cauto della Bce in termini di normalizzazione della politica monetaria, è stata decisiva per evitare un crollo della congiuntura, ma ha contribuito al forte aumento dei prezzi nell’intera regione. Il clima di fiducia, che nell’ultimo anno aveva raggiunto i minimi, è decisamente migliorato.

I prezzi del gas sono notevolmente scesi, l’approvvigionamento energetico è stato diversificato e i timori di una grave crisi energetica sono spariti. La produzione industriale è debole ma va stabilizzandosi grazie alla riduzione dei problemi lungo le catene di fornitura e alla rimozione delle restrizioni dovute al Covid in Cina. Il mercato del lavoro è robusto e dai sondaggi sulla futura attività economica emergono chiare indicazioni di una crescita economica. “Nonostante la maggiore fiducia nell’economia, le prospettive a medio termine restano impegnative. L’Eurozona deve fare i conti con un rallentamento congiunturale e grandi incertezze, e non si può ancora escludere una lieve recessione nel 2023”, continua Siviero.

“Le pressioni sui prezzi” – conclude Siviero – “stanno complessivamente diminuendo, ma l’inflazione sottostante resta troppo elevata e va espandendosi. L’inflazione di fondo rimane ai massimi storici e la domanda interna potrebbe subire una contrazione a causa dell’erosione dei redditi reali. In un contesto di crescita robusta, aumento delle pressioni sui prezzi e sostegno fiscale sostenuto, dalla fine dello scorso anno la Bce ha adottato toni più aggressivi. Avendo avviato tardi i rialzi, la Banca centrale europea deve ora mantenere la rotta perseguendo una politica restrittiva malgrado i potenziali rischi di recessione nella regione e malgrado le recenti tensioni sui mercati finanziari. Il 16 marzo la Bce ha tenuto fede alle sue intenzioni alzando i tassi di riferimento di 50 punti base. Da qui in avanti, l’orientamento aggressivo della Bce potrebbe suscitare domande dovute al peggioramento della congiuntura nella regione e le tensioni politiche potrebbero mettere alla prova la determinazione dei vertici di Francoforte nel perseguire il proprio corso restrittivo”.

Intatto lo scenario di ribasso per i mercati azionari. “Sell on rally”

Considerare transitorio lo scenario inflazionistico è molto rischioso per il posizionamento strategico di portafoglio, poiché l’inflazione procurata da eventi geopolitici e macroeconomici non può essere gestita dalle banche centrali.

Di Maurizio Novelli*

Mentre tutti credono che il futuro dell’inflazione possa dipendere solo dall’andamento dei prezzi del gas e del petrolio, altri fattori di rischio si stanno delineando all’orizzonte, ponendo diversi ordini di interrogativi. Infatti:

1) cosa succederebbe se tra sei mesi finisse la guerra in Ucraina e iniziassero le discussioni sulla ricostruzione? I prezzi delle materie prime salirebbero ancora prima che venisse speso un Euro per ricostruire il Paese. L’Europa sarebbe all’epicentro del problema, dato che si trova in prima linea nei progetti di intervento. La ricostruzione dell’Ucraina e la sua successiva integrazione nell’economia europea, avrebbe lo stesso effetto dell’integrazione dell’economia della Germania dell’Est nella Germania Ovest. Se qualcuno non si ricorda cosa è successo dopo la caduta del muro, può sempre andare a vedere il grafico del Marco tedesco e del bund in quel periodo (tassi su, DM forte, DAX in ribasso);

2) cosa succederebbe se la Cina superasse definitivamente la pandemia, come già avvenuto in Occidente, e l’economia procedesse a un full reopening? La riapertura dell’economia cinese avrebbe un effetto reflazionistico, i prezzi delle materie prime salirebbero e l’inflazione globale salirebbe ulteriormente.

3) cosa succederebbe se la global value chain, attualmente super concentrata in Asia, venisse rivista verso un approccio più locale o regionale, al fine di proteggersi da futuri eventi geopolitici? Probabilmente i costi produttivi salirebbero, dato che Est Europa e America latina, a parità di costi di manodopera, hanno una colossale carenza logistica a supporto della produzione rispetto a quella cinese. Costruire nuove infrastrutture per supportare una nuova value chain farebbe salire i prezzi di materie prime ed energia in tutto il mondo, come già avvenuto durante la fase di sviluppo in Cina.

Pertanto, l’unico scenario conforme con un’inflazione in discesa è quello compatibile con una recessione. Prima sarebbe “utile” avere una recessione e poi, per uscirne, potremmo ripartire da Cina e ricostruzione post bellica. Puntare ad un soft landing adesso vorrebbe dire esporsi ad un nuovo shock inflattivo con ulteriori pressioni sui tassi e seri problemi di sostenibilità del debito pubblico ma soprattutto privato. La decisione più saggia sarebbe quella di sgonfiare gli asset finanziari e raffreddare l’economia con una breve recessione. Qualsiasi tentativo di contrastare questo scenario non farebbe che accrescere i problemi e renderebbe sempre più complicato il lavoro dei policy makers, allungando l’agonia ribassista sui mercati finanziari ed esponendo il sistema ad un ciclo inflazionistico devastante e di lungo periodo.

