Settembre 19, 2025
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Consiglieresti a tuo figlio di svolgere la tua professione? Due consulenti finanziari su tre rispondono di sì

Un interessante sondaggio su un campione significativo di consulenti finanziari svela la passione per il proprio lavoro ed il desiderio di trasmetterlo ai figli. Nicola Scambia: “indagine utile in questa fase di forte incertezza e di grandi cambiamenti, che inevitabilmente toccano da vicino sia i consulenti che i clienti”.

Due consulenti finanziari su tre consiglierebbero la propria professione ai figli, mentre sette su dieci investono di tasca propria per la formazione professionale. Sono i risultati del sondaggio creato da Nicola Scambia*, consulente finanziario, scrittore e delegato sindacale di Federpromm, la federazione dei consulenti finanziari, del credito e delle assicurazioni.

L’indagine è stata condotta su una piattaforma online e, come premio di partecipazione, Scambia ha ideato un calendario 2021 incentrato sulla professione del consulente finanziario, raccogliendo un campione di 300 professionisti della finanza che hanno risposto alle dieci domante del questionario (a metà strada tra il personale e il professionale).

Il quadro complessivo che emerge è confortante: il 97% dei partecipanti sostiene di riuscire sempre a fare quello che interessa ai clienti, evitando accuratamente ciò che più “conviene” alle loro tasche, il 96% di avere il coraggio delle proprie scelte e il 90% di suggerire gli strumenti finanziari migliori in circolazione. Inoltre, il 95% di essi ha sempre il coraggio di affrontare le “note dolenti”, ossia gli investimenti rivelatisi meno redditizi tra quelli effettuati nell’interesse dei propri clienti.

Andando sul personale, ed in particolare nel bilanciamento tra lavoro e famiglia, il 78% dei consulenti interpellati dichiara che non rinuncerebbe mai ad una cena fissata con la propria compagna in cambio di una convocazione imprevista del proprio direttore commerciale, e il 67% afferma convintamente che farebbe fare volentieri il proprio lavoro ai figli.

Relativamente alla formazione, il 74% degli intervistati dichiara di investire di tasca propria, il 19% di farlo soltanto in qualche occasione e il 7% di affidarsi unicamente ai corsi gratuiti proposti dalle società mandanti e/o dalle associazioni di categoria.

“Ho sempre investito molto nella relazione con i colleghi”, spiega Scambia, “e l’approccio ludico, rappresentato dal connubio tra sondaggio e calendario, è stata una buona idea per tastare il polso ai consulenti finanziari in questa fase di forte incertezza e di grandi cambiamenti che inevitabilmente toccano da vicino sia loro che i clienti. Il calendario, autofinanziato interamente dal sottoscritto,  è un piccolo compendio di “dritte” e di consigli pratici, frutto della mia esperienza trentennale nel settore,  ed i 300 consulenti finanziari che hanno partecipato al sondaggio lo riceveranno direttamente a casa, mentre chiunque potrà riceverne una copia digitale scrivendo a ns@nicolascambia.net (precisando l’oggetto: richiesta Calendario JACKFLY). 

* Autore di “Jackfly”, primo romanzo di successo sui consulenti finanziari, e di un tascabile “Guadagnare in fondi oggi”

Consulenti finanziari senza confini. Claudio Candotti: credo negli studi associati e nella consulenza globale

I consulenti finanziari “senza confini” sono professionisti di lungo corso, molto richiesti da una clientela di alto livello per via della competenza acquisita negli anni. Patrimoni&Finanza ha intervistato Claudio Candotti, il “pioniere” della Consulenza Patrimoniale in Italia, chiedendogli di raccontare la sua storia professionale.

Intervista di Alessio Cardinale

Quella del consulente finanziario, fin dagli inizi, è sempre stata una professione molto dinamica, fatta di incontri e relazioni al di fuori dell’ufficio, ma negli ultimi 10 anni consulenti e clienti si siano abituati ad incontrarsi presso le filiali (o centri finanziari), sulle quali le banche-reti hanno investito molto per fidelizzare sia gli uni che gli altri. Tra i professionisti, però, resiste una nutrita schiera che preferisce incontrare i clienti presso la loro abitazione o la sede dell’impresa, anche se queste dovessero trovarsi a mille chilometri di distanza. Si tratta dei “consulenti finanziari senza confini geografici”, e cioè di quei professionisti della consulenza patrimoniale che hanno fatto dell’auto, del treno e/o dell’aereo il proprio mezzo ordinario di collegamento con il proprio portafoglio clienti.

Patrimoni&Finanza ha intervistato alcuni di loro, chiedendo di raccontare la propria esperienza a beneficio dei colleghi più giovani – i c.d. MiFID advisers – e, perché no, di quelli meno giovani ma desiderosi di conoscere la loro storia. Abbiamo incontrato Claudio Candotti, classe 1968, iscritto all’albo (oggi Organismo Unico) dei consulenti finanziari dal 1993, che in 27 anni di carriera ha costruito un proprio modello di business – è l’antesignano in Italia della c.d. Consulenza Patrimoniale “in rete”, ossia quella effettuata in team con gli altri professionisti del patrimonio – capace di fargli raggiungere risultati ai massimi livelli (se non il più alto, in Italia) in relazione al valore del portafoglio clienti. Il suo segreto è stato quello di lavorare in partnership con i più importanti studi professionali e di consulenza aziendale d’Italia.

Claudio, che ricordi ha dell’epoca in cui ha cominciato ad occuparsi di Consulenza Finanziaria?

Ho iniziato questa attività nel 1993. I risparmi erano appannaggio delle banche tradizionali, che attraverso i borsini collocavano prodotti finanziari come titoli di Stato, P/T, obbligazioni bancarie. La consulenza finanziaria era chiamata Promozione finanziaria, e i promotori finanziari erano meri collocatori di prodotti, identificati dal mercato e da molti clienti come i venditori di quelle attività di investimento buone per ricercare alto rendimento e finalità speculative. La concorrenza era spietata, e c’era una vera caccia grossa al cliente ricco e spregiudicato, a cui molti colleghi impreparati o scorretti facevano false promesse. Ma c’erano anche i clienti senza alcuna competenza ed esperienza finanziaria, che venivano spesso circuiti per l’acquisto di prodotti ad alte commissioni di sottoscrizione e poco valore gestionale. La cultura della consulenza apparteneva a pochi promotori, e non veniva percepita quasi da nessuno come un valore aggiunto. Per fortuna, però, sul mercato c’erano delle eccezioni, ovvero delle banche o delle Sim che avevano istituito delle accademy, e che formavano risorse (con o senza laurea) con spiccate attitudini alla relazione ed alla cura del cliente, gettando così le basi per quella che oggi, indiscutibilmente, è diventata la vera Consulenza Finanziaria.

Cosa le manca di quel periodo?

La forte effervescenza che animava il settore e le tantissime idee innovative di business, di prodotto e di mercato che, se sapute cogliere e sfruttare, potevano fare la differenza per coloro che le avessero cavalcate.

Ha avuto dei modelli da seguire, dei colleghi che l’hanno ispirata, oppure ha imparato gradualmente dai propri errori?

Ho capito fin da subito che bisognava avere dei benchmark di assoluto valore a cui tendere. Ho individuato i migliori due consulenti della Sim per la quale ho iniziato a lavorare e mi sono messo al loro servizio come autista, segretario e portaborse, ricevendo in cambio la possibilità ed il privilegio di poter presenziare come loro “assistente” agli incontri con i più importanti clienti. In questo modo, ho appreso quali sono le esigenze e gli obiettivi dei clienti più patrimonializzati, di quelli Istituzionali, di professionisti e manager d’azienda; ho imparato a differenziare la comunicazione e le offerte per soddisfare clienti molto diversi tra loro.

Quali sono stati i punti di svolta della sua carriera?

Avere capito, grazie a queste bellissime esperienze, che bisognava investire e canalizzare tutte le energie professionali su un target di clientela molto alto, per diventare più velocemente un consulente importante e di successo.

Quando ha cominciato a sviluppare clientela al di fuori della sua città, e come è avvenuto (volontà, il caso, la fortuna, le referenze di un amico…)?

Ho cominciato ad incontrare clientela di altre città lavorando come advisor finanziario di alcuni blasonati studi legali/fiscali romani che accompagnavano importanti aziende italiane in attività di internazionalizzazione produttiva e commerciale. Curavo per loro la parte finanziaria del business plan che servivano per ottenere finanziamenti ed agevolazioni pubbliche. Ho così conosciuto imprenditori e professionisti che operavano in tutta Italia, che poi mi hanno richiesto in modo diretto consulenze per loro o per i loro importanti clienti nell’ambito della gestione di patrimoni, nella gestione di tesorerie aziendali o di investimento delle immobilizzazioni finanziarie.

In quali città è presente oggi la sua clientela?

Un alto numero. Le città principali sono Milano, Torino, Venezia, Napoli e Bari.

Lei è un pioniere della c.d. Consulenza Patrimoniale, quella che si occupa di tutto il patrimonio dei clienti, e non solo delle loro disponibilità finanziarie. Può raccontarci come ha costruito il suo personale modello di business?

Ho studiato ed acquisito nel tempo competenze distintive in ambiti diversi: corporate, fiduciarie, fiscali, assicurative, legate a leggi agevolative o contributive su investimenti o attività di internazionalizzazione, sulla clientela Istituzionale. Queste competenze mi hanno permesso di essere, in ogni ambito, un punto di riferimento dei miei clienti, i quali mi hanno tenuto al loro fianco ogni qualvolta dovessero intraprendere o gestire attività che riguardavano le loro famiglie e le loro imprese.

Il periodo che stiamo attraversando ha messo a dura prova la tenuta delle relazioni con i clienti durante il lockdown. Lei come si è attrezzato?

Ho avuto la fortuna e l’abilità di far uscire tutti i miei clienti dagli investimenti azionari tra gennaio e febbraio, perché pensavo che i mercati fossero cari. Quindi, con molta liquidità a disposizione, ho chiamato di mia iniziativa ogni cliente durante la fase più critica della caduta dei mercati condividendo e pianificando con loro una strategia di forti acquisti a prezzi molto convenienti. Questo è stato il principale, e direi sostanziale modo per essere vicino ai  miei clienti.

Che posto ha la tecnologia nella sua professione?

Lavoro per Banca Widiba, che ha fatto della tecnologia il suo valore distintivo. Ho imparato ad usarla e a sfruttarla a vantaggio del mio business e dei miei clienti. Penso che sia ormai uno strumento fondamentale e insostituibile per la professione di un consulente finanziario.

Come vede la sua professione tra dieci anni, e come si vede lei?

Penso che questa professione subirà nuove profonde trasformazioni. Credo negli studi associati tra consulenti finanziari e tra questi e professionisti di altri settori, avvocati, fiscalisti, notai, agenti immobiliari. Credo nella consulenza globale e nel cross selling sulla clientela. Credo nel wealth management, nelle specializzazioni professionali in attività di consulenza di nicchia, ad alto valore aggiunto, che possano essere remunerate a parcella. Spero che mi venga permesso di lavorare in questo nuovo contesto per massimizzare le mie esperienze e competenze e metterle al servizio anche di altri.

