Marzo 29, 2024
Home Posts tagged russia

I BRICS e la “de-dollarizzazione” degli scambi internazionali: opportunità per l’Economia Globale?

L’Iran sollecita i BRICS a creare una nuova valuta comune che possa essere utilizzata dai paesi membri per regolare le transazioni transfrontaliere e porre fine all’utilizzo del dollaro su scala globale.

Di Valerio Giunta*

Quello dei c.d. BRICS è un raggruppamento delle economie mondiali emergenti formato inizialmente dai Paesi le cui iniziali a suo tempo formavano l’acronimo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) con l’aggiunta del Sudafrica nel 2010. L’ingresso di cinque nuovi membri – Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – ha portato i BRICS a comprendere ora 10 paesi, con una popolazione di circa 3,5 miliardi di persone, pari al 45% della popolazione mondiale, e un PIL che rappresenta circa un terzo dell’economia globale. Non c’è, invece, l’Argentina, che era stata invitata a unirsi ai BRICS in estate, ma venerdì 29 dicembre 2023 il presidente Javier Milei ha inviato una lettera ai membri del gruppo definendo “non opportuno” l’ingresso dell’Argentina. 

In ogni caso, questa espansione costituisce una sfida rilevante per gli Stati Uniti e le economie occidentali, a lungo dominanti nell’arena economica mondiale. Infatti, adesso i BRICS rappresentano anche la più seria alternativa al G7, di cui la Russia non fa più parte dopo l’annessione della Crimea del 2014, ed emergono come un’alternativa al modello statunitense, privilegiando la cooperazione e la solidarietà tra paesi emergenti: sono accomunati dal piano di una agenda politica che vuole essere un’alternativa anti-occidentale e che guarda verso il Global South. Le aree di cooperazione vanno dalla politica alla sicurezza, dalla cooperazione economica a quella finanziaria, fino a quella culturale; tanto più che il piano di espansione prevede l’adesione di almeno altri venti paesi, il cui obiettivo è quello di “de-dollarizzare” gli scambi commerciali. Infatti, il nuovo membro dei BRICS, l’Iran, sta sollecitando l’alleanza a creare una nuova “valuta comune” che possa essere utilizzata dai paesi membri per regolare le transazioni transfrontaliere e porre fine all’utilizzo del dollaro su scala globale.

Dietro le motivazioni di carattere economico, tuttavia, si celano quelle di natura politico/internazionale. Infatti, l’obiettivo di Iran e Russia è quello di liberarsi dalle catene di sanzioni statunitensi riducendo l’egemonia del dollaro, e una nuova valuta certamente aiuterebbe non poco a ridurre gli effetti delle sanzioni. Su tutto, spicca l’insofferenza per il fatto che le nazioni occidentali hanno il controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, che con i loro prestiti sono i maggiori creatori di debito estero per le nazioni in cui intervengono.

I BRICS, pertanto, si propongono di avere la rappresentanza delle economie emergenti, e del continente africano in particolare. Per farlo, nel 2014 i paesi BRICS hanno fondato la New Development Bank (NDB), che ha lo scopo di prestare denaro per sostenere la crescita dei paesi aderenti e/o emergenti, e alla fine del 2022 la banca aveva prestato quasi 32 miliardi di dollari per nuove strade, ponti, ferrovie e progetti di approvvigionamento idrico. Questo è uno degli obiettivi primari della Cina tra i BRICS, attraverso i quali sta cercando di accrescere il suo potere e la sua influenza, soprattutto in Africa.

Per gli investitori, l’allargamento dei BRICS comporta sia rischi che opportunità. La crescente competitività economica dei paesi BRICS presenta rischi quali la concorrenza pressante in vari settori, valute volatili e possibili barriere commerciali. D’altra parte, l’espansione dei mercati emergenti offre opportunità di diversificazione nei portafogli degli investitori, dalle infrastrutture in Cina (strade, ferrovie e porti) alle risorse naturali (Petrolio, gas naturale e metalli) fino alla Ricerca e Sviluppo, nei quali i governi e le imprese BRICS investono molto. I titoli delle aziende – governative e private – che investono in questi settori promettono rendimenti elevati, ma bisogna avere consapevolezza dei rischi legati alla volatilità delle valute e alle potenziali barriere commerciali associate a tali investimenti. Pertanto, la diversificazione e la valutazione ponderata dei rischi sono fondamentali per un approccio prudente agli investimenti nei BRICS.