Consenso: no recessione, inflazione giù e tassi in significativa discesa

A questo punto, posizionarsi per uno scenario inflazionistico transitorio è molto rischioso, dato che ci sono in atto fenomeni strutturali sull’inflazione procurati da eventi geopolitici e macroeconomici tali che non possono essere gestiti dalle banche centrali. Credo quindi che il picco dei tassi d’interesse sarà molto più legato ai rischi di recessione che al picco, probabilmente transitorio, dell’inflazione. I tassi quindi rimarranno tendenzialmente più alti di quanto oggi sconta il mercato, salvo che non ci arrivi addosso una recessione “non tecnica”, con conseguente decisa revisione al ribasso degli utili societari. Quindi, le attese di un ritorno al contesto “anomalo” di tassi bassi e QE richiederebbe un ulteriore shock negativo sul fronte economico. Per questo motivo lo scenario di ribasso per i mercati azionari rimane intatto e il recente ampio rimbalzo, costruito su scenari improbabili, è un “sell on rally”. La nostra strategia sull’Equity rimane decisamente negativa e si confermano i livelli di discesa indicati in precedenti note mensili.

Il problema della potenziale ricostruzione post bellica è un elemento di rischio sui tassi Ue sottovalutato dai mercati. La Bce sarà decisamente più restrittiva delle attese e produrrà un overshooting sull’Euro vs dollaro Usa per contrastare l’inflazione importata da un ulteriore aumento delle materie prime. L’attuale posizione long sui mercati UE rischia di essere sgretolata da tassi più alti delle attese. Nell’operazione di “ricostruzione” non acquisterei il mercato azionario Ue ma solo le società legate ad infrastrutture e materials che potrebbero beneficiare dell’evento. Per molti altri settori, non strettamente legati al processo di ricostruzione, peseranno tassi più alti e costi più alti a causa di un’inflazione persistente. La Bce, a un certo punto, sarà più aggressiva della Fed e anche l’Euro più forte peserà sulla redditività delle aziende UE estremamente dipendenti dall’export. Non credo quindi a nessun decoupling tra i mercati Usa ed Europa secondo la narrazione oggi circolante, che ha portato ad accumulare ingenti posizioni long su Eurostoxx e DAX. Il mercato sarà molto più selettivo e ad alta dispersione settoriale.    

Non avrei poi tutta questa fretta di riempirmi di bonds a lunga scadenza sugli attuali livelli dei tassi, in particolar modo sull’area Euro. Lo scenario post bellico imprimerà ulteriori pressioni al rialzo sui tassi Bce e credo che le opportunità di acquisto potrebbero verificarsi a rendimenti più elevati di quelli attuali. La Bce sarà costretta a mantenere un atteggiamento restrittivo anche quando la Fed si avvicinerà al picco dei tassi. L’attuale forza di dollaro rischia di non durare e, dovendo scegliere un’allocazione valutaria per i prossimi due/tre anni, preferirei avere Euro, CHF e JPY rispetto al dollaro. L’Oro sarà supportato da uno scenario globale di inflazione strutturale più alta e dollaro debole, provocato da una Bce più restrittiva delle attese e Boj che uscirà dai tassi zero. L’attuale resistenza dei mercati azionari ad ulteriori ribassi è basata su scenari di un ritorno alle politiche monetarie “non convenzionali” con tassi in discesa, mentre l’economia continuerebbe a crescere e l’inflazione scenderebbe al 2%. Francamente, appare alquanto difficile immaginare che, con la fine del conflitto in Ucraina e la riapertura dell’economia cinese, l’inflazione possa scendere con l’economia in crescita, mentre le banche centrali sarebbero pronte ad avviare una discesa dei tassi. Non c’è nessuna coerenza logica in questa narrazione e l’era del caos è appena iniziata.

* Gestore del fondo Lemanik Global Strategy Fund

24MAX, overview sul mercato creditizio 2022 e previsioni per il 2023

Le proiezioni sul mercato del credito sono soggette a un’incertezza elevata, associata all’andamento dell’inflazione, all’evoluzione del commercio internazionale e alla fase di restrizione monetaria.

24MAX, società di mediazione creditizia del Gruppo RE/MAX, ha rilasciato il Credit Report 2023 che contiene un’overview del mercato creditizio nel 2022 e le previsioni per l’anno in corso. Nel Report vengono analizzati gli andamenti del mercato messi a confronto con i dati registrati dall’Ufficio Studi di 24MAX sulla base dei volumi reali di transazione. All’analisi quantitativa viene associata un’analisi qualitativa con l’identikit socio-demografico di chi richiede un mutuo.

Nel 2022, la BCE ha applicato aumenti sui tassi di interesse che stanno proseguendo anche nell’anno in corso; l’ultimo lo scorso 2 febbraio, quando il tasso base è stato portato al 3 per cento. Al contempo, la BCE ha annunciato nuovi interventi simili per i prossimi mesi, a ritmo costante, fino a quando non si tornerà a raggiungere un livello di inflazione di circa il 2%. Inoltre, le banche stanno adottando criteri più restrittivi per l’erogazione del credito. Questi interventi si riflettono sia sui tassi di interesse medi per nuovi prestiti alle imprese, sia sui prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni.

Secondo i dati elaborati da 24MAX, la maggior parte dei mutui erogati ha come finalità l’acquisto immobiliare; in lieve calo i mutui richiesti per le seconde case. “La scorsa estate l’interesse degli acquirenti si stava progressivamente orientando verso soluzioni quali tassi variabili a rata fissa, mutui variabili con CAP e mutui green per gli immobili di nuova costruzione o ristrutturati in classi energetiche efficienti (A o B), ma a fine anno il fisso è diventato simile al variabile causando una repentina inversione di tendenza a vantaggio del fisso”, commenta Riccardo Bernardi (nella foto, Chief Development Officer di 24MAX) a latere dell’analisi delle transazioni, secondo la quale il 46,6% di chi ha richiesto un mutuo nel 2022 è coniugato, mentre il 42,5% è single, con una prevalenza degli uomini (58,7%) sulle donne (41,3%). In calo le richieste di separati e divorziati, che scendono al 7,4% rispetto al 9,8% del 2021; stabile nel corso dell’anno anche la richiesta dei conviventi, che rappresentano il 2,1%, e dei vedovi, che si attesta all’1,4% dopo la riduzione di quasi un punto percentuale registrata rispetto al 2021.