Storia della Consulenza Finanziaria in Italia. Dagli anni Ottanta ai giorni del Covid

(SECONDA PARTE) Dal lunedì nero del 19 Ottobre 1987, passando per il crollo del Nasdaq nel 2000, e poi ancora dall’11 Settembre e dalla grande crisi del 2008, la professione del consulente finanziario è riuscita a svilupparsi e a prosperare fino ai giorni nostri. I giorni del Covid.

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(SEGUE DALLA PRIMA PARTE) Durante tutti gli anni Ottanta si verifica un notevole incremento di appartenenti alla categoria, grazie al modello di business “piramidale” e ad un numero sempre maggiore di clienti interessati alla nuova offerta di servizi finanziari non distribuiti dalle banche. Le reti, nel frattempo, cominciano a diversificare la propria offerta, che si struttura adesso su tre categorie di base: fondi azionari, bilanciati ed obbligazionari.

Oggi sembra un’inezia, ma questa primordiale segmentazione – a cui corrispose una altrettanto primordiale applicazione del principio di diversificazione degli investimenti anche nel risparmio gestito – fu allora una specie di rivoluzione, che consentì ai consulenti dell’epoca non solo di moltiplicare a dismisura le opportunità di acquisire clienti e incamerare nuove commissioni, ma anche di riuscire a gestire eventi di borsa catastrofici come il famoso “Lunedì nero” del 19 Ottobre 1987. Inoltre, grazie a questa suddivisione il mercato dei fondi comuni di investimento, prima venduti ad una nicchia di risparmiatori desiderosi di cimentarsi nel preistorico mercato azionario italiano per  limitare i rischi, si aprì anche alla classe media.

ANASF, in quegli anni, si adopera per dare vita ad un nuovo organismo di vigilanza dedicato alla certificazione dei servizi finanziari offerti al pubblico dei risparmiatori, anche perché la raccolta delle reti si attestava già sui 2.500 miliardi (in lire del 1981, ossia circa 5,7 mld di euro odierni), ed i risparmiatori che avevano sottoscritto fondi comuni di diritto estero, certificati immobiliari e gestioni patrimoniali erano già circa 300.000.

Negli anni successivi, una spinta poderosa al settore veniva data sia dall’istituzione dei fondi comuni di investimento italiani, sia dalla regolamentazione della sollecitazione del pubblico risparmio, giunta nel 1990 con un Albo ufficiale che permetteva finalmente ai risparmiatori di poter riconoscere con certezza gli operatori autorizzati ad effettuare proposte di investimento.

Con l’istituzione dell’Albo, però, la definizione di consulente/agente finanziario lasciava il posto a quella di Promotore di servizi finanziari, dal momento che la consulenza finanziaria diventava ope legis un’attività riservata alle sole Sim, distinta dalla sollecitazione del pubblico risparmio.

Il regolamento della Consob concernente l’Albo e l’attività dei promotori di servizi finanziari veniva adottato con deliberazione n. 5388 del 2 luglio 1991 (con operatività a partire dal 5 gennaio 1992) ed è rimasto in vita fino al 2018, anno in cui L’albo unico dei consulenti finanziari passava sotto la gestione dell’Organismo Unico OCF (LIBRO XI, Parte III del regolamento Consob n. 20307/2018).

Gli anni ’90 sono stati, senza ombra di dubbio, gli anni della crescita dei consulenti finanziari e del nuovo modello di business della “banca-rete”, ossia della banca a servizio dei promotori. Fideuram è il precursore di questo processo di trasformazione commerciale, e trasforma la sua SIM in banca, aprendo un buon numero di filiali nelle maggiori città italiane, laddove si concentrava maggiormente la ricchezza e cimentandosi per prima nel reclutamento dei bancari che, forti del contatto e della fiducia della clientela, volessero valutare l’accesso alla professione.

Nonostante il modello Fideuram venisse immediatamente seguito da altre realtà del settore, durante questi anni di forte sviluppo una insana decisione di natura politica portava alla eliminazione della figura del praticante, ruolo indispensabile per un costante ricambio generazionale e, quindi, per la “continuità della specie” degli ex promotori, colpiti oggi da un elevato indice di invecchiamento e da una ineluttabile riduzione degli appartenenti alla categoria già nei prossimi cinque anni. L’età media dei professionisti, infatti, si è innalzata senza freni, e rappresenta adesso la principale barriera all’entrata di risorse umane con portafoglio clienti da creare ex novo.

In molti oggi cominciano a chiedersi il perché di questo enorme errore di valutazione, anche perché gli utili a profusione di quegli anni (e di quelli successivi) avrebbero consentito alle banche-reti di continuare ad investire con scioltezza nella selezione dei migliori praticanti promotori.

Tra il secondo ed il terzo millennio, superata la paura del Millennium Bug (chi se lo ricorda?) e lo shock del famigerato 11 Settembre 2001, si è andati spediti verso il 2007-2008, anno in cui due eventi fondamentali hanno scosso fin dalle fondamenta la categoria dei consulenti finanziari: la crisi mondiale innescata negli USA dalla bolla dei mutui (e dei titoli) c.d. subprime, e l’avvento della MiFID I, che introducendo il divieto di duplicazione dei regimi commissionali (gestioni patrimoniali e fondi di fondi) portava ad una “sforbiciata” del reddito dei promotori in misura pari al 35-40%, facendo nascere nei consulenti l’esigenza di aumentare il proprio portafoglio medio.

Negli anni successivi al 2008, le reti hanno consolidato il proprio modello di business e, complice la nuova era dei tassi di interesse prossimi allo zero, i promotori hanno aumentato notevolmente le masse investite nel risparmio gestito, diventato così  l’insieme di strumenti finanziari preferito da milioni di risparmiatori “orfani” del tasso fisso.

L’entrata in vigore della MiFID II introduce, tra le altre cose, un giro di vite sulle regole di trasparenza relative ai costi pagati dalla clientela. A ben vedere, si tratta di una riforma “calata dall’alto”, cioè dalle Istituzioni che governano l’Offerta (e non dalla Domanda, cioè i clienti), e ciò porta necessarie trasformazioni ma anche autentiche distorsioni (tra le prime, una ulteriore riduzione dei ricavi dei consulenti).

Nell’anno della MiFID II, i promotori tornano ad essere chiamati consulenti, e oggi all’Organismo Unico sono iscritti, in tre distinte sezioni, i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, i consulenti finanziari autonomi e le società di consulenza finanziaria. (L’albo e le modalità di iscrizione alle tre sezioni sono pubblicati sul sito dell’OCF https://www.organismocf.it). Pertanto, grazie a questa riforma il “piccolo/grande universo sconosciuto” dei consulenti c.d. indipendenti riceve la dignità che molti attendevano, e i mesi successivi vedono gradualmente lievitare sia il numero dei singoli professionisti, sia quello delle società di consulenza (le SCF). Inoltre, con le delibere n. 20503/2018 e 20704/2018, sono state trasferiti dalla Consob all’OCF i poteri sanzionatori e di vigilanza sulle tre categorie di consulenti finanziari.

Il 2019 scorre con lo spauracchio della nuova rendicontazione da inviare alla clientela (paura poi rivelatasi del tutto superflua), e proprio mentre ci si preparava ad un 2020 di “ordinario sviluppo” e nuova raccolta, arriva la pandemia di Covid-19. Si tratta di un evento ancora in corso, di cui oggi non si intravede la soluzione e che accomuna tutta la popolazione mondiale all’interno di nuove modalità di relazione (social distance) e stringenti regole di vita.

Tuttavia, nonostante il ritorno alla normalità sia ancora lontano, sono molteplici le profonde trasformazioni che la pandemia ha determinato anche nella professione di consulente finanziario, il quale ha dovuto anticipare di qualche anno –  insieme ai propri clienti – una evoluzione dei costumi professionali che, in tutta probabilità, si sarebbe verificata solo con le nuove generazioni di clienti (e di consulenti). In particolare, si è reso necessario tornare ad esplorare le tecniche di marketing operativo, adattandolo alle circostanze, rese necessarie del “dialogo a distanza” con la clientela effettiva e, soprattutto, con la clientela potenziale, la quale adesso va cercata utilizzando gli strumenti della tecnologia.  

Questo ritorno allo studio e all’approfondimento dei temi della “vendita” – da adattare alla comunicazione a distanza, anche video – ci riporta prepotentemente al passato, e ci fa sentire nuovamente figli, nipoti e pronipoti di Bernie Cornfeld e della sua “visione”. Nonostante oggi si dibatta ancora sul suo vero ruolo di presunto truffatore o di vittima della buona fede e dell’inesperienza, del visionario Bernie Cornfeld i consulenti di oggi conservano intatto il suo “corredo genetico” fatto di spirito di iniziativa, diplomazia, attitudine al problem solving, capacità di ascoltare, coraggio e spregio della fatica. Tutto questo consentirà ai consulenti di essere pronti, quando la pandemia troverà la sua fine, per cavalcare la grande ripresa mondiale delle relazioni; per cui, anche oggi, è fondamentale non perdere mai la nostra personale “visione”, proprio come il nostro avo a stelle e strisce, perché il rapido avverarsi delle circostanze potrebbe coglierci impreparati.

Consulenti finanziari senza confini geografici. Ennio Giganti, dall’Italia all’Europa, con lo Sport nel cuore

I consulenti finanziari “senza confini” sono professionisti di lungo corso, con una significativa esperienza alle spalle ed oggi molto richiesti da una clientela di alto livello per via della competenza acquisita negli anni. Patrimoni&Finanza ha intervistato alcuni di loro, chiedendo di raccontare la loro storia personale.

Da una storica dinamicità di contatto all’esterno, la professione del consulente finanziario  si è gradualmente “bancarizzata”, e negli ultimi 10 anni consulenti e clienti si siano abituati ad incontrarsi presso le filiali (o i centri finanziari) sulle quali le banche reti hanno investito molto per fidelizzare sia gli uni che gli altri. Tra i professionisti, però, resiste una nutrita schiera che ha deciso di dare continuità al “vecchio rito” dell’incontro presso l’abitazione del cliente. Si tratta dei “consulenti finanziari senza confini geografici”, e cioè di quei professionisti della pianificazione patrimoniale che hanno fatto dell’auto, del treno e/o dell’aereo il proprio mezzo ordinario di collegamento con le persone a cui prestano abitualmente consulenza.

Si tratta per lo più di consulenti “di lungo corso”, con una significativa esperienza alle spalle risalente agli albori della promozione finanziaria (1992-93), e che oggi sono molto richiesti per via della competenza acquisita. Patrimoni&Finanza ne ha intervistato alcuni, chiedendo loro di raccontarsi a beneficio dei colleghi più giovani – i c.d. MiFID advisers – e, perché no, di quelli meno giovani ma desiderosi di conoscere la loro esperienza.