* AD di Startup Italia e Founder di Banking People

Nei mercati un cambiamento strutturale, non la fine di un ciclo. Dai bond l’unica prospettiva

I livelli di bottom delle crisi precedenti non devono necessariamente essere replicati per poter affermare che il peggio è passato. Le strategie che hanno funzionato in passato potrebbero non essere più efficaci.

Risulta inferiore alle attese l’inflazione USA a ottobre 2022. Secondo il Bureau of Labour Statistics (BLS) americano, i prezzi al consumo hanno registrato un +0,4% su base mensile, contro il +0,6% del consensus e dopo il +0,4% del mese precedente. Su base annua, la crescita dell’inflazione è stata del 7,7%, inferiore al +8,2% del mese precedente ed al +8% atteso dal mercato. Nonostante i dati siano confortanti, non c’è da illudersi che la FED possa modificare in modo drastico il percorso delineato allorquando, neanche dieci giorni fa, la banca centrale ha stabilito che i tassi sono destinati a salire a un picco più alto e che solo da dicembre aumenti meno aggressivi possano essere considerati.

Infatti, le urne per le elezioni di mid-term hanno restituito la Camera ai repubblicani, con i democratici che perdono il controllo del Congresso e che in teoria sono costretti a fare pesanti compromessi con il Partito Repubblicano nelle scelte di politica economica. Ma si è trattato davvero di una sconfitta pesante per Biden? Sembrerebbe di no. Infatti, la regola delle elezioni di mid-term è che esse riservino quasi sempre cattive sorprese: quattro degli ultimi cinque presidenti, che avevano il controllo di camera e senato nell’anno della loro elezione, al mid-term hanno perso almeno una delle due camere, come Barack Obama (-63 seggi alla Camera nel 2010 e perdita del controllo di Camera e Senato al secondo mid-term) e Donald Trump (-41 seggi alla Camera in occasione dell’unico mid-term nel 2018). Per questo motivo i democratici hanno tirato un sospiro di sollievo, comportandosi quasi come se avessero vinto le elezioni grazie al pericolo scampato.

Il risultato negli Stati Uniti è da salutare con grande ottimismo in Europa? Niente affatto. Il rallentamento dell’inflazione americana potrebbe non avere alcuna influenza di lungo periodo – e neanche di breve, in base alle circostanze – finchè non ci sarà un serio cessate il fuoco tra NATO e Russia in questo conflitto armato che avviene “per procura” dell’Ucraina. L’inflazione degli Stati Uniti, infatti, è molto differente da quella europea, poiché gli USA non hanno necessità di importare gas e petrolio, per cui l’indice dei prezzi al consumo a stelle e strisce risente soprattutto dell’andamento dei consumi alimentari e dei beni di larga distribuzione. A differenza dell’Europa, in cui quasi tutti i paesi sono importatori (netti) di beni energetici e, a causa della guerra in Ucraina e della  risalita dei prezzi di gas e petrolio, soffrono di un tasso di inflazione “drogato” al rialzo.

Probabilmente, quando USA e la stessa Europa smetteranno di fornire armi all’Ucraina e solleciteranno la supremazia della via diplomatica, anche gli stati europei – in primis l’Italia – potranno beneficiare di prospettive di ribasso delle dinamiche inflattive e proseguire lungo un cammino che, comunque, non è luminoso. Infatti, sia l’azionario che l’obbligazionario sono ancora alla ricerca di un “pavimento” dove stabilizzarsi, e non sono in pochi a ritenere che il c.d. “bottom” (ossia il punto di maggiore sofferenza dei mercati) non sia ancora stato raggiunto. Prova ne sia che il rapporto prezzo-utili mostra che l’S&P 500, pur essendo scambiato al di sotto dei picchi post-pandemici, si trova molto al di sopra del punto raggiunto durante la crisi finanziaria del 2007-2009. Questo non vuol dire che i livelli  di bottom del passato debbano necessariamente essere replicati per poter affermare che il peggio è già arrivato e sta andando via, ma che bisogna analizzare con molta più attenzione tutti i fattori positivi e negativi, per poi metterli sui piattini della bilancia e vedere quale dei due alla fine pesa di più.