Analizzando il panel per fasce d’età, i dati evidenziano una sostanziale parità tra la fascia 35-44 anni e 25-34 anni che quotano rispettivamente il 30,5% e il 30,3% su base annua, con una crescita di circa 5 punti percentuali della categoria dei più giovani, che nel 2021 si attestava al 25,1%. In leggero aumento anche le richieste di mutuo da parte dei giovanissimi (18-24 anni) che raggiungono il 3,1%, e della fascia 45- 55 anni, che rappresenta il 21,2%. In diminuzione di 4 punti percentuali gli over 55, che si attestano al 14,9%. L’Ufficio Studi di 24MAX fornisce anche dati inerenti alla tipologia di contratto lavorativo di chi ha acceso un mutuo nel corso del 2022. La netta maggioranza (78,1%) sono lavoratori a tempo indeterminato, seguiti dalle partite IVA (8,3%). In calo di oltre 2 punti percentuali rispetto al 2021 il dato relativo ai lavoratori a tempo determinato (4,7%) e dell’1,7% quello dei pensionati (5,1%).

Analizzando complessivamente le pratiche di mutuo del 2022, il 97,2% di esse si conferma destinato all’acquisto della prima casa; esigua la percentuale di mutui richiesti per l’acquisto di una seconda casa, che rappresentano solo il 2,8%.

Relativamente alle previsioni per il 2023, c’è da dire che il biennio 2020-2021 è stato caratterizzato da un dinamismo fin troppo esuberante, frutto di un mix di ingredienti ormai noti, a partire dai tassi ai minimi storici unitamente alla rilassatezza delle banche rispetto ai requisiti richiesti per ottenere un mutuo, fino alle agevolazioni governative e alle nuove esigenze abitative nate dalla pandemia. Per il 2023, invece, si prevede una contrazione delle transazioni di circa l’8/9% rispetto al 2022, ma con un numero di compravendite superiori al 2019. “L’andamento del real estate residenziale, ovviamente, avrà ricadute sul mercato creditizio. La contrazione prevista per il mercato immobiliare implicherà ovviamente una leggera riduzione dell’erogato da parte delle banche”, afferma Marco Boidi (nella foto), Head of Sales Network di 24MAX. In particolare, per il primo semestre 2023 sono previsti nuovi aumenti da parte della BCE, con ricadute sull’economia delle famiglie con mutui a tasso variabile. Si tratta di uno scenario che sta favorendo un ritorno al tasso fisso, che congela le condizioni allo status quo e risponde anche a una necessità emotiva di chi accende un mutuo.

In ogni caso, la lettura dell’economia europea rimane complessa, in quanto soggetta a forze opposte e asincrone; le proiezioni sul mercato del credito – così come su quello immobiliare – sono quindi soggette a un’incertezza elevata, associata all’andamento dei prezzi e della disponibilità di materie prime, all’evoluzione del commercio internazionale, nonché alle ripercussioni della fase di restrizione monetaria a livello globale. Infatti, l’economia globale continua a risentire dell’elevata inflazione, della forte incertezza connessa alla guerra in Ucraina e delle politiche restrittive delle banche centrali. Di conseguenza, gli esperti hanno ridimensionato le stime di crescita del PIL per l’anno in corso, rivalutando al rialzo quelle relative all’inflazione nel biennio 2023-2024. Ad aggravare lo scenario, gli annunci del consiglio direttivo della BCE relativamente ad ulteriori aumenti dei tassi che verranno effettuati a un ritmo costante per favorire un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo di medio termine.

Nel nostro Paese, secondo i dati rilasciati da Banca d’Italia, i prestiti ai privati hanno rallentato, risentendo dell’indebolimento della domanda delle famiglie per l’acquisto di abitazioni e di una moderata restrizione delle condizioni di offerta. Per il 2023 si prevede un rallentamento del PIL, seguito da un ritorno alla crescita nel biennio successivo, a fronte di una contrazione dell’inflazione. L’incertezza connessa con la prosecuzione del conflitto in Ucraina e con le condizioni finanziarie più restrittive si ripercuotono sulla spesa per investimenti e sulle prospettive del settore immobiliare e creditizio. Anche i consumi delle famiglie – che nel 2022 hanno riflesso il ritorno alle abitudini di spesa precedenti la pandemia – nell’anno in corso risentirebbero con maggiore intensità degli effetti negativi dell’elevata inflazione e del deterioramento generale della fiducia.

Come si comporterà il mercato immobiliare di fronte a questo scenario complessivo? Negli ultimi anni, il mercato residenziale ha messo a segno risultati da record, ma dalla seconda metà del 2022 si è iniziato a registrare un rallentamento che proseguirà anche nel 2023. Si stanno dunque manifestando gli attesi segnali di una stabilizzazione dell’offerta, a fronte di una domanda che risente del rialzo dei tassi di interesse. “Per il 2023 non prevediamo una vera crisi immobiliare perché, nonostante gli aumenti, i tassi di interesse sono a livelli ancora interessanti se comparati ai picchi raggiunti in anni passati”, commenta Dario Castiglia (nella foto), CEO & Founder di RE/MAX Italia. “Il rallentamento previsto per il prossimo biennio presenterà grandi sfide, ma offrirà anche interessanti opportunità per investire nell’immobiliare. Questo perché sarà un mercato leggermente calmierato con condizioni più favorevoli per chi dispone di liquidità o ha la possibilità di accedere al credito”.