Abbiamo incontrato Ennio Giganti, classe 1964, iscritto all’Albo (oggi Organismo Unico) dei consulenti finanziari dal 1993.

Ennio, che ricordi ha dell’epoca in cui ha cominciato ad occuparsi di Consulenza Finanziaria?

Il lavoro era decisamente diverso. Si vendevano solo pochissimi fondi comuni, polizze vita e certificati di deposito che avevano tassi a 2 cifre e che permettevano il raddoppio del capitale investito dopo appena 5 anni. Le polizze con caricamenti provvigionali al 75% servivano per fare sbarcare il lunario ai nuovi promotori, si parlava poco di diversificazione di portafoglio, la formazione era affidata a colleghi con maggiore anzianità o, più raramente, a professori universitari di Economia che del nostro mestiere non sapevano assolutamente nulla.

Cosa le manca di quel periodo?

La semplicità nel processo di acquisizione e amministrazione della clientela. C’era meno burocrazia, la profilatura del rischio era frutto di scelte esclusivamente condivise con il cliente e la nostra principale attività era quella di fare clientela nuova. Oggi, invece, siamo costretti ad occupare il 70% del nostro tempo in mansioni amministrative, e a dedicare minore attenzione alla parte commerciale, di marketing e di pubbliche relazioni.  

Ha avuto dei modelli da seguire, dei colleghi che l’hanno ispirata, oppure ha imparato gradualmente dai propri errori?

in realtà, siamo sempre stati abituati al fai da te, ricevendo da parte delle società mandanti solo una iniziale formazione commerciale. Tutto il lavoro che sta dietro alla ricerca di clientela, per quanto mi riguarda, è stato sempre progettato e messo in pratica grazie alla mia personale iniziativa e, soprattutto, al passaparola, che nel mio caso, ha permesso di ricevere molte gratificazioni.

Quali sono stati i punti di svolta della sua carriera?

Non c’è mai stato un preciso momento di svolta, perchè ho costruito giorno dopo giorno relazioni professionali che poi consolidate nel tempo, che mi hanno portato a trovare clientela a volte anche senza doverla cercare. Per un consulente finanziario, ciò che conta è non smettere mai di alimentare l’attività di relazione con i clienti e con coloro che ancora non lo sono: alcuni non lo diventeranno mai, ma altri sì. E’ la regola fissa di cui ogni ex promotore dovrebbe ricordarsi ogni tanto, prima di chiudersi in ufficio.

Quando ha cominciato a sviluppare clientela al di fuori della sua città, e come è avvenuto (volontà, il caso, la fortuna, le referenze di un amico…)?

Nella nostra professione, nulla avviene per caso, e probabilmente la mia passione per i viaggi, e le referenze di amici e clienti, hanno pesato molto sulla scelta di sviluppare nuovi clienti al di fuori della mia città (Palermo, ndr). Sicuramente, se stai dietro la tua scrivania, nessuno busserà alla tua porta chiedendoti consigli su come investire, quindi la catena di contatti da alimentare quotidianamente è la cosa indispensabile, da associare ad altre caratteristiche come la puntualità, la professionalità e la disponibilità a spostarsi anche per esigenze dalle quali non derivi un introito economico immediato, perché da un incontro di natura squisitamente amministrativa, come quello che serve a risolvere un problema tecnico correlato ad un investimento già in corso, può sempre scaturire la segnalazione di un primo contatto con un potenziale cliente, amico o parente di quello che sei andato a trovare. Ricevere referenze aiuta moltissimo.

In quali città è presente oggi la sua clientela?

Dal punto di vista geografico, ci sono almeno due continenti nel mio portafoglio, Europa e USA. Dagli americani con doppia nazionalità agli svizzeri italiani. In Italia maggiore concentrazione in Sicilia e Lazio, ed in Europa diverse posizioni tra il Regno Unito e la Germania, ma sempre inerenti a famiglie Italiane con doppia residenza, emigrate decenni fa dal piccolo centro in provincia di Palermo da cui ha origine la mia famiglia.

Il periodo che stiamo attraversando ha messo a dura prova la tenuta delle relazioni con i clienti durante il lockdown. Lei come si è attrezzato, anche per eventuali future restrizioni?

Attraverso la comunicazione a distanza, video telefonate, e utilizzando in larga misura la consulenza a distanza e le firme digitali. Oggi l’80% della mia clientela è completamente digitalizzata, così come il mio archivio: niente più carta, neanche un grammo. Utilizzo moltissimo la tecnologia, e senza di essa non potrei più lavorare, ma la metto sempre in secondo piano rispetto all’attività di relazione.

Come vede la sua professione tra dieci anni, e come si vede lei?

Sarà sempre più smart e ulteriormente votata alla tecnologia. Forse torneremo ad avere più tempo da dedicare alla relazione interpersonale, che rimane insostituibile con una certa fascia di clientela, quella più interessante e oggi più patrimonializzata. La nostra professione richiede un certo livello di apertura mentale al cambiamento, per cui ci dovremo adattare alla clientela più giovane, quella degli attuali trentenni e quarantenni, che hanno caratteristiche totalmente diverse dai loro genitori e, entro pochi anni, li sostituiranno nella gestione del patrimonio familiare. Si tratta di persone con un elevato grado di utilizzo della tecnologia, con competenze maggiori in termini di educazione finanziaria e con un approccio al risparmio sensibilmente differente rispetto alla generazione degli attuali sessantenni. Per cui, la comunicazione sarà più immediata, così come i tempi richiesti per l’elaborazione di soluzioni di investimento. Io mi vedo come adesso, diviso tra la professione di consulente finanziario e la passione sviscerata per il nuoto e lo Sport in generale, che pratico ancora a livello agonistico e che mi aiuta sia in termini di energie personali, sia nelle pubbliche relazioni.

Di padre in figlio. Storie di consulenti finanziari e di passaggi generazionali: Giuseppe e Fabio Gulotta

La continuità familiare nella professione di consulente finanziario si snoda oggi attraverso due generazioni, quella dei babyboomers e dei millennials, molto diverse tra loro ma allo stesso tempo unite da un mestiere che si impara sui libri, al telefono, in automobile, a casa dei clienti, ma soprattutto attraverso il confronto quotidiano con i colleghi più anziani. E quando uno di questi è tuo padre, nasce subito una storia. Anzi, due.

Nata alla fine degli anni ’70 come la sfida di un visionario (Bernard Cornfeld, fondatore dell’IOS, Investors Overseas Services, il cui ramo italiano era la nascente Fideuram), la professione del consulente finanziario – prima consulente, poi promotore ed infine di nuovo consulente – ha sempre avuto una forte connotazione commerciale, che si è andata un po’ perdendo negli ultimi 10-15 anni ma conserva ancora un posto speciale nell’attività quotidiana del consulente, soprattutto in relazione alla capacità di aprire nuovi mercati ed acquisire nuova clientela.

Un altro aspetto importante di questa professione – per alcuni, il più importante di tutti – coincide con la facoltà del professionista di poter trasmettere ai propri familiari il portafoglio clienti una volta raggiunta l’età pensionabile, così come nelle altre professioni. Non è un segreto, pertanto, che ogni consulente di “lungo corso” abbia pensato (o stia pensando) di poter passare il testimone, un giorno, ai propri figli, compiendo così il c.d. passaggio generazionale. In relazione alla categoria dei consulenti, quello del ricambio generazionale è un tema di cui si è cominciato finalmente a dibattere per via della elevata età media dei professionisti (57 anni circa) e, pertanto, dell’avvicinarsi del momento in cui, a cominciare dal 2025, un gran numero di consulenti anziani lascerà ogni anno la professione, trasmettendo il portafoglio ai colleghi più giovani o ai figli.

Questo processo di passaggio è già cominciato, ma in misura ancora marginale, e chi è riuscito a trasmettere la clientela ai figli oggi ha una storia da raccontare, che si svolge a cavallo tra due generazioni molto diverse tra loro – quella dei c.d. babyboomers (nati tra il 1946 ed il 1964) e dei millennials (nati tra il 1981 ed il 1995) – ma unite dal fascino di un mestiere che si impara sui libri, al telefono, in automobile, a casa dei clienti e, in particolare, mediante il confronto con i colleghi più anziani. E quando uno di questi è il padre, le storie prima si intrecciano e poi diventano due. Quelle di Giuseppe e Fabio Gulotta, rispettivamente padre e figlio, ce la raccontano loro stessi, rispondendo alle domande di una intervista attraverso la quale sarà possibile viaggiare con la mente – per molti “anziani”, anche con i ricordi – lungo due epoche saldate indissolubilmente da una “scintilla”.

GIUSEPPE GULOTTA, CLASSE 1957, BABYBOOMER

Giuseppe, ci racconti quando si è avvicinato per la prima volta al mondo dei servizi finanziari, ed in che modo….

Mi occupavo già, per passione, della gestione del portafoglio dei miei genitori. Era il 1985, ed avendo letto della nuova legge che istituiva i fondi comuni di investimento di diritto italiano presi appuntamento con un consulente finanziario dell’allora Fideuram, che a quel tempo non era né una banca, né una SIM, ma faceva già parte del Gruppo IMI. Lì incontrai una mia vecchia conoscenza dei tempi della CGIL (ero dirigente sindacale), che oltre a propormi la sottoscrizione di un fondo mi chiese se avessi voluto lavorare come consulente finanziario (non era ancora stata coniata la definizione di “promotore”). Quella fu per me come una scintilla. Ne parlai subito con mia moglie, che mi incoraggiò, ed accettai la proposta, ma ricordo che non riuscivo a spiegare ai miei genitori in che cosa consistesse la professione che avrei svolto, e che mio padre mi ripetesse, con un po’ di preoccupazione, il classico monito “stai attento, perché  lasci il certo per l’incerto“.

Giuseppe Gulotta

Si è trattato del suo primo lavoro, oppure faceva già qualcos’altro ed ha voluto rischiare in un settore a quei tempi quasi sconosciuto?

Non era il mio primo lavoro. Ero sposato ed anche padre di un figlio piccolo, ma ero già affascinato dal mondo della finanza, e le prospettive di sviluppo professionale che avevo intravisto mi convinsero ad accettare la proposta, con la consapevolezza dei rischi a cui andavo incontro. In quell’epoca, erano in pochi a lasciare il “posto fisso” da impiegato e ad aprire una partita iva, con l’incognita del reddito. In molti mi consideravano un folle, ma io ho avuto ragione.

Cosa ricorda con più nostalgia di quell’epoca un pò pionieristica, e cosa le manca di più di quel periodo?