A ben vedere, le prospettive del mercato non sono più disastrose come 3 o 4 settimane fa; per esempio, l’approccio della Russia alla guerra in Ucraina è cambiato parecchio, e l’Arabia Saudita rilascia più petrolio, dando respiro  al prezzo del barile e dei suoi derivati; le banche centrali lanciano segnali chiarissimi di rallentamento del ritmo  di aumento dei tassi – che saliranno ancora, ma “di poco”, fino a Marzo 2023 – e gli utili aziendali non mostrano segni di futuro cedimento pronunciato. Pertanto, si potrebbe assumere un cauto ottimismo, ma la volatilità non accenna a diminuire anche per il mondo delle obbligazioni, che sono diventate più volatili. Su tutto, si intravede un nuovo scenario, secondo il quale le strategie che hanno funzionato in passato potrebbero non essere più efficaci, e dovranno lasciare il posto a strategie più adatte ad affrontare non semplicemente la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, ma un cambiamento strutturale.

In tal senso, lo stesso presidente della Federal Reserve ha affermato che non si aspetta che la situazione cambi. L’unico motivo per essere veramente ottimisti è che le obbligazioni hanno vissuto un anno orribile, e stanno tornando ad avere quotazioni interessanti per qualsiasi portafoglio di lungo periodo, grazie ai rendimenti più elevati e ai migliori rendimenti prospettici.

La crisi energetica può causare una discesa del Pil europeo del 5%

Secondo Alberto Conca, a metà 2023 la recessione potrebbe trasformarsi in stagflazione, e la bilancia commerciale europea potrebbe restare in deficit per diversi anni.

“Le conseguenze della crisi energetica in Europa stanno avendo e avranno un impatto devastante sull’economia di tutti i paesi del vecchio Continente. La recessione in Europa è teoricamente certa: dai dati di questo trimestre, l’ultimo del 2022, dovremmo iniziare a osservare una discesa in termini di Pil, che nel migliore dei casi sarà circa dell’1%, mentre se la situazione dovesse continuare ad aggravarsi potrebbe raggiungere addirittura il 5%”. È l’analisi di Alberto Conca, gestore del fondo Zest Quantamental Equity.

La crisi energetica in corso ha già ampiamente eroso i margini di interi settori, soprattutto quelli in cui l’energia è un input fondamentale, come i produttori chimici, le acciaierie e i produttori d’auto. I governi per supportare cittadini e le imprese hanno implementato misure e proposte per alleggerire il peso dei costi energetici. Questi aiuti, finanziati da nuovo debito degli Stati, si inseriscono in un contesto in cui la bilancia commerciale dell’Eurozona ha visto bruciarsi tutto il surplus strutturale che aveva in pochi mesi a causa della crisi energetica. Questa variazione, legata principalmente al costo dell’energia, potrebbe perdurare a lungo, mantenendo la bilancia europea in deficit per diversi anni.

In questo contesto, sono tre gli scenari di contrazione del Pil per l’Europa. Il primo caso riporta una contrazione del Pil pari allo 0.9% ed è basato a sua volta su due condizioni: i paesi dell’Unione Europea implementeranno piani di risparmio energetico efficaci che riusciranno a limitare il consumo domestico di gas e quindi la produzione industriale soffrirà di meno; la Russia continuerà a rifornire l’Europa con gli ultimi flussi di gas rimasti attivi (10% rispetto al 2021). Detto ciò, rimane sempre la variabile principiale e soprattutto non stimabile legata alle temperature di questo inverno che potrebbero alleggerire o peggiorare la situazione.

Il secondo scenario, invece, assume due variabili e potrebbe portare a una contrazione del Pil pari al 2.6%: l’inverno sarà molto rigido e di conseguenza gli sforzi introdotti dall’Europa per risparmiare sui consumi saranno stati vani; la Russia interromperà del tutto i flussi di gas, chiudendo anche l’ultimo gasdotto che attraversa l’Ucraina.

Infine lo scenario peggiore, che significa profonda recessione per l’Europa, fissa la contrazione del Pil intorno al 5%. Alle assunzioni del caso precedente si aggiunge la frammentazione del mercato europeo del gas e quindi divergenze tra i prezzi degli Stati membri dell’Ue. Questa variabile creerebbe concorrenza interna e con molta probabilità i prezzi del gas schizzeranno a livelli mai visti prima. Bloomberg stima che in questo scenario il prezzo medio potrebbe aggirarsi intorno a 428 euro per MWh. Inoltre, la situazione rischierebbe di minare la coesione che finora ha contraddistinto l’Unione Europea. “L’Europa si trova in una grave situazione che molto probabilmente la porterà ad una recessione nel breve periodo”, conclude Conca. “Da metà 2023, quando verrà ristabilito un “equilibrio”, la recessione potrebbe trasformarsi in stagflazione in seguito a un tasso d’inflazione che persisterà per almeno due anni parallelamente a una crescita stagnante”.

