Ottobre 12, 2025
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Covid-19, è recessione tecnica. Dopo le rapide mosse della FED la BCE resta a guardare. Per quanto ancora?

La fase attuale non ha niente a che vedere con la grande crisi del 2008, che rischiava di distruggere il sistema alla radice; quella crisi non arrivò in una manciata di settimana, ma ci mise un anno prima di minacciare la solidità delle grandi banche e istituzioni americane.

Mentre il Governo Conte vara la madre di tutte le manovre economiche italiane per sostenere l’Economia nel mese di Marzo (farà la stessa cosa ad Aprile, annunciando interventi successivi per complessivi 350 miliardi), con la seconda mossa in pochissimi giorni la Fed abbassa i tassi quasi a zero e annuncia  la riapertura del QE (quantitative easing) per una cifra di 700 miliardi di dollari di acquisti – tra T-bond e mutui immobiliari – al fine di combattere gli effetti della pandemia sull’economia americana e, conseguentemente, su quella mondiale. L’intervento complessivo annunciato è di 1.500 miliardi di dollari, e sappiamo bene che i consumi degli Stati Uniti hanno un effetto trainante su buona parte delle economie asiatiche e su parte di quella europea.

L’annuncio notturno della FED sembra tendere la mano verso una concertazione con la BCE (con la BoI, ossia con la Bank of England, c’è già), la quale invece, per via delle mosse individualiste della Lagarde e della Merkel, appare ancora in balia delle pulsioni tedesche e francesi – con il corollario di proteste generalizzate provenienti da quasi tutta l’area meridionale dell’UE – e sembra non avere ancora preso una decisione sui tassi.

Pare che già questa settimana ci possa essere un ulteriore annuncio, ma l’effetto sui mercati si prevede modesto dopo gli effetti generati dal “patto scellerato” franco tedesco.

Pertanto, se in Europa si rimarrà in balia degli speculatori – che già tanto devono, in termini di ricchezza procurata in brevissimo tempo, alla Lagarde – adesso tutto dipende proprio da colei che ha affossato la borsa italiana lo scorso 12 Marzo. Al momento, infatti, sembra che i buoi siano stati liberati tutti dalle proprie stalle, e che non esista un piano comune che possa sorreggere l’economia europea, ma solo iniziative lasciate ai singoli stati.  Ed è proprio questo approccio che ci dirà se una bruttissima parentesi del trend di crescita possa trasformarsi in una vera e propria inversione di tendenza, lunga e profonda, per tutte le economie europee.

Eppure, secondo gli esperti, tutto indica che si tratti, appunto, di una parentesi, e cioè di una c.d. recessione tecnica che durerà  due trimestri consecutivi di PIL con il segno meno davanti, più corta negli USA e più lunga (grazie alla BCE targata Lagarde) in Europa. Tecnicamente, la settimana scorsa l’indice S&P 500 è passato con grande velocità dallo status di semplice correzione di mercato “toro” a quello di scenario “orso”, e cioè a meno venti punti percentuali dai massimi di periodo. Ma bisogna fare attenzione: passare dal mercato “toro” all’orso per qualche punto non basta per dichiarare un’inversione di un trend di lungo periodo. Infatti, la fase attuale non ha niente a che vedere con la grande crisi del 2008 (con il crac di Lehman Brothers), che rischiava di distruggere il sistema alla radice; quella crisi non arrivò in una manciata di settimane, ma ci mise un anno prima di minacciare la solidità delle grandi banche e istituzioni americane, chiedendo l’intervento coraggioso del Tesoro USA e della Fed. Anche allora, come oggi, esse misero sul piatto migliaia di miliardi di dollari, riuscendo a far riprendere anche un’Europa attonita e, come oggi, dominata da personaggi piuttosto inclini a far prevalere l’interesse di Germania e Francia.

A differenza di quel periodo, però, nel 2012 arrivò Mario Draghi a salvare la barca, mentre oggi ci ritroviamo al timone della BCE la modestissima – per usare un eufemismo – Christine Lagarde.