Erano gli anni in cui l’inflazione correva a due cifre, i titoli di stato superavano stabilmente rendimenti  del  10% e gli strumenti finanziari disponibili erano veramente pochi. La parte più coinvolgente era trovare soluzioni alle esigenze dei clienti, adattando ai loro bisogni i pochissimi strumenti finanziari che avevamo a disposizione. Però la relazione era basata sulla fiducia, e la comprensione dei prodotti di investimento passava quasi in secondo piano. Ci mettevamo davvero la faccia, nessuno di noi aveva il conforto e la tutela delle istituzioni bancarie, e la nostra parola valeva più del contratto che i clienti ci firmavano. Però molti di loro, con i fondi che distribuivamo, grazie ai rendimenti stellari che i primi boom di borsa riuscirono a conseguire, hanno potuto persino comprare la propria abitazione senza neanche il bisogno di stipulare un mutuo. Alcuni aprivano dei programmi di accumulazione da 50.000 lire al mese, e a volte li interrompevano perché non c’erano i RID bancari ed molti consulenti di allora spesso “si perdevano per strada” e cambiavano lavoro. E così a molti clienti, dopo alcuni anni, veniva comunicato che le piccole somme accantonate, di cui neanche ricordavano l’esistenza, erano letteralmente decuplicate. Tra loro ci sono, ancora oggi, i nostri migliori clienti.

Quali sono le differenze, tra passato e presente, nella relazione con il cliente?

Oggi forse manca la semplicità della relazione – da non confondere con facilità, quando ho iniziato io era difficilissimo fare contatti nuovi! – ed anche quella dei prodotti e dei servizi di investimento. Tutto si è complicato all’insegna della tutela dei risparmiatori, e se da un lato è stato un bene, dall’altro le normative hanno reso difficile il nostro lavoro, nel quale le soluzioni esasperatamente tecniche prevalgono su quelle dettate dal buon senso, dalla professionalità  e dalla competenza dei tanti addetti del settore. Inoltre, la tecnologia ha allontanato il primato dei rapporti umani, e questo non mi piace.

Quali sono state le tappe più importanti della sua carriera, lunga 33 anni, di promotore e consulente?

Riassumendo, nel 1986 partecipo ad un corso formativo indetto dalla Fideuram, e nel 1987 ufficialmente divento consulente finanziario. In quell’anno, ricordo che la borsa di NY perse in un giorno il 25% (il 19 ottobre), e quindi ho dovuto imparare subito il mestiere dal suo lato peggiore!  Dopo qualche anno, nel 1990, ho cominciato a svolgere anche l’attività formativa di supervisore dei nuovi colleghi, nel 1998 ho cambiato istituto bancario e, successivamente, anche l’incarico, occupandomi della formazione di tutta l’area Sicilia e della responsabilità commerciale dell’area. Da qualche mese, infine, mi occupo esclusivamente di  selezione e formazione per l’area Sicilia all’interno di un importante gruppo bancario europeo.

Generalmente quanto tempo ha dedicato alle relazioni interpersonali quotidiane con la sua clientela?

La relazione con i clienti è sempre stata la parte migliore di questa professione. Si diventava amici e “confessori” dei fatti più intimi della famiglia, una sorta di familiare aggiunto che era a conoscenza, come nessun altro, delle reali esigenze del cliente. A quei tempi, la spiegazione dei contratti e la raccolta delle firme era una parte molto marginale di tutta la relazione.

C’è stato un momento in cui, in particolare, ha capito che suo figlio avrebbe avuto le qualità per lavorare nel settore della Consulenza Finanziaria?

In realtà, Fabio era iscritto in biologia ed è un amante della natura, però notavo il suo interesse su alcuni aspetti della mia professione, soprattutto quanto fosse affascinato dalla relazione che instauravo con i clienti. Probabilmente sono questi i segnali che mi hanno fatto capire di poter compiere all’interno della famiglia il passaggio generazionale della clientela, senza soluzione di continuità.

Come ha supportato Fabio durante il periodo della “gavetta”, e quando ha deciso che era venuto il momento di assegnargli la clientela, o parte di essa?

Non è stato difficile. Lo accompagnavo dai clienti, quasi tutti lo conoscevano fin da bambino (Fabio è nato nell’89) e vedevano in lui la continuità del rapporto. Non c’è mai stato un solo aspetto critico da affrontare, e non ho dovuto adottare particolari strategie di comunicazione, perché i clienti hanno vissuto questa fase come un semplice avvicendamento, con la garanzia di un avere accanto un frutto nato da un albero buono.

In qualunque attività, il passaggio del testimone generalmente richiede una certa gradualità. Può stimare il periodo entro il quale la transizione si è completata, e la percentuale di successo in termini di conservazione del portafoglio clienti?

La transizione è avvenuta integralmente e con la gradualità necessaria, in funzione del rapporto con il cliente, e la consistenza del portafoglio ha richiesto la maturazione di un maggiore senso di responsabilità. In ogni caso, il passaggio è stato effettuato sotto la mia supervisione, che via via è andata scemando fino a non essere più necessaria. Oggi Fabio guida perfettamente la gestione del portafoglio, a cui ha aggiunto nuova linfa composta da clientela più giovane.

FABIO GULOTTA, CLASSE 1989, MILLENNIAL

Fabio, si ricorda il primo momento in cui ha sentito il desiderio di seguire le orme professionali di suo padre?

Ho cominciato un po’ per “gioco”. Iniziai a dare una mano mio padre durante l’estate, come fosse un qualunque lavoretto estivo prima di riprendere la routine da studente. Tutti i giorni lo seguivo in giro per clienti. Osservavo incuriosito come venisse accolto sempre a braccia aperte e con un sorriso, il modo pacato e preciso con cui gestiva le conversazioni, l’attenzione e la cura della relazione. Ecco, li scattò la scintilla, ed il desiderio di potermi rendere utile alle persone e relazionarmi con loro in qualità di consulente.

Fabio Gulotta

Ci racconti la sua gavetta….

E’ iniziata dentro un archivio, tra fotocopie e sistemazione di cartelle. Seguivo mio padre tra un cliente e l’altro, e cercavo di fare mio ogni momento importante della comunicazione. Nella nostra professione, proprio la comunicazione fa la differenza tra il successo e l’insuccesso, ed io cercavo di fare mia ogni sillaba ed ogni gesto. Contemporaneamente, studiavo per l’esame di iscrizione all’OCF, che ho superato nel 2013. Nel Gennaio del 2014 ho iniziato ufficialmente ad esercitare.

Come ha vissuto il confronto con suo padre, in termini professionali?

Probabilmente, chiunque abbia lavorato con il proprio padre potrà essere d’accordo con me nel riconoscere che a volte si fatica a uscire dalla dinamica “padre-figlio”, e questa è una dinamica naturale che va gestita con intelligenza. Ci ho messo un po’ prima di affermarmi come Fabio Gulotta consulente finanziario, e non più come “il figlio di”, ma il confronto con un professionista come mio padre non è facile e può diventare duro. Da buon sportivo, però, il confronto mi stimola e mi invoglia a crescere e a perfezionarmi, e oggi anche lui mi chiama per avere qualche suggerimento.

Quali sono state le problematiche più frequenti che ha riscontrato nella clientela durante il passaggio del suo portafoglio nelle sue mani?

Nulla va dato per scontato, e con clienti più avanti negli anni la giovane età, all’inizio, può non aiutare. La diffidenza nell’affidarsi ad un giovane con poca esperienza, in una professione come la nostra, è evidente. Per tale motivo, essere affiancato da un professionista esperto come mio padre è stata una fortuna, soprattutto nell’imparare le corrette modalità di approccio alla clientela e come “rompere il ghiaccio”. Naturalmente, tutto cambia quando devo relazionarmi con clientela giovane, come con i figli dei clienti, con i quali posso adottare un atteggiamento più diretto e parlare un linguaggio differente.

Secondo lei, i clienti hanno notato le inevitabili differenze di approccio professionale tra lei e suo padre? E come le hanno vissute?

Non penso che ci siano state difficoltà in questo. Ho imparato a relazionarmi nel modo in cui mio padre già faceva con loro. Costruisco la relazione su misura, e cerco sempre di mantenere la continuità dell’approccio con lo stile precedente, adattandolo alle mie caratteristiche.

Professionalmente parlando, si confronta ancora oggi con suo padre, oppure ha raggiunto un livello di autonomia e indipendenza tale da non averne bisogno?

Per risponderle, le riporto un esempio che ho preso dal mondo dello Sport. I maratoneti, durante la loro marcia, osservano le proprie gambe nelle vetrine dei negozi, perché dopo tanti km non hanno più la percezione del passo ed hanno bisogno di verificare visivamente il loro ritmo di marcia. Ecco, che sia il padre o un collega, ritengo fondamentale il confronto per poter avere certezza che il passo sia quello giusto. 

Che ruolo ha la tecnologia nel suo lavoro, rispetto alle relazioni interpersonali, e quanto tempo dedica a queste ultime nel quotidiano?

La tecnologia è un supporto importante, e in un momento storico come questo ancor di più. Utilizzo quasi totalmente strumenti digitali per la sottoscrizione dei contratti o l’assistenza alla clientela. La consulenza a distanza è fondamentale oggi più di ieri. Sicuramente le relazioni interpersonali non vengono meno, ma occorre riadattare il modo di assistere e di supportare i clienti, soprattutto alla luce dell’ emergenza sanitaria che stiamo vivendo.

Come vede oggi il suo futuro professionale tra dieci anni, e di cosa avrebbe bisogno la categoria dei consulenti finanziari per migliorare ancora la propria posizione nella Società?

Il mio, forse, è più un augurio che una previsione. Auspico un futuro fatto essenzialmente da consulenti finanziari mediamente molto più giovani di adesso. Oggettivamente, la nostra categoria ha un’età media elevata, e occorre che le nuove generazioni vengano avvicinate rapidamente alla professione. Personalmente, ho cominciato piuttosto presto, ed oggi mi ritengo fortunato ad avere una discreta esperienza nel mondo della Consulenza Finanziaria, nonostante i miei 31 anni. Però mi rendo conto di essere una “goccia nel mare”. Se non si interviene oggi , con azioni mirate e concrete, si rischia di avere un vuoto di professionisti nei prossimi anni, con ripercussioni negative per i clienti e per l’Economia. Sarebbe utile far interagire molto di più le due generazioni di consulenti, e restituire al settore nuove figure di coaching per far sì che la professione venga trasmessa anche alle generazioni che verranno dopo la mia. L’esperienza dei consulenti senior deve potersi incontrare con la voglia di conoscenza dei consulenti giovani e di quanti vorrebbero iniziare questa professione. Sono convinto che tutto ciò potrebbe essere di grande beneficio, oltre che per i clienti, anche per l’industria del Risparmio.

Consulenti finanziari senza confini geografici. Giuseppe Renda, da Palermo all’Italia con entusiasmo

I consulenti finanziari “senza confini” sono professionisti di lungo corso, con una significativa esperienza alle spalle ed oggi molto richiesti da una clientela di alto livello per via della competenza acquisita negli anni. Patrimoni&Finanza ha intervistato uno di loro, chiedendo di raccontarsi un pò.