Su tutto, si delineano nuovi desiderata tra i compratori, frutto dello scenario in cui stiamo vivendo. Da un lato, i rincari energetici hanno reso più appealing gli immobili green con prestazioni efficienti e sostenibili; dall’altro, lo smart working è diventato ormai strutturale e determina un interesse crescente per la connettività che deve essere garantita per rete fissa e mobile. La ricerca di immobili con specifici requisiti sarà uno dei fattori che sosterrà le compravendite immobiliari, così come gli investitori esteri interessati al nostro Paese.

Ethenea: i rialzi di 50 punti base non sono sufficienti per fermare l’inflazione

Il tasso d’inflazione nelle ultime settimane è diminuito, ma a quasi il 9% è ancora ben al di sopra dell’intervallo obiettivo della banca centrale.

Di Volker Schmidt*

La prossima decisione della BCE sui tassi di interesse è attesa per il 2 febbraio. Quella di dicembre è stata oggetto di forti discussioni tra chi sosteneva un rialzo di 50 punti base e chi avrebbe invece preferito un altro strappo di 75 punti. Alla fine sono passati i 50 punti, con una chiara indicazione che potranno seguire diversi ulteriori rialzi della stessa entità nel 2023.

Pertanto, è ovvio aspettarsi da parte della BCE due aumenti di 50 punti base sia il 2 febbraio sia a marzo, dato che non si sono verificati eventi straordinari che giustifichino una deviazione dalle previsioni. Tuttavia, il tasso d’inflazione nelle ultime settimane è diminuito, ma a quasi il 9% è ancora ben al di sopra dell’intervallo obiettivo della banca centrale. Un ulteriore calo è sicuro ed è possibile che in estate scenda fino al 5% circa. Tuttavia, l’inflazione di fondo è in costante aumento e ha superato il 5% a dicembre. Ciò dimostra che l’inflazione si è radicata e che sono necessari ulteriori sforzi per riportare il tasso di inflazione nell’intervallo di riferimento della banca centrale.

Ma oltre a chiederci cosa farà la banca centrale, dobbiamo anche chiederci cosa faremmo noi se fossimo nei panni della BCE. La nostra principale preoccupazione riguarda il massiccio sostegno della politica fiscale nell’area euro e il suo impatto sull’andamento futuro dell’inflazione. Gli aiuti Covid hanno aumentato in modo significativo soprattutto gli attivi delle famiglie. Ma anche la capitalizzazione di molte aziende è migliore rispetto a prima della crisi. Gli interventi di sostegno per far fronte all’esplosione dei prezzi dell’energia ci dicono che questi paracadute finanziari saranno mantenuti. Inoltre, c’è l’intenzione di contrapporre al programma infrastrutturale del governo americano un intervento corrispondente nell’area euro.

Tutto ciò sta creando un potenziale inflazionistico che la banca centrale dovrebbe contrastare al più presto, con aumenti ancora più consistenti dei tassi di interesse. L’aumento del tasso di deposito dall’attuale 2% al 3% non sarà sufficiente. L’obiettivo dovrebbe essere il 4 o il 5%, se non addirittura il 6%, accompagnato da una rapida riduzione delle obbligazioni detenute dalla BCE.

* Senior portfolio manager di Ethenea Independent Investors

Sulle perdite delle banche centrali aleggia lo spettro della ricapitalizzazione?

Secondo un nuovo filone del terrorismo mediatico sul ruolo delle banche centrali, le perdite di queste ultime potrebbero portare alla necessità di una loro ricapitalizzazione pagata dai cittadini dei singoli stati. Cosa c’è di vero?

E’ notizia recente che la Banca nazionale svizzera (BNS) abbia riportato perdite particolarmente ingenti che, nel breve periodo, la costringeranno a non inviare più soldi ai Cantoni. Le ha fatto eco la Reserve Bank of Australia (RBA), le cui perdite registrate dagli approcci contabili mark-to-market* potrebbero spingere la RBA verso un patrimonio netto negativo.

Negli ultimi anni, la BCE e le banche centrali nazionali dell’Eurozona hanno generato utili molto elevati che, al netto degli accantonamenti previsti, sono stati girati agli stati membri. Solo nel 2019, ad esempio, la Banca d’Italia aveva registrato un utile di oltre 8,2 miliardi di euro, di cui 7,8 miliardi sono stati distribuiti allo Stato sotto varie forme. Tale distribuzione non è legata al risultato di gestione del singolo anno, ma alla volontà “politica” di distribuire utili, accantonati negli anni precedenti e messi a riserva, ogni qual volta esigenze di bilancio lo richiedano. Infatti, via via che i tassi d’interesse sui titoli di Stato sono diventati negativi, gli utili che la BCE e le altre banche centrali – detentrici di titoli in portafoglio – hanno conseguito si sono gradualmente assottigliati fino a registrare una perdita di esercizio, che in teoria  imporrebbe prudenza contabile e la concreta possibilità di sospendere la distribuzione di utili allo stato.