Tecnicamente, la recessione che si prospetta oggi è generata dalla contemporanea caduta della domanda e dell’offerta. Per quanto riguarda la prima, il consumo di beni e servizi sta subendo una forte contrazione in molti settori, mentre la seconda appare inevitabilmente legata al rallentamento dell’attività economica globale e alle interruzioni nelle catene dei rifornimenti di materie prime e semilavorati. Per un po’ di tempo non dovrebbero esserci problemi di approvvigionamento (tranne che per i prodotti strettamente collegati all’emergenza sanitaria) e si potrà andare avanti con le scorte di magazzino, ma se non si assicura adesso un piano di continuità produttiva e distributiva è difficile non ipotizzare un blocco dei mercati globali.

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Non avendo alcuna esperienza storica recente sulle circostanze che il mondo sta vivendo adesso, si potrebbe ipotizzare che i mercati tenderanno a stabilizzarsi solo quando il resto del mondo potrà – e vorrà – replicare il modello di contenimento cinese del coronavirus (quarantena forzata e misure molto più drastiche di quelle italiane ed europee). Pertanto, ci potrebbero volere da 8 a 10 settimane prima di vedere risultati positivi e avviarsi verso un ritorno alla normalità. Traducendo il tutto in termini di PIL, si prevede una discesa di quello cinese nel primo trimestre 2020, e di quello europeo nei primi due, potendosi parlare di recessione globale “tecnica” solo a cavallo tra il primo ed il secondo trimestre; ma sarà comunque una recessione del tutto diversa da quelle “non tecniche”, ossia quelle generate da forti squilibri nel debito di stati e imprese, che richiedono una durata di almeno 12 mesi. Ed è proprio qui che entra in gioco la BCE, con il suo dannoso attendismo; infatti, occorre agire in fretta attraverso un’espansione monetaria e fiscale, in modo da non mettere in discussione la solvibilità delle medie e piccole imprese. C’è tempo fino a tutta questa settimana, dopo di che i giochi saranno fatti ed ogni intervento, pur avendo effetti positivi sull’economia, sarà tardivo per i mercati azionari dell’UE e per una possibile ripresa immediata dei corsi.

In ogni caso, nonostante gli aggiornamenti siano all’ordine del quotidiano, è opinione comune che sia ormai troppo tardi per vendere, ed anzi l’obiettivo degli asset manager è quello di trovare un buon punto di ingresso, dal momento che una correzione massima del 40% dai massimi, nella quale già ci troviamo, pare avere scontato le aspettative peggiori ed è considerata oggi sufficiente per tornare a comprare.

Covid-19, il governo dei mercati in mano ai peggiori di sempre. L’Europa dei burocrati sorride alla speculazione

Le borse andavano chiuse fin da lunedì 9 Marzo, e non lasciate crollare liberamente fino ad oggi. La sospensione delle vendite allo scoperto, dopo un ribasso del 27% in quattro giorni, risuona come una offesa all’intelligenza degli investitori evoluti.

Editoriale di Alessio Cardinale

Se qualcuno aveva paura del dopo-Draghi, bisogna riconoscere che non sbagliava affatto. Christine Lagarde, infatti, non avrebbe potuto mostrare, così presto, il suo volto peggiore, se non di fronte alla grande paura di una pandemia mondiale che ci ha insegnato a conoscerla, risparmiandoci anni di aspettative tradite.

Il tempo ci dirà che dovremmo ringraziarlo, il Covid-19, per averci almeno restituito con rapidità la caratura del nuovo presidente della BCE, che al suo primo test – piuttosto impegnativo, bisogna riconoscerlo – è stata costretta a presentarsi come il peggior burocrate della storia dell’Unione Europea: senza autorevolezza, coraggio e nervi saldi, incapace di offrire ai mercati un segnale di forza che scongiurasse l’avverarsi della peggiore giornata di borsa di sempre.

Sì, perché la borsa funziona come una macchina del tempo: una sola frase, pronunciata frettolosamente e senza riflettere, è capace di innescare il “flusso catalizzatore spazio-tempo” con il quale gli operatori anticipano gli effetti sul prezzo futuro di una merce, di una materia prima, di un’azienda o del mercato intero. Il presidente della BCE, questo, dovrebbe saperlo; pertanto, terzium non datur: o ha mostrato tutta la sua impreparazione a ricoprire il ruolo (ed anche cinica scorrettezza, diffondendo le sue dichiarazioni a mercato aperto), oppure si è piegata ai desideri di quanti hanno realizzato, in soli dieci giorni, una enorme ricchezza vendendo allo scoperto un pò ovunque.