Quella del consulente finanziario, soprattutto negli anni ’90 e all’inizio dei 2000, è sempre stata una professione molto dinamica, fatta di incontri e relazioni al di fuori dell’ufficio, e si può dire che solo negli ultimi 10 anni consulenti e clienti si siano abituati ad incontrarsi presso le filiali (o centri finanziari), sulle quali le banche-reti hanno investito molto per fidelizzare sia gli uni che gli altri. Tra i professionisti, però, resiste una nutrita schiera che ha deciso di dare continuità al “vecchio rito” dell’incontro presso l’abitazione (o la sede dell’impresa) del cliente, anche se questi dovesse trovarsi a mille chilometri di distanza. E’ il fenomeno – se così si può dire – dei “consulenti finanziari senza confini geografici”, e cioè di quei professionisti della pianificazione patrimoniale che hanno fatto dell’auto, del treno e/o dell’aereo il proprio mezzo ordinario di collegamento con le persone a cui prestano abitualmente consulenza.

Si tratta per lo più di consulenti “di lungo corso”, con una significativa esperienza alle spalle risalente agli albori della promozione finanziaria (1992-93), e che oggi sono molto richiesti da una clientela di alto livello per via della competenza acquisita. Patrimoni&Finanza ha intervistato alcuni di loro, chiedendo di raccontarsi a beneficio dei colleghi più giovani – i c.d. MiFID advisers – e, perché no, di quelli meno giovani ma desiderosi di conoscere la loro esperienza.

Abbiamo incontrato Giuseppe Renda, classe 1972, iscritto all’Albo (oggi Organismo Unico) dei consulenti finanziari dal 1995, che dalla Sicilia (Palermo) è riuscito a sviluppare clientela lungo tutto lo Stivale.

Giuseppe, che ricordi ha dell’epoca in cui ha cominciato occuparsi di consulenza Finanziaria?

I ricordi sono tanti, sicuramente due sono dominanti. Il primo riguarda il grande entusiasmo che caratterizzava il settore, il secondo è che la maggior parte delle persone non capiva quale fosse il nostro lavoro, abituata com’era ad avere contatti solo con la propria banca di fiducia. Ricordo che spesso si dedicava molto tempo a spiegare la nostra figura professionale ed il contenuto del nostro lavoro, prima di poter consigliare qualunque investimento.

2) Cosa le manca di quel periodo?

Le interminabili ore trascorse con i colleghi, talvolta fino a tarda sera, discutendo e dibattendo su questo o quel titolo, oppure sulle modalità più corrette ed efficaci per contattare nuova clientela. Si cercava di raccogliere informazioni, e di farsi un idea su come fare “auto-promozione”. I colleghi erano veramente un importante strumento di confronto, e probabilmente si commettevano più errori di attuazione del c.d. personal marketing, ma la struttura dell’offerta di strumenti finanziari era talmente ridotta rispetto ad oggi, che paradossalmente si imparava di più, e l’aspetto umano era fondamentale.

3) Ha avuto dei modelli da seguire, dei colleghi che l’hanno ispirata, oppure ha imparato dai suoi errori?

Se fosse possibile scomporre in fattori primi quello che sono oggi, sicuramente si troverebbero le tracce di tutte le persone che ho incontrato nella vita, e di tutti gli sbagli che ho commesso quando non riuscivo ad acquisire tutta la clientela che desideravo avere.

4) Quali sono stati i punti di svolta nella sua carriera?

Un giorno un amico, che purtroppo non c’è più, mi disse: “la fortuna o la sfortuna di uomo, la fa sempre un altro uomo”. Pertanto posso affermare che tutti i punti di svolta di cui la mia carriera ha beneficiato coincidono con la fiducia ricevuta da ogni singolo cliente. Sono proprio loro, in poche parole, i miei “punti di svolta”.

5) Quando ha cominciato a sviluppare clientela al di fuori della sua città, e come è avvenuto (volontà, il caso, la fortuna , le referenze di un amico o altro)?

Direi tutti questi elementi messi insieme, ma credo che l’elemento principale siano state le referenze degli amici e dei clienti, ossia il classico “passa parola”.

6) In quali città è presente oggi la sua clientela?

Principalmente Palermo, Milano e Roma, e Firenze in maniera inferiore anche se in forte crescita.

7) Il periodo che stiamo attraversando ha messo a dura prova la tenuta delle relazioni coi clienti durante il Lockdown . Lei come si è attrezzato?

La tecnologia, attraverso i suoi mezzi (chat, videochiamate etc), e la possibilità data dalla normativa con l’operatività a distanza, mi hanno dato un grande aiuto, soprattutto durante il periodo di chiusura totale e di impossibilità a spostarsi.

8) Che posto ha oggi la tecnologia nella sua professione?

Come dicevo, ha un posto molto importante. E credo, anche se ciò potrebbe sembrare contradditorio, che un uso corretto della tecnologia può rafforzare i rapporti umani. Basta pensare alla possibilità, offerta da molte app, di parlare e vedersi a distanza. Quest’ultima modalità adesso è entrata nell’uso comune di molte persone, anche di quelle più recalcitranti verso l’uso della tecnologia, con il risultato che ci si vede e ci si parla più spesso di prima. In video, magari, ma più di prima.

9) Come vede la sua professione tra dieci anni, e come si vede lei?

Dipende dalla capacità che avremo di educare le nuove generazioni ad un uso corretto della tecnologia e del web, ma anche al confronto attraverso le relazioni interpersonali. La Scuola, in questo, ha un ruolo importante, anche perché la famiglia, purtroppo, ha perso parte della sua centralità nella sua funzione educativa. In ogni caso, ognuno di noi ha il dovere di fare la sua parte. Spesso vedo giovani, giovanissimi e anche molti adulti avere come unico parametro di confronto il mondo virtuale, con le sue informazioni e le sue applicazioni, e questo non va bene. Sicuramente mi vedo impegnato nella missione di rivalutare i rapporti umani autentici, trasmettendo la mia passione verso l’aspetto umanistico delle relazioni, non disdegnando un corretto utilizzo dei mezzi di comunicazione virtuale.

Valerio Giunta: agenti e consulenti finanziari rilanciano l’Economia. Giusto il riconoscimento accademico

I consulenti finanziari  e gli agenti di commercio, con le dovute differenze, oggi lavorano già sfruttando  una notevole competenza sul corretto utilizzo di prodotti e servizi la cui conoscenza richiederebbe normalmente  una preparazione universitaria. Pertanto, serve una rapida rivoluzione in senso accademico della formazione che dà l’accesso a queste due professioni.

Valerio Giunta, imprenditore riminese attivo nel settore della selezione di agenti di commercio e consulenti finanziari, è candidato nella lista “Consulenti finanziari uniti in Enasarco” alle prossime elezioni (24 Settembre – 7 Ottobre 2020) per il rinnovo dell’Assemblea dei delegati della Cassa di previdenza.

Il suo programma elettorale è fondato sul pragmatismo più estremo – ben lontano dal clima infuocato che ha caratterizzato le ultime settimane di campagna elettorale tra gli agenti di commercio ed i consulenti finanziari – e rispetto a quello di molti altri candidati si distingue per peculiarità ed originalità: innalzare a rango accademico la professione di “venditore evoluto”, ossia di quella figura professionale che in Italia non ha trovato la stessa dignità di altri paesi industrializzati (USA in primis), che hanno basato sulla vendita l’ossatura principale della propria Economia.

La sua azienda (Startup Italia), vicina al milione di fatturato e condivisa con 21 collaboratori, è un agenzia di rappresentanza e da dieci anni è specializzata nel mondo del personale di vendita e nel settore delle reti di consulenza finanziaria. Già nel 2011 Giunta ha aperto diversi gruppi social (“AAAgents” e ”Consulenti Bancari e finanziari”, con rispettivamente 47 mila e 18 mila aderenti su Linkedin), che in occasione della sua candidatura all’Assemblea di Enasarco gli hanno consentito di amplificare la diffusione delle sue iniziative, trasformandolo da “outsider” a candidato con buone probabilità di successo. Di lui P&F ha già pubblicato una lunga intervista nel mese di Luglio, che riprendiamo lì da dove si è interrotta.

Dott. Giunta, come si è sviluppata l’idea di una dignità universitaria della professione di venditore?

La mia storia professionale, ormai da trent’anni, ruota attorno alle risorse umane, prima nel mondo cooperativo e poi nelle agenzie per il lavoro. Da 10 anni la mia azienda (Start Up Italia Srl) lavora in un settore molto delicato, quello della ricerca e selezione del personale, e durante il mio cammino imprenditoriale io e i miei collaboratori abbiamo potuto constatare che le aziende richiedono sempre di più una sorta di certificazione esterna del candidato. Nell’ambiente della Vendita, infatti, il diploma di laurea non è molto diffuso, e si sente l’assenza di quel circuito accademico che culmina con una laurea e che consentirebbe maggiore specializzazione e, di conseguenza, maggiore “peso” ai curriculum dei candidati, siano essi agenti o consulenti. Tale percorso accademico permetterebbe di dare la giusta dignità alla professione di Consulente Commerciale e, nell’immaginario collettivo, non la farebbe più percepire come un mestiere che richiede scarsa specializzazione e bassa qualità. La professione del venditore non è affatto alla portata di tutti! La riprova è che molti professionisti di altre categorie, pur essendo molto competenti nelle loro materie, non sanno “vendere sé stessi” e patiscono una bassa fortuna. Altri, invece, pur non avendo la stessa preparazione accademica, eccellono nella capacità di sviluppare nuove relazioni ed hanno successo.

Come hai sviluppato la tua visibilità come candidato alle elezioni in Enasarco durante gli ultimi mesi?

Dopo l’annuncio del rinvio sine die da parte del CdA della Fondazione, mi sono rimboccato le maniche e, all’inizio della pandemia, ho realizzato delle videoconferenze dedicate agli agenti e ai consulenti finanziari, denominate “S.O.S. Agenti”. Da qui i punti di contatto con il mondo dei consulenti finanziari che, come del resto gli agenti di commercio, sono un elemento fondamentale per rilanciare l’economia italiana. Inoltre, attraverso i gruppi social di cui sono amministratore (AAAgents, Consulenti Bancari e Finanziari), ho prestato sempre grande attenzione al ruolo sociale del consulente finanziario visto anche come procacciatore proattivo della propria clientela e, quindi, come venditore evoluto.

Che ruolo possono avere agenti di commercio e consulenti finanziari in questo particolare momento della nostra Storia Economica e sociale?

Innanzi tutto si assumano la responsabilità di guidare le PMI italiane, in un percorso di adeguamento al mercato e al cliente. Essendo queste figure in costante contatto con il cliente, devono acquisire l’autorevolezza per dire cosa produrre in azienda. Sono di fatto l’Alfa e l’Omega di ogni processo aziendale di successo, soprattutto nella valorizzazione dei quattro settori di eccellenza italiana, e cioè artigianato, agricoltura, turismo e servizi. Per spiegare meglio l’importanza che agenti di commercio e consulenti finanziari rivestono per il rilancio del paese, userò le parole che Mario Draghi ha pronunciato durante il Meeting di Rimini dello scorso 18 agosto, e cioè che “In questo susseguirsi di crisi, i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a chi è stato più colpito, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. Ma i sussidi servono a sopravvivere, a ripartire, mentre ai giovani bisogna dare di più. I sussidi, infatti, finiranno, e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuro“. Si tratta di un concetto ben centrato, in un momento come questo dove tanti colleghi agenti e consulenti sono arrabbiati con Enasarco, perché non sta distribuendo sussidi a pioggia, senza nemmeno approfondire la natura di questo ente che è esclusivamente un ente previdenziale.