Armi, gas e petrolio, il trinomio perfetto che illude (e inganna) il mondo

La storia economica del mondo si evolve da sempre attraverso ere di produzione di materie prime fondamentali e fasi di conflitto internazionale che nascono dal loro sfruttamento e producono in ogni tempo effetti collaterali per l’economia mondiale.

Appena un anno fa, i banchieri centrali facevano a gara nel dichiarare quotidianamente che l’inflazione più alta del solito – a quel tempo si viaggiava attorno al 3,5% – era un fenomeno temporaneo, destinato a rientrare con l’attenuarsi delle restrizioni causate dalla pandemia. A distanza di pochi mesi, ci troviamo nel bel mezzo di una guerra di logoramento che, grazie all’attivismo militare – in casa d’altri – dell’amministrazione Biden, potrebbe durare anche degli anni. Inoltre, combattiamo con armi spuntate un tasso di inflazione triplo rispetto a quello dell’anno scorso. Infine, sia il mercato azionario che quello obbligazionario sono crollati miseramente sotto il peso di una politica monetaria mondiale che, nell’intento di combattere gli effetti economici potenzialmente disastrosi della pandemia, ha dovuto prolungare la fase espansiva in modo “innaturale”, al punto che al primo segnale di rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali quella che doveva essere una ordinaria correzione si è presto trasformata in un crollo verticale, con un “effetto reset” rapido e doloroso. In più, lo spettro di una recessione globale si fa sempre più visibile.

Papa Francesco, che sta finalmente cercando di dare una parvenza di legalità alla ricchissima finanza vaticana mettendola al riparo da rischi incontrollabili e accentrandone la gestione, ha definito la guerra come una “follia” e la corsa agli armamenti come una “piaga”, poiché destinando più risorse alle armi proprio in questo momento, si tolgono risorse finanziarie da altri ambiti sociali importanti, determinando un grave malcontento nella popolazione in relazione al costo degli alimenti e di altri beni di prima necessità.

Oggettivamente, il Papa non ha tutti i torti, e i profitti che in questo momento i produttori di armi (Italia compresa) stanno realizzando copiosamente rappresentano un grandissimo ostacolo al trionfo della diplomazia internazionale ed al cessate il fuoco

Nel frattempo, le sanzioni che avrebbero dovuto convincere la Russia a ritirare le proprie truppe dall’Ucraina non stanno avendo l’effetto sperato, e l’economia russa sta resistendo molto meglio delle attese, mentre in Italia il governo che verrà dovrà fare i conti con i risultati di un sondaggio secondo il quale il 94% degli italiani si oppone all’invio di armi in Ucraina. Ci vuol poco a concludere che nell’attuale crisi finanziaria europea e italiana la responsabilità dell’amministrazione Biden sia elevata, e ad essa si è aggiunta quella di una Unione Europea che ha rivelato tutta l’inadeguatezza del modello pseudo-federativo di “moneta unica” di fronte alle grandi questioni internazionali ed al conseguente bisogno di una propria forza politica continentale, che non abbia ancora bisogno, come nel Secondo Dopoguerra, di ricorrere all’aiuto (o al ricatto economico e militare) delle potenze d’Oltreoceano.

Intendiamoci: quella che si sta combattendo è una guerra per il predominio sulle materie prime per eccellenza – gas e petrolio, ma non solo – e gli effetti li stiamo pagando noi attraverso un aumento a tratti inspiegabile delle bollette energetiche, cresciute in modo troppo elevato rispetto agli eventi che ne avrebbero determinato la crescita. Ed infatti, solo da qualche settimana si è scoperto che l’aumento esponenziale del prezzo del gas non è avvenuto a causa della interruzione dei gasdotti russi, ma per via delle speculazioni sull’indice Title Transfer Facility (TTF), ossia il mercato olandese dove vengono scambiati volumi fisici di gas per l’intero continente europeo.

Il prezzo che si forma al TTF è oggi l’indice a cui tutti i contratti di fornitura sono legati, ma risulta esposto ad alcuni fattori che ne determinano l’estrema inaffidabilità e la facilità con cui può essere manipolato dagli speculatori.