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Se fossimo maliziosi, potremmo pensare che la mossa della “signora in bianco” abbia involontariamente favorito i grandi gruppi francesi, sempre pronti ad appropriarsi delle migliori aziende italiane, che oggi potrebbero essere scalate a prezzi di saldo. Ma dal momento che non lo siamo (maliziosi), non lo pensiamo; però sta venendo fuori che la posizione della Lagarde, in merito ai rapporti di forze all’interno dell’UE, sia molto vicina a quella tedesca.

Relativamente alla faccenda delle vendite allo scoperto, poi, la Consob di Paolo Savona ha voluto attendere il peggior ribasso di sempre della borsa italiana (-16,92%), quello di giovedì 12 Marzo, ed una correzione complessiva del 27% (in soli 4 giorni, dal 9 Marzo), prima di sospenderle.

Perché tanta attesa, visti i disastrosi risultati del mercato, ampiamente scontati, attesi già da sabato 8 Marzo? Nella delibera con la quale, nella tarda serata di ieri, la Consob ha deciso di sospendere le vendite allo scoperto su 85 titoli quotati sul Mta (mercato telematico italiano), si chiarisce che il divieto è stato deciso ai sensi dell’articolo 23 del Regolamento europeo 236/2012, per l’intera giornata di negoziazione del 13 marzo 2020. L’articolo in questione prevede restrizioni alle contrattazioni se “….la negoziazione ha subito una diminuzione significativa durante un solo giorno di negoziazione rispetto al prezzo di chiusura in tale sede del giorno di negoziazione precedente”, ed in questo caso “…l’autorità competente dello Stato membro di origine per tale sede verifica se sia opportuno vietare o porre delle restrizioni a persone fisiche o giuridiche per quanto riguarda l’avvio di vendite allo scoperto dello strumento finanziario in tale sede di negoziazione o altrimenti porre delle restrizioni alle operazioni su detto strumento finanziario in tale sede di negoziazione allo scopo di impedire una diminuzione disordinata del prezzo di detto strumento finanziario”. Inoltre, nella nota diffusa nella serata del 12 marzo dall’Autorità, si spiega che la soglia indicata dal regolamento è quella di una flessione superiore al 10 per cento.

Ci si chiede, pertanto, per quale motivo Consob non abbia disposto la sospensione già dopo la giornata di borsa del 9 Marzo, in chiusura della quale la flessione dell’indice è stata superiore al 10% e moltissime blue chips hanno perso quasi il 20%. A conti fatti, confidando anche sulla proroga (“…un ulteriore periodo, non superiore ai due giorni di negoziazione successivi alla chiusura del secondo giorno di negoziazione”), la borsa italiana non avrebbe vissuto il suo giorno peggiore (nonostante le uscite della Lagarde), e nel frattempo si sarebbe potuta scoraggiare l’onda lunga dei ribassisti, che ad oggi hanno realizzato performance medie del 200% (e anche più) in una sola settimana.

Raffaele Jerusalmi

A monte di tutto, essendo chiara l’imminente escalation del contagio già durante il weekend del 7-8 Marzo, nessuno si sarebbe scandalizzato se le contrattazioni fossero state sospese anche per una settimana intera, come hanno fatto gli Stati Uniti all’indomani dell’11 Settembre. Ma l’AD di Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi, di fronte a chi gli chiedeva di farlo già a fine giornata del 9/3, rispondeva che “….Piazza Affari non ha chiuso neanche sotto i bombardamenti del ’42-‘45”.

A ben vedere, una emergenza così grave è stata gestita  nel modo peggiore da coloro che si sono rivelati, fino ad oggi, come i peggiori attori di governo dei mercati, inclini a ricevere ordini dall’Europa invece di proteggere il risparmio degli italiani. In tal senso, chiudere coraggiosamente la borsa italiana avrebbe costretto le altre borse europee a valutare la stessa scelta, mettendo Germania e Francia di fronte al fatto compiuto e, sulla scorta di un problema di tutti, costringendole a prendere una posizione chiara: per sé stessi o per l’Europa.

Pertanto, la pandemia del Covid-19 ci sta dando almeno tre insegnamenti: il primo è che gli italiani stanno già superando, con il buon senso e grande spirito di adattamento, gli effetti delle misure dettate dall’emergenza; il secondo è che dovranno farcela senza l’aiuto dell’Europa, e con l’ossequioso ministro Gualtieri (che esprime parole di ringraziamento per la Lagarde) al timone del ministero delle Finanze; il terzo, che è un corollario del secondo, è che l’Europa non esiste più nemmeno in quel che rimaneva nell’immaginario collettivo, e che la voglia di imitare il Regno Unito sarà sempre più forte.