In che modo il mondo universitario potrebbe contribuire al rilancio della professione di venditore?

Da tempo sto esponendo quella che è la mia idea. Per me la formazione dei giovani da avviare al mestiere della vendita, nonché la qualificazione di chi già opera in questo settore, devono essere una priorità per le istituzioni, e ritengo che gli si debba dedicare più ampie risorse. Per questa ragione sono impegnato da anni nella formazione dei giovani e nella qualificazione professionale dei consulenti finanziari e degli agenti di commercio. Ciò che mi sta a cuore è trasmettere il concetto che i venditori evoluti, tra cui rientrano anche i consulenti finanziari, sono coloro che possono far ripartire l’Italia grazie alla competenza e all’esperienza già acquisita negli anni. Se è vero che l’asset più importante per le aziende sono i propri clienti, ne consegue che la figura del venditore-gestore della relazione, ossia di colui che mantiene il rapporto con questi, è fondamentale nell’organizzazione aziendale.

Come sarà possibile avvicinare i consulenti finanziari al cosiddetto self-marketing di matrice universitaria?

Non basta un cambio di nome (da promotore finanziario a consulente finanziario) per cambiare la professionalità di una categoria. So che qualche consulente storce il muso a sentirsi definito quale venditore, ma ciò dipende dal fatto che a tale nobile parte della professione, e cioè quella della “vendita di sé stessi” o della “Vendita Evoluta”, le istituzioni e il mondo accademico hanno riservato scarsa attenzione e, di conseguenza, una bassa considerazione sociale. Anzi, a pensarci bene, tra tutte le professioni quella del consulente finanziario e del venditore in generale ha sempre avuto un periodo di avviamento breve, 24 mesi al massimo, proprio grazie alla formazione aziendale sulle strategie di vendita e di relazione, che abbattono i tempi per costruire un portafoglio clienti e dei ricavi annuali soddisfacenti. Le altre professioni, quelle cosiddette intellettuali, hanno invece un avviamento lunghissimo, di solito da dieci a quindici anni, e ciò è dovuto alla totale assenza della filosofia di vendita di sé stessi, che invece negli Stati Uniti è prevalente in tutte le professioni intellettuali. Il consulente finanziario, se prima vendeva solo strumenti finanziari, oggi vende consulenza di investimento molto evoluta (si parla infatti di Wealth Management), e spesso consiglia i clienti anche sulla pianificazione patrimoniale e sulle problematiche del passaggio generazionale, senza che queste nuove aree di intervento trovino un saldo ancoraggio in una specifica preparazione universitaria. Identiche considerazioni possono essere fatte, con le dovute differenze, per gli agenti di commercio, che devono avere una competenza superiore, da trasmettere alla propria clientela, sul corretto utilizzo di prodotti la cui conoscenza richiederebbe una preparazione accademica.

Che parte potrà avere Enasarco in questo progetto di valorizzazione della figura del Venditore Evoluto?

La Fondazione eroga pensioni e servizi di assistenza a circa 220.000 famiglie, per cui deve obbligatoriamente fare la sua parte. Non è ammissibile che si ritardi ancora in tal senso. In linea con questo principio, mi sono impegnato per la promozione del primo corso universitario in “Intermediazione Commerciale”, ed oggi sto studiando, insieme ad alcuni autorevoli docenti universitari, il percorso accademico relativo al corso di laurea in “Consulenza Finanziaria Evoluta”, nella quale le strategie di marketing operativo e di vendita, mixate alle discipline macro economiche, hanno una parte molto importante. Del resto, so bene che il mondo della Consulenza Finanziaria, quando i consulenti di oggi si chiamavano ancora promotori, dava moltissima attenzione al personal marketing, soprattutto ai giovani che si avvicinavano alla professione e che non trovavano le attuali e insormontabili barriere all’entrata fondate sul portafoglio medio. In pratica, propongo di tornare prepotentemente al passato, in quanto a sforzi nella formazione, adattando le metodologie didattiche di ieri al presente iper-tecnologico in cui viviamo.

Concretamente, sappiamo che il mondo universitario è piuttosto difficile e pieno di insidie di natura politica, per usare un eufemismo. Quali strumenti adotterebbe per passare dalla teoria alla pratica?

Il mio primo obiettivo è quello di promuovere e realizzare un modello unico di “centro studi universitario”, che localmente, e cioè in ogni sede di ateneo, verrà partecipato in qualità di formatori anche da docenti di quelle facoltà, con i quali i giovani agenti di commercio e consulenti finanziari potrebbero confrontarsi e, allo stesso tempo, conoscere fino in fondo la bellezza di queste professioni. Infatti, il valore della professione di venditore, se ben sviluppata tra i giovani, potrebbe rilanciare fortemente l’occupazione, anche quella femminile. Inoltre, Start Up Italia ha da poco iniziato una partnership con Et Labora, un ente di formazione di secondo livello, con cui si sta portando avanti progetti con le principali banche di rete per inserire in azienda giovani consulenti finanziari attraverso un accurato processo di selezione, formazione e avviamento professionale sul territorio.

Che posto avrà la tecnologia nella futura formazione di agenti di commercio e consulenti finanziari?

In misura sempre maggiore, il telefono e lo schermo del computer stanno diventando uno strumento imprescindibile per l’attività di vendita. Oggi, più che mai, anche chi ne faceva a meno è venuto incontro all’esigenza di dover spostare la maggior parte della propria attività dal “faccia a faccia” al “contatto da remoto”. Per questa ragione ho preso contatto alcuni docenti universitari specializzati in informatica per raggiungere gli obbiettivi sopra descritti ed integrare la futura offerta accademica da riservare ad agenti e consulenti. (ac)

I geniali architetti della MiFID, il questionario e la “Consulenza Difensiva”

Oggi, forti di 12 anni di esperienza MiFID, possiamo dire che i consulenti finanziari di oggi hanno meno indipendenza dei promotori di ieri. Questo la dice lunga sul futuro dei 33.000 professionisti ancora attivi, che sembrano destinati ad una definitiva “bancarizzazione” insieme ai milioni di loro clienti.

Di Massimo Bonaventura

A distanza di 12 anni dalla prima MiFID, il bilancio per i consulenti finanziari ed i loro clienti è decisamente fallimentare: è cambiato tutto – soprattutto per il conto economico dei professionisti, in peggio – ma in realtà non è cambiato niente. Anzi, le due MiFID hanno fallito proprio laddove avrebbero dovuto avere successo: maggiore trasparenza e competenza per i clienti, e maggiore grado di responsabilità per i consulenti, ai quali andava anche garantita la continuità di opportunità economiche oggi drasticamente ridimensionate in una folle corsa all’aumento del portafoglio pro capite.

Dopo tutti questi anni, a giudicare dal livello di “ignoranza finanziaria” degli investitori italiani, e dall’aggravio delle mansioni amministrative affibbiate (senza corrispettivo né indennità) ai loro consulenti, lo scenario è sconfortante, ed impedisce di vedere un futuro durevole per le reti di consulenza.

Non è difficile giungere a tali conclusioni. Per farlo, basta esaminare come è cambiata la professione del consulente finanziario e,  in particolare, soffermarsi su alcuni elementi che compongono la quotidianità di questo lavoro e che, inspiegabilmente, vengono trattati alla stregua di fredde procedure burocratiche, cui destinare il tempo necessario per una meccanica compilazione dati. 

Il più importante di tutti è certamente il c.d. questionario, che è stato concepito fin dall’inizio come un semplice passaggio amministrativo e che, invece, dovrebbe rappresentare un momento di fondamentale approfondimento sia in occasione dell’inizio di una relazione professionale, sia della sua prosecuzione. I prodotti finanziari, infatti, sono semplici “materie prime” da lavorare per delineare il portafoglio finanziario (e non solo) dell’investitore. Per compiere correttamente questo compito, è necessario attribuire maggiore dignità a questa fase del processo di consulenza che i “geniali architetti” della MiFID hanno immaginato come routinaria, una sorta di catena di montaggio dove non viene lasciato alcuno spazio alla professionalità del consulente e, soprattutto, alle caratteristiche peculiari di quel dato cliente e/o famiglia.

Qualunque consulente di medio-lungo corso, infatti, sa bene che “ciascun cliente fa storia a sé”, e che lui/loro rappresentano una storia originale, sulla quale delineare una sceneggiatura personalizzata, che non troverà alcuna dignità in un questionario standardizzato, uguale per tutte le “storie”. Sarebbe opportuno, invece, strutturare il questionario di profilatura in modo da prevedere una batteria di domande uguale per tutti i clienti, ed un’altra lasciata in bianco, da compilare a cura del consulente in base alla storia familiare di chi ha di fronte. Ciò consentirebbe di effettuare il necessario approfondimento che ogni cliente merita, nonché di inquadrare meglio le caratteristiche della sua famiglia, eliminando alla fonte i rischi professionali derivanti dal dover attribuire – in accordo con il cliente, sapete di cosa parlo – una profilatura più “evoluta” (nonostante un più basso livello di esperienza e conoscenza), meno conservativa e, quindi, meno limitata in termini di opportunità finanziarie di lungo periodo.

Il problema è che la profilatura, così come è concepita dalle regole MiFID, è “statica”, fotografa cioè il cliente di “oggi”, e non contiene alcun elemento prodromico al repentino aumento di competenza ed esperienza derivante dal contatto con un consulente finanziario, che per natura fa professione di educazione finanziaria. La profilatura così standardizzata, infatti, non dà alcuna possibilità al cliente, reso nel frattempo più evoluto e competente dalla necessaria attività di formazione-informazione erogata dal proprio consulente, di sottoscrivere strumenti finanziari che richiedano maggiore esperienza e conoscenza, a meno che non si effettuino continue – e inopportune, soprattutto a livello di auditing – variazioni della profilatura.

La MiFID, nel suo “delirio ragionieristico” di voler incasellare l’incasellabile, sembra essere stata costruita senza tener conto della funzione fondamentale del consulente quale educatore finanziario. In pratica, chi l’ha concepita sembra aver mandato a tutto il sistema un messaggio “politico” di questo tipo: “continuate a fare ciò che volete, basta che le carte siano a posto!”.