In realtà, le enormi riserve accumulate dalle banche centrali servono proprio a questo, e cioè a fronteggiare le perdite di singoli esercizi, ma prima di questo esse potrebbero anche riportare eventuali perdite agli esercizi successivi, compensandole con gli utili futuri senza intaccare il capitale. Le banche centrali accantonano obbligatoriamente a riserva una parte degli utili per far fronte ad eventuali perdite future. La Banca D’Italia, per esempio, accantona ogni anno il 20% degli utili, che va a rimpinguare il Fondo Rischi Generali e si aggiunge agli ulteriori accantonamenti – conti di rivalutazione – effettuati per creare riserve specifiche in funzione delle attività che le banche svolgono e dei rischi che esse assumono o devono gestire, soprattutto nelle operazioni sui derivati che necessitano di un approccio contabile mark-to-market*. Nel 2019, l’insieme di capitale sociale, riserve, accantonamenti e conto di rivalutazione della Banca D’Italia ammontava a 159,5 miliardi, una somma in grado certamente di far fronte agli eventi negativi che, aggiungendosi alle politiche di tassi negativi, si sarebbero verificati dall’anno successivo ad oggi.

Il problema delle perdite delle banche centrali, infatti, è stato esaminato con maggiore attenzione per via del fatto che il Sistema Europeo delle Banche Centrali, in occasione della pandemia, ha comprato una enorme quantità di obbligazioni governative (e non solo) per via del Quantitative Easing e del PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), e solo di recente ha programmato una vendita graduale di quei titoli di stato che detiene in portafoglio in grande quantità. In particolare, le eventuali perdite della BCE da statuto sono da imputare ai fondi di riserva, che a fine 2020 ammontavano a oltre 90 miliardi di euro. Solo qualora questi fondi fossero insufficienti le perdite potrebbero essere imputate alle banche centrali nazionali in proporzione alla loro quota di partecipazione al capitale (per l’Italia è il 17%). Infine, la tanto temuta procedura di ricapitalizzazione, necessaria solo di fronte ad una serie di perdite annuali tali da attribuire al capitale  della BCE un valore negativo, richiederebbe comunque la concertazione con il Consiglio Europeo, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo.

Ebbene, le politiche monetarie “non convenzionali” adottate fin dalla crisi finanziaria del 2008 hanno portato a zero i tassi d’interesse (anche sotto zero) e aumentato enormemente gli utili delle banche centrali grazie alla crescita dei corsi dei titoli di stato acquistati e detenuti in portafoglio. Ma con l’inflazione galoppante per via dello shock di offerta e la conseguente risalita dei tassi in cui siamo ancora dentro, i titoli in portafoglio si sono deprezzati determinando perdite importanti, come quelle stimate dalla Bank of England nei prossimi cinque anni, pari ad almeno 133 miliardi di sterline. In pratica, alcune banche centrali stanno pagando di più sulle loro passività verso gli istituti finanziari di quanto guadagnano sui loro titoli detenuti, aumentando il rischio di perdite. Questo può voler dire che, seguendo l’esempio della Svizzera, le stesse banche centrali potrebbero non versare più un centesimo nelle casse degli stati, e questo è un rischio che, nel breve periodo, non è destinato a produrre effetti diretti sulla finanza personale dei cittadini  di quegli stati: solo nel caso in cui le perdite fossero di entità tale da far entrare il patrimonio della banca in area negativa per diversi anni, senza potervi far fronte con l’utilizzo delle riserve ed il rinvio agli esercizi futuri, si potrebbe prospettare una ricapitalizzazione ed un eventuale coinvolgimento dei singoli cittadini tramite un aumento delle imposte dirette o, nei casi peggiori, un prelievo forzoso sui conti correnti.

Pertanto, le “cassandre” non si sprechino in previsioni tragiche, e magari si concentrino un pò sui fondamentali.

* Calcolo giornaliero operato dalla clearing house dei profitti e delle perdite associate alle posizioni aperte su strumenti derivati. La posizione di chi detiene un derivato infatti, varia dopo la stipula del contratto in base al prezzo di mercato dell’attività sottostante. Nel caso di un compratore di un  future su un’azione, se il prezzo di mercato di questa si abbassa rispetto al suo strike price, il soggetto registra una perdita teorica quantificata, appunto, dal mark to market. La perdita viene addebitata sul suo margine di garanzia e contemporaneamente accreditata dalla clearing house sul margine del venditore del contratto. Se l’attività sottostante si apprezzasse rispetto allo strike price, si verificherebbe il meccanismo inverso.

BCE pronta a tollerare una profonda recessione pur di sconfiggere l’inflazione?

Che l’inflazione elevata fosse l’ossessione della Germania fin dai tempi della Repubblica di Weimar è cosa nota, e l’UE a guida tedesca semplicemente si sta adeguando. Il debito italiano sulla graticola?

Con un debito elevato e la previsione che la BCE fermi presto i suoi acquisti di obbligazioni, chi comprerà i nostri bond? E’ questa la domanda che campeggia tra i nostri economisti dopo la sbornia natalizia e a neanche due settimane dall’incontro che ha riunito tutte le banche centrali dell’area dell’euro, della Gran Bretagna, della Svizzera e della Norvegia. Infatti, la BCE ha sciolto (male) i nodi sulla imminente recessione, che i futuri aumenti dei tassi di interesse porterà con certezza. L’unica cosa incerta è l’entità di questo arretramento dell’economia, e cioè se si tratterà di una “recessione tecnica”, limitata ad uno o massimo due trimestri di PIL lievemente negativo, oppure di una recessione durevole e incisiva, con una sensibile diminuzione del PIL.

Pertanto, con un “carrello della spesa” che in Italia viaggia ad un ritmo di crescita del  12,8% (ed in Europa poco meno), pur di far sparire l’incubo – tutto tedesco fin dai tempi della Repubblica di Weimar – l’inflazione la BCE è disposta a tollerare anche una recessione, qualunque sarà la sua ampiezza, aumentando ancora i tassi di interesse contro un’inflazione oggettivamente – per momento storico e caratteristiche esogene – senza precedenti. Christine Lagarde si è mossa lungo il solco di Jerome Powell della FED, compiendo gli stessi errori dei colleghi americani. Jerome Powell, come ha fatto impietosamente notare la recente analisi del Wall Street Journal, nel 2021 ha clamorosamente “toppato” nel valutare l’inflazione come un fenomeno passeggero, costringendo poi il Paese a sopportare una corsa ai rialzi dei tassi d’interesse che hanno portato il costo del denaro al 4,25-4,50% e lo  S&P500 a perdere quasi il 20% da inizio d’anno.