Innanzitutto, i volumi scambiati sono troppo sottili rispetto ai volumi di gas consumati in Europa tutti i giorni. Con quantitativi minimi, pertanto, per gli speculatori è possibile influenzare tutti i mercati d’Europa. Inoltre, sul mercato TTF non c’è un sistema di sospensione delle contrattazioni in presenza di alta volatilità, e il prezzo può oscillare anche del 50% in una stessa giornata. Infine, sul TTF l’offerta è limitata ai gasdotti di Norvegia, Russia e Nord Africa, mentre l’Europa, essendo un consumatore netto, può solo comprare. Ciò significa che il meccanismo della domanda e dell’offerta non funziona, perché non esiste offerta addizionale che possa far scendere i prezzi quando diventano troppo alti, e se si elimina il gas russo i prezzi possono salire all’infinito.

Relativamente al petrolio, il livello di dipendenza energetica dell’Europa dai paesi produttori non è seconda a quella del gas, ma mai come in questo caso il prezzo al barile così elevato ha messo d’accordo tutti gli stati che lo producono. Infatti, il costo di estrazione e raffinazione è diverso da un paese all’altro, e varia dai 9 dollari a barile dell’Arabia Saudita ai 23 dollari al barile del petrolio americano prodotto da Scisto (c.d. Shale Oil), per arrivare ai 44 dollari del petrolio inglese.

E’ evidente che, con un prezzo medio che ha superato per lunghi mesi i 100 dollari al barile (al momento oscilla tra 88 e 84 dollari), i produttori di petrolio non hanno un grande interesse a che il prezzo si abbassi, ed è proprio questa diversità di obiettivi a determinare oggi lo scollamento tra le azioni dei governanti americano e europei, intese ad armare l’Ucraina, e l’opinione prevalente dei cittadini americani ed europei che respingono fermamente l’idea del conflitto armato come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.

Per gli stessi motivi, sono tanti gli ostacoli che stanno impedendo di trovare un accordo all’introduzione di un price cap (tetto al prezzo) sul gas per contenere gli effetti della speculazione sulle bollette energetiche delle famiglie, poiché ogni paese produttore è guidato, esattamente come per il petrolio, dall’interesse a mantenere prezzi alti di fronte alla necessità di quei paesi che, essendone importatori netti, hanno la necessità di rimpiazzare il gas russo a qualunque prezzo. Infatti, dopo la chiusura del gasdotto russo Nord Stream 1 il primo fornitore dell’UE è diventata la Norvegia, che è un paese Nato ma non è membro dell’Unione Europea. Ebbene, il premier norvegese Jonas Gahr Store ha apertamente dichiarato a Ursula von der Leyen di non essere convinto che un tetto al prezzo del gas risolverebbe i problemi di approvvigionamento dell’Europa. Non vorremmo essere eccessivamente maliziosi, ma la perplessità del premier norvegese sembra parecchio influenzata dal fatto che nei primi sette mesi dell’anno l’export di gas norvegese sia aumentato del 303% rispetto allo stesso periodo del 2021. Idem per l’Olanda, paese che ospita la famigerata “borsa” del gas, il quale si è detto “incerto” sulla validità del tetto al prezzo. Anche in questo caso, si fa fatica a non attribuire la titubanza del paese (famoso per i coffee shop e per la sua “frugalità politica”) all’aumento dei prezzi del gas, visto che ha miracolosamente raddoppiato il proprio surplus commerciale grazie alle esportazioni di questa preziosa materia prima.

Oltreoceano, anche gli USA stanno guadagnando parecchio da questa situazione internazionale, poiché sono diventati i primi esportatori di GNL, e all’Unione europea è stato destinato il 45% delle esportazioni statunitensi. Emblematiche, in tal senso, le  parole di Emma Marcegaglia, che ha detto: “la situazione è tale che gli imprenditori americani pagano oggi l’elettricità sette volte meno di quanto facciano gli italiani. E questo nonostante il fatto che i promotori delle sanzioni siano seduti dall’altra parte dell’oceano. Di fatto le sanzioni sono diventate uno strumento di concorrenza sleale per i produttori italiani”.

In definitiva, la storia economica del mondo si è sempre voluta attraverso cicli secolari di produzione di materie prime fondamentali e fasi di conflitto internazionale che nascono dal loro sfruttamento e producono in ogni tempo effetti collaterali per l’economia mondiale. Ciò che stiamo vivendo oggi è, appunto, uno degli effetti collaterali del trinomio perfetto – ma diabolico – petrolio/gas/armi, e i sacrifici a cui pare stiamo ineluttabilmente andando incontro altro non sono che il prezzo economico della guerra scaricato sui cittadini europei, che in questo modo ne diventano effettivi finanziatori. E per far pagare loro questo tributo, è sufficiente inviargli una semplice fattura nella cassetta della posta.