E’ il problema, già evidenziato da questa testata giornalistica, della “consulenza difensiva”, fenomeno che con la MiFID II è stato “consacrato” a sistema non ufficiale proprio come nel settore sanitario, dove non è raro che ai pazienti vengano erogate cure e/o esami assolutamente inutili pur di dimostrare che si è osservato il protocollo medico e, in tal modo, non incorrere in procedimenti per responsabilità professionale in caso di richieste di risarcimento danni alla salute causati, all’interno della struttura sanitaria, da diagnosi poco attente ma “proceduralmente corrette” (c.d. Medicina Difensiva).

Peraltro, se al consulente finanziario venisse consentito di personalizzare il questionario, egli avrebbe un maggiore livello di responsabilità professionale verso i clienti, proprio come un medico. La MiFID, invece, raggiunge il risultato di tenere il sistema sostanzialmente indenne da rischi, scaricando sui clienti quasi tutte le responsabilità di scelte inopportune. Esattamente come nell’attuale legislazione sulla responsabilità medica, dove l’onere della prova rimane in capo al paziente (o ai suoi eredi…).

Inoltre, le due MiFID, combinate tra loro, contengono altri due messaggi – molto poco subliminali – rivolti alla categoria dei consulenti finanziari non autonomi. Il primo è il seguente: “non c’è spazio per le vostre competenze acquisite sul campo, dovete essere dei semplici esecutori amministrativi addetti alla scelta degli strumenti di investimento”. Il secondo è una diretta conseguenza del primo: “non avendo alcuna indipendenza nè retribuzione in materia di educazione finanziaria, non siete chiamati a farla”.

Eppure, nonostante ciò, i consulenti erogano ugualmente educazione finanziaria, con professionalità e spirito di servizio, anche in situazioni difficili, nonostante l’impianto della MiFID, così come è stato concepito dai sommi sacerdoti della consulenza difensiva, scoraggi i professionisti del risparmio a mettere in atto quello che, con malcelata ipocrisia, viene sbandierato come un cavallo di battaglia del mercato finanziario europeo: la crescita della competenza dei clienti in materia di finanza personale.

Balle. Inglesi a parte, e nonostante 12 anni di MiFID, gli europei detengono un livello di “ineducazione finanziaria” tra i più alti al mondo, e l’Italia il record assoluto (72% di connazionali finanziariamente “ignoranti”, secondo una recente ricerca). Negli Stati Uniti, gli elementi di finanza familiare vengono insegnati fin dalle medie inferiori e qualunque americano sa che, in occasione dei colloqui di assunzione, deve negoziare tre elementi di base: stipendio annuo, assicurazione sanitaria e asset allocation del suo fondo pensione (gli ultimi due in termini di partecipazione del datore di lavoro, che può accollarsi anche il 100% di entrambi). Anche a 18 anni; anche per il primissimo impiego. Ed è così dagli anni ’30, mica da ieri.

Va da sè che quello degli USA è il risultato di un processo evolutivo avvenuto in una società diversa dalla nostra (da noi, fortunatamente, se hai bisogno di un ospedale ti curano comunque gratis), ma non è questo il punto. Il “punto”, infatti, è che il sistema europeo della MiFID, nato per primeggiare con quello statunitense, fa ancora acqua da tutte le parti. Infatti l’obiettivo di perseguire il processo “evolutivo” e/o di crescita degli investitori europei, sbandierato dagli architetti della MiFID, non trova alcuna corrispondenza proprio nello strumento cardine della consulenza, e cioè nel questionario, che non lascia alcuno spazio alla personalizzazione e all’approfondimento cui invece dovrebbe obbligatoriamente sottostare.

Come pretendere di fare consulenza personalizzata, se si nega fin dall’inizio del rapporto la possibilità stessa di personalizzare le informazioni disponibili? Si vorrebbe forse affermare che un’architettura aperta composta da circa 20.000 tra fondi e sicav – oltre agli ETF e all’universo dei titoli quotati – non permetta, con l’ausilio di una guida esperta e dotata del giusto grado di indipendenza, di ritagliare su misura l’asset allocation più corretta per un investitore? Oppure che i 33.000 consulenti finanziari attivi non siano in grado di destreggiarsi con abilità e professionalità attraverso questo oceano di offerta, senza una guida “burocratica e illuminata” come la MiFID?

La fase preliminare di “esame e diagnosi” patrimoniale – ossia quella della compilazione del questionario – è talmente delicata e importante per la relazione con il risparmiatore e per la stabilità dei ricavi di una banca-rete, che andrebbe remunerata in modo autonomo, proprio come accade negli Stati Uniti, dove nelle più importanti banche di consulenza la funzione della raccolta dati viene addirittura affidata a risorse umane specializzate, diverse dal consulente che elaborerà poi la strategia e l’asset allocation patrimoniale completa. A ben vedere, remunerare alcune funzioni di qualità come quella della raccolta dati eliminerebbe il fisiologico conflitto d’interessi che si instaura allorquando le mutate esigenze del cliente in termini di obiettivi ed orizzonte temporale più breve implicano, ad esempio, una riduzione dei margini di ricavo derivanti dal dover adottare un asset allocation più prudente o conservativa. Peraltro, dal momento che il cliente non è sufficientemente educato sulla estrema utilità di tali informazioni, finisce con il trasmetterle al consulente in grave ritardo, o a non trasmetterle affatto.

In conclusione, il sistema così concepito difetta della necessaria “funzione evolutiva” che, appunto, richiederebbe maggiore indipendenza in capo al consulente. Forti di 12 anni di esperienza MiFID, possiamo dire che i consulenti finanziari di oggi hanno meno indipendenza dei promotori di ieri, e questo la dice lunga sul futuro della categoria, che sembra destinata ad una definitiva “bancarizzazione” della relazione di milioni di clienti con i 33.000 professionisti ancora attivi.

E i danni di tale approccio “ragionieristico” degli investimenti, in occasione dello scoppio della pandemia, si sono visti tutti, allorquando a moltissimi clienti evoluti veniva impedito di mediare il costo dei propri investimenti azionari per via dei blocchi per rischio mercato posti automaticamente dalle regole “geniali” della MiFID, proprio nella fase di maggiore drawdown del mercato; quella in cui è il momento di comprare, come diceva Baron Rothschild, “….quando il sangue scorre nelle strade“, il panico è diffuso e si deve poter investire per trasformare un evento negativo in opportunità.

Ma questo è arabo stretto, per gli ottusi ragionieri della MiFID.

La Scienza di Beppe, atto II. La rabbia verso i “promotori” fa perdere la faccia anche con gli indipendenti

Questa volta Beppe Scienza sembra prendersela con quei  consulenti indipendenti  rei di fare abuso, secondo lui, degli ETF, e di lavorare così in modo troppo facile. Quando manca la conoscenza di base delle cose, l’informazione finanziaria muore.

Di Beppe Scienza, matematico dell’Università di Torino e generosamente indicato dal Fatto Quotidiano come esperto di risparmio e previdenza, abbiamo parlato già in un’altra occasione. Il nostro si è sempre distinto per le sue critiche al vetriolo contro i consulenti finanziari non autonomi, che si ostina ancora adesso a chiamare “promotori” in segno di spregio per la categoria.

I toni da lui abitualmente utilizzati appaiono sempre un po’ esagerati, simili più a quelli di chi “se l’è legata al dito” che a quelli di un critico autorevole. In fondo, si potrebbe trattare di una nota di colore nel grigio mondo della finanza; ma c’è un problema, e cioè che il frutto di questa sorta di “guerra santa” viene pubblicato spesso su un importante organo di stampa, il Fatto Quotidiano, il quale continua a proporre ai lettori le sue uscite senza alcun controllo di redazione che possa verificare se i concetti esposti dall’autore abbiano, o meno, sufficiente correttezza, nonchè la giusta autorevolezza per essere ospitati in cotanto giornale. E così, quando gli articoli sono pieni zeppi di macroscopiche inesattezze (per usare un eufemismo), il danno è fatto. Infatti, pubblicate in un quotidiano online seguito da centinaia di migliaia di lettori, proprio le inesattezze contribuiscono a formare, negli stessi lettori-risparmiatori, una opinione priva del suo elemento essenziale: la conoscenza di base delle cose. E quando essa manca, l’informazione muore.

In pratica, l’esatto contrario del principio di Educazione Finanziaria, che è ciò che dovrebbe perseguire un organo di stampa, e chi vi scrive.

Lo scorso 30 Luglio, il Fatto ha pubblicato l’ultimo capolavoro del prof. Scienza, dal titolo “Investimenti, attenzione agli Etf e a chi li consiglia”, con il quale l’autore si è distinto per avere condensato, in un unico articolo, una massa imbarazzante di errori concettuali (e non solo) difficilmente riscontrabile in chi viene frettolosamente riconosciuto quale “esperto di risparmio e previdenza”. In più – forse per mancanza di nuovi spunti – Scienza se la prende anche con quei consulenti indipendenti (“…e intendo proprio i consulenti e non i promotori…”), rei di adottare “…un modo di lavorare molto facile ….. una impostazione che richiede scarsissime competenze. Così moltissimi, anziché valutare e poi scegliere i titoli da comprare, subappaltano ad altri tale scelta. In questo modo hanno la pappa fatta con pochissima fatica….”.

Scienza si riferisce all’uso dei c.d. Etf (acronimo di “Exchange Traded Fund”), e cioè a quella famiglia di strumenti finanziari che replicano, a costi bassissimi, uno o più indici di borsa di qualsiasi natura (azionaria, obbligazionaria, monetaria, materie prime, valute etc). Strumenti utilissimi, pertanto, in qualunque portafoglio di investimenti che si rispetti, dal momento che consentono all’investitore “costi di mantenimento” più bassi anche del 90% rispetto all’universo dei fondi comuni e sicav, conservando la loro natura di “patrimonio indiviso e separato” da quello dell’emittente, fondato sul frazionamento del rischio in centinaia – o almeno decine – di titoli di emittenti differenti, e cioè quelli che di solito compongono un certo indice o paniere. In più, sono anche quotati ufficialmente in borsa valori, e quindi dotati di una ulteriore fonte di trasparenza e controllo a monte per chi li sottoscrive.

I consulenti finanziari indipendenti (c.d. fee only) da sempre li utilizzano – non esclusivamente, ma insieme ad una scelta ragionata di singoli titoli diversificati – per consentire ai clienti di investire in aree geografiche difficili da seguire e molto costose in termini commissionali (si pensi all’investimento diretto nel mercato azionario cinese o indiano), ed anche di realizzare un risparmio notevolissimo sul costo annuale del portafoglio, motivando legittimamente, anche in virtù di ciò, il pagamento della propria parcella professionale. A monte di tutto, poi, c’è l’assenza totale di conflitto di interessi con il cliente, tipica dei consulenti indipendenti.

Ma Scienza, evidentemente, ha bisogno di nuovi nemici sui quali lanciare i propri strali; e così, dopo aver esaurito quelli destinati ai “promotori”, si addentra senza sufficiente ponderazione nell’argomento Etf (riferendosi soprattutto a quelli obbligazionari), scrivendo: “….Gli Etf, come tutti i fondi comuni, sono solo scatole, più o meno nere o più o meno trasparenti, dove vi sono gli investimenti veri, cioè quelli finali: obbligazioni, titoli di Stato, azioni ecc. Chi possiede quote di un Etf non possiede tali titoli, ma partecipa solo a un patrimonio indiviso. Ciò ha alcune conseguenze negative, sistematicamente nascoste dai consulenti finanziari ai loro clienti.….”.