Il denaro non ha fretta, e l’inflazione può essere una nostra alleata. Investire “a rate” sugli emergenti

Nonostante le sollecitazioni del sistema bancario a lasciare poca liquidità sui conti, il denaro detenuto in conto corrente è un vero e proprio strumento finanziario, capace di determinare il successo del vostro portafoglio (anche se, da solo, non rende nulla).

Negli ultimi 18 mesi, non pochi risparmiatori si sono accorti che molta attenzione si sta concentrando sui loro conti correnti. In particolare, sulla liquidità lasciata “a dormire” senza essere investita, fonte di un costo implicito che pesa, per via della “tassa” imposta dalla BCE alle banche, sui conti economici degli istituti. Di conseguenza, alcuni di essi (pochi, per la verità) hanno dovuto studiare come ribaltare sugli utenti questo costo, ed hanno cominciato ad applicare delle commissioni sulle giacenze oltre una certa soglia (in generale su quelle superiori a 5.000 euro); altri, invece, accortisi che una commissione sulla liquidità sarebbe stata impopolare anche per una larga fascia di clientela importante (quella private), hanno preferito aumentare “in sordina” i costi di altri servizi per compensare l’effetto BCE sui depositi.

Del resto, i dati dell’ABI (associazione bancaria italiana) evidenziano uno scenario preoccupante (per le banche): la liquidità parcheggiata senza essere investita né spesa è balzata a 1.577,3 miliardi di euro a novembre 2019. A questi  vanno aggiunti 240 miliardi investiti in obbligazioni con rendimenti prossimi allo zero. Rispetto al 2018, liquidità in conto corrente, certificati di deposito e pronti contro termine aumentano di oltre 116 miliardi di euro, pari a un +7,9%. Le grandi banche vorrebbero far confluire questa marea di liquidità sul risparmio gestito, come indicato di recente dal numero uno di Intesa (Carlo Messina).

Che l’epoca dei conti remunerati sia finita è ormai chiaro. Simmetricamente, ce lo dicono anche i mutui a tasso fisso, scesi al di sotto dell’1% annuo di interesse, anche per le lunghe durate. Una roba mai vista. Pertanto, è bene riflettere su cosa fare in un mondo con i tassi di interesse ridotti al minimo, ed in particolare scegliere se sia inevitabile approcciare con determinazione il mondo degli investimenti azionari, oppure – per coloro che ne sono impauriti – esaminare delle alternative senza violentare sconsideratamente la propria propensione al rischio.

Per scegliere bene, è necessario cominciare dai fondamentali, anche andando controcorrente, senza seguire la scia. Innanzitutto, è bene fare qualcosa che nulla a che vedere con i numeri, e cioè riesaminare per bene gli obiettivi, sedersi a tavolino e capire se il risparmio accumulato e/o da accumulare deve essere speso nel breve periodo oppure se può essere destinato, in tutto o in parte, a spese rinviabili nel tempo. Il dettaglio di cosa si vorrà fare del proprio denaro (viaggi intorno al mondo, casa al mare, auto/moto per noi e/o i figli, studi in altre città, oppure assolutamente nulla) è essenziale, e aiuterà a capire quale direzione intraprendere.

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Fatto questo, la strada è in discesa e, se non si è sufficientemente preparati in materia di Finanza, è bene farsi guidare da un principio tanto scontato quanto assoluto: il denaro non ha fretta. In poche parole, non c’è nessuna fretta di investire i risparmi “tanto per investirli”. Nello scenario attuale, con i titoli obbligazionari con rendimenti insignificanti (e con prezzi mai tanto alti come adesso), restare ancorati al mondo delle obbligazioni governative in euro è una faccenda che va pesata bene, al punto di pensare alla rinuncia verso questi strumenti di investimento. In un contesto come questo, infatti, la gestione della liquidità diventa fondamentale, perchè elimina, a parità di rendimento – cioè zero o quasi zero – il rischio di ribasso dei prezzi delle obbligazioni, nonchè il c.d. “rischio emittente” (la possibilità che chi ha emesso il titolo non sia in grado di rimborsarlo alla scadenza). In sintesi, bisogna pensare al denaro detenuto in conto corrente come ad un vero e proprio strumento finanziario, ed è proprio la sua natura di Asset Finanziario che, ad esempio, consente ai gestori dei fondi – in particolar modo di quelli flessibili – di farne l’uso più appropriato. Anche loro, infatti, danno il giusto rilievo alla moneta liquida, gestendo un alto livello di liquidità e investendola “a rate”.