Al pari della FED, anche la BCE dice di voler continuare con altri rialzi, spaventando i mercati che vedono allontanarsi il picco dei rialzi da Marzo a Giugno-Luglio 2023. La scelta di mollare i propositi dei rialzi costanti e graduali, in tutta evidenza, è frutto di un imperdonabile pressappochismo che sarà faticoso da recuperare, soprattutto per i Paesi più indebitati, i quali dovranno fare i conti anche con il QT (quantitative tightening, il mancato rinnovo di titoli in scadenza) da 15 miliardi al mese. In verità, tale importo – che peraltro sarebbe limitato al periodo Marzo-Giugno 2023 – è una inezia rispetto al deficit complessivo dell’Unione Europea, ma è stato sufficiente per fare schizzare il Btp decennale italiano dall’1,2% di un anno fa all’attuale 4,5% circa, per via del timore di una continuazione del QT nei mesi successivi a Giugno.

Una politica meno aggressiva avrebbe potuto tranquillizzare gli animi agitati dai rischi di recessione, ma il “frugale” governatore della Banca centrale olandese ha dichiarato al Financial Times che la BCE continuerà ad alzare i tassi da qui a luglio 2023, dopo averli già aumentati di 200 punti base (bps) per contenere l’inflazione. Pertanto, solo un conclamato rallentamento del ritmo di rialzo dei tassi potrebbe risollevare il mercato obbligazionario, sul quale molti gestori puntano per recuperare le performance depresse da un 2022 da incubo. Tuttavia, gli economisti di Deutsche Bank vedono il tasso terminale al 3%, con rischi al rialzo. Per questo motivo l’asticella del picco si è alzata, non essendo ancora incoraggiante il primo rallentamento dell’inflazione generale a novembre dopo un anno e mezzo di rialzi.

Il prossimo dato di Dicembre ci dirà se si tratta di un trend apprezzabile, ma il tradizionale aumento dei consumi del periodo natalizio non fa ben sperare, e consiglia di rinviare questo momento ai dati di Gennaio 2023 (e quindi ai primi di Febbraio). In ogni caso, siamo lontanissimi dal target del 2%. Escludendo i beni alimentari, il carburante, l’alcol e il tabacco, l’inflazione è al 5%, e non accenna a diminuire. Per questo si sta facendo di tutto (soprattutto in Italia) per rinviare gli aumenti salariali e far diminuire violentemente i consumi per via di un potere d’acquisto che in Italia è ridotto ai minimi termini sia in valore nominale che reale.

La BCE, ad oggi, pensa che la recessione sarà poco profonda, e i dati in possesso indicherebbero solo una lieve recessione. In particolare, la previsione di crescita del 2023 della zona euro, comunicata a Settembre scorso (+ 0,9%), ha subito un downgrade significativo, e il QT certamente non aiuterà ad evitare brutte sorprese in corso d’opera. Per l’Italia, in particolare, è forte la paura che, con un debito elevato e il fatto che la banca centrale fermerà i suoi acquisti di obbligazioni, sarà difficile trovare acquirenti dei bond nazionali senza dover fronteggiare continui attacchi speculativi da parte degli hedge fund. Nel frattempo, sul fronte del petrolio, Brent e Wti galleggiano vicini agli 80 dollari al barile (ricordiamo che a Giugno si era intorno ai 120), mentre il gas è precipitato a 83 euro al megawattora (ad agosto era a 345) dopo l’accordo sul price cap. Sembrano segnali che l’inflazione potrebbe avere raggiunto il suo picco, per cui la stretta di Powell sui tassi, qualora fosse troppo serrata rispetto alle reali esigenze di controllo dell’inflazione, potrebbe generare una recessione più profonda, e gli errori di valutazione della FED (e della BCE…) commessi nel 2021 creano non poca incertezza.

Mutui e tassi di interesse: inversione di tendenza nelle preferenze tra variabile e fisso

Secondo i dati di Kiron, il tasso variabile passa dall’8% del 2021 al 41% delle scelte del 2022. Siamo sicuri che si tratti della mossa corretta per chi contrae un mutuo?

I tassi medi applicati alle operazioni di mutuo a tasso fisso, dopo un lungo trend ribassista che durava dal 2013 e che ha portato il tasso medio a toccare il suo minimo nel luglio del 2020 con l’1,17%, sono letteralmente schizzati in su negli ultimi 12 mesi. Chi ha fatto in tempo a contrarre un mutuo a tasso fisso all’1%, fino a novembre 2021, ha fatto bingo. Infatti, oggi il tasso medio di mercato non scende al di sotto del 3,5% (per la clientela maggiormente favorita), e questo ha dato una spinta notevole alla scelta del tasso variabile quale preferenza dei nuovi mutuatari.