Lo schema è chiaro: prima il nostro crea curiosità tramite un “fattoide” condito da imprecisati indizi di colpevolezza (“…sistematicamente nascoste dai consulenti finanziari ai loro clienti.…), e poi cerca di argomentare l’impossibile (“…alcune conseguenze negative…”) ammantandole di schematica certezza:

“….1) A un risparmiatore alla ricerca di sicurezza conviene comprare direttamente emissioni di uno o più Stati affidabili. Fra l’altro può diversificare facilmente, perché spesso i tagli sono nell’ordine dei 1000 euro. Con un Etf invece dà un calcio alle garanzie contrattualmente previste dagli emittenti. Germania, Olanda, Stati Uniti ecc. garantiscono il rimborso dei soldi loro prestati. Ma tali garanzie non si estendono alle quote di un Etf, che pure investe negli stessi prestiti. ….. Ricordiamoci di Lehman Brothers!…”.

E poi “…2) Negli scenari peggiori gli svantaggi degli Etf sono ancora più gravi. Un piccolo risparmiatore col 3% dei suoi risparmi in obbligazioni subordinate di Veneto Banca recupererà il 95%, come ricuperò il 71% con le Alitalia. Tali indennizzi invece se li sogna, se la stessa percentuale del suo patrimonio la possiede tramite un Etf….”.

Infine “….3) Si duplicano i costi. Indirizzando un cliente verso un Etf, un consulente lo costringe a pagare, oltre alla sua parcella, la commissione periodica di gestione del fondo. Ciò riduce la redditività del reddito fisso, attualmente già striminzita….”.

A leggere queste righe così temerarie (soprattutto quelle contenute nella “osservazione” n. 1, un vero e proprio condensato della peggiore disinformazione), un addetto ai lavori sobbalza dalla sedia, poi magari si fa una risata e passa oltre. I lettori poco evoluti del Fatto Quotidiano, invece, potrebbero prendere per buone queste affermazioni, nutrire una certa diffidenza verso ottimi strumenti come gli Etf, ed essere così indirizzati verso scelte sbagliate che rimpiangerebbero amaramente. Pertanto, per loro sarebbe necessario una sorta di “tutor” d’ufficio, che li rimetta sulla retta via. Per fortuna, si ottiene lo stesso risultato dando la parola ai commentatori dello stesso articolo, i quali sparano senza pietà sulla “Scienza di Beppe” in materia di Etf:

– “…Prof. Scienza, lei era una voce fuori dal coro, cos’è successo? Come mai sta prendendo queste cantonate sugli ETF? Scusi, eh, ma qui mancano proprio le basi che può trovare su Borsa Italiana. ETF tutta la vita….”;

– “….Come fa un giornale come Il Fatto Quotidiano a pubblicare articoli del genere??…”;

– “…Articolo intriso di una ignoranza assoluta. Gli ETF sono i principali nemici dei consulenti. Gli ETF hanno dei costi di gestione bassissimi e battono sempre i fondi attivi. Il patrimonio degli ETF è separato da quello della casa d’investimento. Studiare prima di scrivere boiate no eh?...”;

– “…Lei non sa come funzionano gli Etf: Studi…..i titoli acquistati per replicare l’ ETF costituiscono patrimonio separato da quello della SGR quindi eventuale e pur remotissimo fallimento non avrebbe NESSUNA ripercussione sui titoli depositati. L’unico modo perchè fallisca un Etf sarebbe che debbano fallire contemporaneamente tutte le aziende contenute nel paniere….”;

– “…..Articolo delirante e demonizzante sugli ETF. Forse fa paura il fatto che i fondi passivi quali qli etf nel 99% dei casi rendono più di quelli attivi delle grandi case. Jack Boogle, l’inventore dei fondi passivi si starà rivoltando nella tomba….”;

– “….E’ un articolo che mi risulta incomprensibile e privo di senso. Mi scusi, ma forse ha idee molto confuse sugli ETF ed il mondo della consulenza. In filiale, alle poste, dal consulente di qualche banca online di consulenza nessuno consiglia ETF, tutto il grande business del risparmio gestito è basato su inutili fondi attivi e polizze con commissioni in gran parte occulte volte ad erodere il capitale…”;

– “….Purtroppo il “professore” sembra abbia un problema personale con gli ETFs, e lo porta qui a spasso sul FQ con cadenza bimestrale…..Quello che davvero infastidisce é che gli permettano di scrivere, e ripetere, queste assurde idee, aiutando a propagare l’ignoranza in un paese che già non brilla per cultura finanziaria….”;

– “…Ma lei è serio, prof. Scienza?...”.

Niente da aggiungere, davvero imbarazzante.

Da Milano a Palermo, solo andata. Un “Piano Marshall” per la consulenza finanziaria nel Sud Italia

Molti capitani d’industria e tantissimi top manager, dall’alto delle loro posizioni apicali, non hanno avuto (o piuttosto non hanno voluto avere) una visione  di crescita del Sud Italia, e tale mancanza di prospettiva si è trasmessa, con  uguale miopia, anche nel settore della Consulenza Finanziaria.

Di Maurizio Nicosia*

Scorrendo i recenti dati Assoreti sulla raccolta delle reti di consulenza finanziaria, sempre in brillante crescita, non ho potuto fare a meno di confrontare i dati della Lombardia con quelli della mia regione, ossia la Sicilia. Naturalmente, non mi aspettavo di trovare risposte diverse da quelle che già immaginavo, e cioè che le differenze di produttività tra le regioni del Nord Italia e quelle del Sud – ed in particolare la Sicilia – sono lo specchio esatto di due diverse economie che convivono nello stesso Paese da oltre un secolo e mezzo.

In particolare, le stime di Banca D’Italia ci dicono che la raccolta delle famiglie nella sola Lombardia è pari a 430 mld, mentre in Sicilia è di soli 70 mld, ossia circa un sesto. Partendo da questo dato, sapere che i consulenti finanziari siciliani, con i loro 13,7 mln di raccolta pro-capite, amministrano un terzo rispetto ai colleghi lombardi (39 milioni pro capite), sembra un risultato buono, oltre ogni aspettativa.

In realtà, analizzando con attenzione i dati, la situazione appare molto diversa.

In Lombardia, 4200 consulenti dividono un mercato fatto da 10 milioni di clienti con 42 mila euro di depositi pro capite, in Sicilia 1000 consulenti fanno lo stesso con un mercato da 5 milioni di clienti e con 15 mila euro di depositi pro capite. Ne consegue che il mercato medio potenziale pro capite di un consulente milanese è pari a 100 milioni [(10.000.000 x 42.000): 4.200], mentre quello di un consulente siciliano è di 75 milioni [(5.000.000 x 15.000): 1.000], e cioè il 75% di quello del collega lombardo.

Inoltre, se consideriamo gli attuali dati di portafoglio medio per consulente come una sorta di “coefficiente di penetrazione” del mercato bancario tradizionale, risalta all’attenzione che il collega milanese – o bresciano, bergamasco, fate voi – ha già in mano circa il 40% del mercato potenziale, mentre quello siciliano il 18%, e se analizziamo i dati del Sud Italia regione per regione, la situazione cambia poco. Quest’ultimo dato ci dà l’idea, in maniera ancora più chiara, del margine di miglioramento del professionista che opera nel Sud Italia, ma è bene farci delle domande sul perché esiste una differenza così marcata nella raccolta.

Le risposte sono tante e variegate. La prima deriva da un fattore culturale, in base al quale il cliente siciliano preferisce ancora una relazione primaria con il costoso ed obsoleto sportello tradizionale, probabilmente per via della percezione di un vantaggio – del tutto istintivo e consuetudinario – generato dal contatto visivo di un operatore sempre pronto, anche senza preavviso, ogni volta che si vuole.

La seconda risposta è dettata dal patrimonio medio familiare, nel senso che è più facile gestire meno clienti (ossia meno relazioni, telefonate, problemi da risolvere etc) ma con più risorse, anzichè il contrario.

La terza risposta la ricaviamo dalla mentalità dei clienti, poiché la vera linfa del settore, negli ultimi anni, è stata generata dall’inserimento dei bancari, il cui basso spirito di iniziativa imprenditoriale – non è un problema di capacità personali, ma una difficoltà indotta dal precedente approccio lavorativo – ha un po’ tarpato le ali alla crescita ed al ricambio del consulente-imprenditore di una volta.

Su tutto, esiste la grande colpa di chi, nelle posizioni apicali del sistema, non ha avuto (o non ha voluto avere) una “visione” di crescita del Sud Italia, e tale mancanza di prospettiva ha trasmesso uguale miopia anche nel settore della Consulenza FinanziariaInvece, l’analisi  appena fatta dimostra che investire al Sud può dare un ritorno economico ad alta redditività alle banche-reti veramente intenzionate a fare molto e parlare poco. Anzi, in considerazione del potenziale inespresso, negli anni a venire – quelli che ci separano da ulteriori e profondi cambiamenti nel settore della consulenza finanziaria – scardinare il modello “banca tradizionale” sarà uno dei pochi modi per mantenere la massa critica della raccolta. Infatti, riprendendo i dati già esaminati, solo in Sicilia esiste il margine per portare la media pro capite a 25-27 milioni, ottenibile aumentando il “coefficiente di penetrazione” fino al livello dei colleghi milanesi; e ciò significherebbe, per i 1.000 consulenti isolani attivi, conseguire una raccolta complessiva, negli anni a venire, pari ad oltre 13 miliardi.

Se trasferiamo lo stesso ragionamento in tutte le regioni del Sud Italia (fino alla Campania), per le reti c’è in ballo una raccolta potenziale di circa 100 milioni.

Pertanto, i consulenti siciliani sappiano che il mercato c’è, e che investire sulle proprie competenze e sulla crescita personale può dare risultati portentosi, ma sarebbe opportuno che gli intermediari cambiassero totalmente la loro visione del Sud, ponendo al centro della loro attenzione la crescita in quelle regioni solo apparentemente disagiate, ma  con un potenziale inespresso che, probabilmente, salverebbe più di una banca (e relativo top management) dall’ineluttabile acquisizione da parte di un concorrente più grosso per fare maggiore “massa critica” e rimanere sul mercato.

Oggi servirebbe un piano di investimenti di “sola andata” da parte delle banche-reti, dalle ricche sedi del Nord (Lombardia in primis) a quelle più “povere” – ma solo sulla carta – del Sud.  Una sorta di “Piano Marshall” senza il quale, anche nel campo della Consulenza Finanziaria, esisterà per sempre una “Questione Meridionale” di impossibile soluzione.

* Area manager di una importante rete di consulenza finanziaria italiana