Qualunque gestore avveduto, soprattutto in occasione del lancio di un nuovo fondo comune (o Sicav) tiene una soglia di denaro liquido piuttosto alta, e investe periodicamente (“a rate”) le cifre a disposizione, in base alla visione dei mercati, lasciando sempre una “soglia tecnica di liquidità” che aiuterà a ridurre gli errori, a limitare lo “stress da timing di ingresso”. Questa tecnica di investimento “a rate differite” è accessibile a tutti, e prevede il raggiungimento di un elevato grado di consapevolezza dell’investitore in tempi brevi; come, quando e quanto differire gli investimenti, naturalmente, sono decisioni che derivano dal confronto consapevole con un consulente patrimoniale, che conosce lo scenario in cui ci siamo trovati fino ad oggi: un mondo con bassa (o addirittura senza) inflazione.

I tedeschi ed i francesi, com’è noto, hanno da sempre terrore dell’inflazione, ma la loro eccessiva prudenza non è più giustificata. Infatti, l’inflazione senza controllo successiva all’entrata in vigore della moneta unica ci ha portati rapidamente verso uno scenario da incubo: prezzi dei beni sempre più alti, reddito effettivo sempre più basso, tassi di interesse pari a zero ed assenza di inflazione, che rende costante il valore dell’indebitamento reale (anche di quello italiano). Di contro, al di fuori dell’UE, esistono paesi in via di sviluppo (c.d. emergenti) con una economia robusta, dove l’inflazione è abbastanza elevata (ma non impazzita). In questi paesi le obbligazioni a tasso fisso non governative in valuta locale, come quelle emesse dalla B.E.I. (Banca Europea degli Investimenti, rating AAA perenne), garantiscono cedole generose (anche superiori al 10% annuo) nel medio-lungo periodo, ed assicurano un certo livello di copertura sul cambio se viene attuata una opportuna diversificazione tra le differenti valute (nell’estate 2018, ad esempio, le obbligazioni in Lira Turca erano arrivata a perdere circa il 60.00% contro Euro e dollaro Usa, ma chi ha acquistato a settembre 2018 oggi ha quasi raddoppiato il capitale grazie al doppio effetto positivo prezzo-cambio).

In più, trattandosi di emissioni c.d. sovranazionali, questi bond permettono di ottimizzare la ritenuta fiscale sugli interessi, abbattendola al 12.5% (anziché 26.0%, meno della metà).

Pertanto, per creare flussi di reddito soddisfacenti, chi detiene risparmio oggi dovrebbe indirizzare la componente non liquida lontano dall’U.E.. Più precisamente, in quelle aree geografiche in cui, a fronte di una economia in espansione (come era quella nostra negli anni ’60, ’70 e ’80), il tasso di inflazione è sufficientemente elevato da consentire una più elevata remunerazione del capitale investito: Messico, Turchia, India, Cina, Sud Africa etc.

Sotto una guida esperta, investire in un mix di liquidità e obbligazioni denominate in valute c.d. emergenti (peraltro, con il vantaggio di contare su un rating elevato, al fine di scongiurare il c.d. rischio emittente) non deve essere più un tabù, e consente di evitare l’approccio forzato verso le azioni, o quanto meno di ridurlo. Inoltre, per chi non ama le commissioni del risparmio gestito, questi portafogli hanno un costo di mantenimento annuale inferiore anche del 75% rispetto all’universo fondi-sicav-gestioni patrimoniali, tanto da consentire il pagamento di una commissione/parcella di consulenza evoluta al professionista del risparmio che farà da guida in questo nuovo territorio.

Nell’attuale congiuntura economica, in definitiva, è meglio farsi un giro all’estero (finanziariamente parlando…) ed investire gradualmente laddove l’inflazione non è senza controllo ma non fa paura. Aspettando con ansiosa speranza che, un giorno non troppo lontano (Germania e U.E. permettendo), faccia ritorno anche da noi.

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