Le motivazioni che hanno generato questo scenario sono da ricercare essenzialmente in due fattori: da una parte un lieve aumento degli spread bancari che hanno inciso poco sul tasso finale applicato ai mutui e dall’altra gli interventi della BCE mirati a contenere la forte crescita inflazionistica. L’ultimo intervento della BCE nel mese di ottobre 2022 ha rialzato il principale indice di riferimento di ben 0,75%, portandolo così al +2%. Il rialzo dei tassi, secondo Renato Landoni di Kiron (nella foto), al momento non preoccupa: tra i mutui già erogati prevalgono quelli a tasso fisso mentre per i mutui a tasso variabile non sembrano al momento esserci elementi di criticità visto che l’Euribor viaggia ancora a livelli medio bassi, ma la dinamica dei tassi ha portato a un ribilanciamento delle tipologie di tasso collocato nelle scelte dei mutuatari, che nel corso del 2022 hanno spesso optato per prodotti più rischiosi come il tasso variabile. Questa inversione di tendenza ha portato il tasso variabile e il tasso variabile con CAP ad erodere quote importanti al tasso fisso, che invece nel 2021 era stato scelto da quasi 9 mutuatari su 10. Nel 2022, infatti, il tasso variabile è la scelta di 4,1 mutuatari su 10, mentre il tasso variabile con CAP di 1,2 mutuatario su 10. Quelli che continuano a optare per un prodotto fisso, più sicuro ma più caro, scendono a quota 4,4 mutuatari su 10.

Le preferenze dei richiedenti, pertanto, si sono mosse con una rapidità sorprendente, così come rapidissima è stata la risalita dei tassi imposta dalle banche centrali per contenere una inflazione che i millennials neanche ricordano. Il problema, semmai, è capire se la scelta del tasso variabile sia stata effettuata con sufficiente raziocinio. Infatti, secondo alcuni studi autorevoli (Deutsche Bank, ma non solo) il tasso di inflazione – e conseguentemente i tassi di interesse imposti dalle banche centrali – impiega qualche anno a scendere verso le soglie considerate ideali dalla FED e dalla BCE (2-2,5%) allorquando l’indice dei prezzi al consumo raggiunge certi picchi così elevati, come quelli attuali, ed in un breve lasso di tempo. Ciò significa che chi ha contratto un mutuo a tasso variabile nella speranza/previsione che l’inflazione – e conseguentemente i tassi delle banche centrali – possa scendere altrettanto repentinamente, e la rata del suo mutuo diminuire proporzionalmente, sta commettendo un errore di valutazione, poiché è sicuro che i tassi continueranno ad aumentare lievemente almeno fino a Marzo 2023 e, qualora lo shock energetico dovesse continuare (a causa del perdurare del conflitto NATO-Ucraina-Russia), si aprirebbe uno scenario di Stagflazione – ossia recessione più inflazione elevata – che renderebbe impossibile per le stesse banche centrali diminuire i tassi di interesse per stimolare le economie e uscire dalla recessione.

Il mercato dei mutui, pertanto, dovrà adattarsi a questo scenario, agendo sulla offerta e diversificando ancora di più le tipologie di mutuo, magari stimolando la domanda di mutui di più lunga durata in modo da consentire un miglioramento dello scoring e una rata più bassa. Infatti, i redditi medi in Italia sono scesi in modo sensibile negli ultimi trenta anni e soprattutto negli ultimi cinque, abbassandosi ad un livello tale da non permettere a molti lavoratori subordinati di potere accedere al credito bancario se non in presenza di un garante e/o co-obbligato (il coniuge o convivente, se non uno dei genitori per i più giovani). Questa tendenza ad allungare il piano di ammortamento si evince dagli stessi dati di Kiron Partners, secondo cui la durata media del mutuo è già passata da 24,7 anni del 2021 a 26 anni del 2022.

Segmentando per fasce di durata, dallo studio di Kiron emerge che il 78,8% dei mutui ha una durata compresa tra 21 e 30 anni (72% nel 2021) e il 21,2% si colloca nella fascia 10-20 anni (27,9% nel 2021), mentre i mutui ipotecari di durata inferiore a 10 restano residuali. Nel primo semestre 2022 l’importo medio di mutuo erogato sul territorio nazionale si attesta a 120.100 Euro, in aumento rispetto al 2021 (+5%). L’età media di chi ha sottoscritto un mutuo nella prima parte del 2022 è di 38,9 anni (40 anni nel 2021) con una concentrazione nella fascia 18-34 del 38,3% rispetto al 35,6% del 2021, e nella fascia da 35-44 anni del 34,7% rispetto al 34,8% dello scorso anno. L’acquisto della prima casa rimane la motivazione principale per la quale si sottoscrive un mutuo, e rappresenta il 94,4% del totale delle richieste (nel 2021 era del 87,6%), la seconda casa resta al 2,1% come nel 2021, e sostituzione o surroga scendono all’1,8%. Coloro che scelgono un finanziamento per costruzione o ristrutturazione rappresentano lo 0,9%, e le restanti finalità di consolidamento o liquidità rappresentano solo l’1,2% del totale.

Deutsche Bank World Outlook 2023: la recessione che incombe

L’inflazione è ai massimi e le banche centrali stanno perseguendo il loro più aggressivo inasprimento dei tassi mai visto in una sola generazione. La recessione negli Stati Uniti e in Europa è sempre più vicina.

Di David Folkerts-Landau* e Peter Hooper**

La recessione che stiamo anticipando da nove mesi si avvicina. Potrebbe essere già in corso una flessione in Germania e nell’area dell’euro in generale, a causa  dello shock energetico derivante dalla guerra Russia-Ucraina. La nostra aspettativa di una recessione negli Stati Uniti entro la metà del 2023 si è rafforzata sulla scia degli sviluppi dall’inizio della scorsa primavera. Infatti, l’inflazione dei salari e dei prezzi negli Stati Uniti e in Europa è notevolmente più alta oggi che in qualsiasi altro momento dall’ultima grande inflazione di quattro decenni fa, grazie alla robusta domanda aggregata, ai mercati del lavoro molto tesi e agli shock e ai vincoli dal lato dell’offerta. Un esame del record storico per diversi grandi industriali paesi dagli anni ’60 rileva che ogni volta che la tendenza dell’inflazione è diminuita di due punti percentuali o più, tale calo è stato accompagnato/indotto da un aumento della disoccupazione di almeno due punti percentuali (vale a dire, almeno una moderata recessione).

Le tendenze dell’inflazione negli Stati Uniti e nell’EA sono attualmente di circa 4 punti percentuali al di sopra dei livelli desiderati. Leggiamo la FED e la BCE come assolutamente impegnate a portare l’inflazione ai livelli desiderati entro i prossimi anni. Anche se i costi per farlo potrebbero essere inferiori rispetto al passato per i motivi che esponiamo, non sarà possibile farlo senza rallentamenti economici almeno moderati negli Stati Uniti e in Europa e aumenti significativi della disoccupazione. Complessivamente, vediamo la produzione in calo dell’1% nell’EA e del 2% negli Stati Uniti durante l’anno a venire. La crescita mondiale rallenta a circa il 2% in questa previsione, un tasso che storicamente è stato etichettato come recessivo. Le recessioni economiche, insieme all’aggressiva stretta monetaria e agli shock geopolitici e delle materie prime che le provocano, saranno temporaneamente dolorose nei mercati finanziari ed emergenti. Vediamo i principali mercati azionari precipitare del 25% rispetto ai livelli leggermente superiori a quelli odierni quando la recessione negli Stati Uniti ha colpito, ma poi riprendersi completamente entro la fine del 2023, supponendo che la recessione duri solo pochi trimestri.

La buona notizia è che pensiamo anche che la FED e la BCE riusciranno nelle loro missioni se restano fedeli alle loro decisioni anche di fronte all’aumento della disoccupazione. Farlo avrà un costo sociale molto inferiore rispetto al non farlo e al dover affrontare un problema di inflazione ancora più grave lungo la strada. Farlo adesso, inoltre, porrà le basi per una ripresa economica e finanziaria più sostenibile nel 2024. Anche così facendo, comunque, il ritmo della ripresa nel 2024 e oltre sarà probabilmente moderato, non un forte rimbalzo come si è visto in passato. Tra i fattori che probabilmente peseranno sulla crescita globale per un po’ di tempo a venire vi sono le incertezze relative sia al conflitto Russia-Ucraina, con un persistente shock di competitività indotto dall’energia in Europa, sia alla crescente concorrenza strategica USA-Cina.

In buona sostanza, ci troviamo in un momento decisivo per l’economia globale. L’inflazione corre ai massimi pluriennali, le banche centrali stanno perseguendo il loro più aggressivo inasprimento dei tassi mai visto in una sola generazione, e una recessione è ora sempre più vicina negli Stati Uniti e Europa. Nel frattempo, economie e mercati continuano ad essere colpiti da una gamma di altri eventi, tra cui l’invasione russa dell’Ucraina, la strategia zero-Covid della Cina e la crescente rivalità tra superpotenze tra Stati Uniti e Cina. In questo contesto, il 2023 sarà finora il terzo anno peggiore per la crescita globale del 21° secolo, dietro solo all’anno della pandemia nel 2020 e alle conseguenze del crisi finanziaria nel 2009. Negli Stati Uniti, i nostri economisti vedono una recessione che inizierà a metà del 2023 e nell’Eurozona, pensiamo che la stagflazione sarà un tema determinante il prossimo anno, poiché sono alle prese con una recessione indotta dall’offerta di energia e una media dell’inflazione al 7,5%.

David Folkerts-Landau

I modelli dei nostri economisti indicano che l’inflazione tornerà ai livelli target o sarà solo leggermente al di sopra nel 2024. Tuttavia, i modelli non sono stati la migliore guida all’inflazione in questo ciclo, e il rischio è che reinserire il dentifricio nel tubetto si rivelerà più impegnativo del previsto . La storia suggerisce che l’inflazione tende a rimanere elevata per molti anni dopo picchi simili a quelli che abbiamo visto negli ultimi due anni. Vediamo anche i rischi che la BCE sarà sfidata nel trovare il consenso per inasprire la politica abbastanza da domare l’inflazione in un ambiente in cui la disoccupazione inizia a salire. Non pensiamo che i rischi saranno così grandi alla FED.

Peter Hooper

Per quanto riguarda i mercati finanziari, la nostra visione di base è che l’attuale rally azionario del mercato ribassista continuerà per ora, portando l’S&P 500 a 4500 nella prima metà del 2023. Tuttavia, mentre la recessione prende piede da metà anno, per noi è probabile che l’indice crolli di nuovo. L’impatto di una recessione si farà sentire anche nel credito, dove gli spread HY in USD dovrebbero ampliarsi a 860 punti base entro la fine del 2023 e gli spread HY in EUR dovrebbero raggiungere i 930 punti base. Con la fine del ciclo di inasprimento della FED, e quindi una recessione, dovrebbe essere un anno più positivo per i Treasuries, con il rendimento a 10 anni che chiuderà il 2023 intorno ai suoi livelli attuali al 3,65%, ma a nostro avviso i bund sottoperformeranno, con i rendimenti decennali che passano al 2,60%. Infine, assistiamo a un’inversione nella ripresa del dollaro, con EUR/USD che torna fortemente sopra 1,10, raggiungendo probabilmente 1,15 entro la fine del 2023.

* David Folkerts-Landau, Ph.D., Group Chief Economist Global Head of Research (Deutsche Bank Research)
** Peter Hooper, Ph.D., Global Head of Economic Research (Deutsche Bank Research)