Ci dobbiamo solo adattare”, dicono, “… meglio così che vedere le bombe vere piovere sulle nostre città …”, aggiungono. Gentilmente, lo dicano anche agli ucraini.

Come evitare il terzo conflitto mondiale? Ridistribuire il reddito e far rinascere la classe media

Troviamo più “istintivo” farci la guerra invece di concederci dei compromessi. Il lungo periodo di pace successivo al 1945 è stato permesso dalla iniziale ridistribuzione del reddito a beneficio della classe media.

Per molti teorici delle scienze umane, una società fondata sulla pace mondiale è un obiettivo irrealizzabile, poiché l’uomo sarebbe dotato di un istinto primordiale alla risoluzione delle controversie attraverso la conflittualità, a tutti i livelli e in tutte le sue forme. Dallo scontro verbale a quello fisico, da quello individuale e disorganizzato a quello di gruppo e organizzato, da quello reale a quello virtuale, da quello di coppia a quello familiare, è innegabile che troviamo più “istintivo” farci la guerra invece di concederci dei compromessi. Eppure, tutti noi conosciamo fin da piccoli la guerra, la studiamo persino a scuola e ne conosciamo gli effetti devastanti grazie anche ad una copiosa produzione cinematografica ed editoriale.

Per i sociologi e gli antropologi, improntare la relazione sull’utilizzo sistematico di strumenti pacifici e di mediazione comporta una forzatura non sostenibile per l’individuo, dominato com’è, in chiave istintiva, dalla conflittualità come modalità di azione-reazione, e caratterizzato com’è da una scarsa propensione ad accettare l’affievolimento delle proprie prerogative individuali (non solo economiche) a vantaggio del c.d. bene comune. Si potrebbe parlare, pertanto, di un “istinto all’individualità” che, insieme all’istinto di conservazione, dà del filo da torcere ad un altro istinto fondamentale – quello di aggregazione sociale, sorto circa 1,9 milioni di anni fa – e guida i rapporti con gli altri prevalendo sulla “tendenza al bene comune”, la quale è un prodotto della società umana antropologicamente ancora troppo giovane per essere innalzato al rango di “istinto”. Il c.d. interesse collettivo, quindi, altro non è che un insieme di azioni “non istintive”, che trovano fondamento nell’esperienza contemporanea dei nostri antenati, capaci di scoprire la “convenienza” di accettare le regole imposte dal vivere in comunità, che gradualmente si sviluppavano e si trasformavano in sistemi più complessi, governati da regole sempre più complesse. Grazie a queste, l’istinto all’individualità viene in qualche modo affievolito, ma continua a dominare le azioni dell’uomo ogni qual volta l’istinto prevale sul ragionamento, come nella guerra.

Fortunatamente, oggi conosciamo chi ha scatenato il conflitto armato in Ucraina, e per quanto la decisione di invaderla sia stata pianificata, preavvisata a livello diplomatico e poi minacciata apertamente, essa rimane comunque una scelta dominata dall’istinto di un individuo. Infatti, sfrondando la questione da tutte le schermature concettuali della dialettica internazionale, e traducendo tutto in chiave sociologica-antropologica, si tratta comunque del trionfo della conflittualità come metodo di risoluzione di un problema, a tutela di inconfessabili interessi privati  che prevalgono sulla tendenza al bene comune. E così, tra paese aggressore e paesi difensori dell’aggredito – che erano già pronti da mesi all’invio di armi e denaro – qualche decina di persone nei ruoli apicali dell’economia e della politica internazionale oggi decide sul benessere di circa otto miliardi di individui.

Sebbene se ne parli poco sui media, il conflitto armato non vede confrontarsi solo tra Ucraina e Russia, ma la NATO (guidata dagli Stati Uniti) e il presidente Putin, padrone della finta democrazia Russa da circa un ventennio; e se il massiccio invio di armi leggere e pesanti dai paesi NATO all’esercito di Zelensky, effettuato alla luce del sole, non ha ancora generato l’allargamento degli scenari di guerra al di fuori del territorio ucraino, è solo perché non è stata ancora lanciata una sola bomba all’interno di quello russo. Ove ciò accadesse, anche per errore, si passerebbe immediatamente dall’aiutare l’Ucraina a difendersi da sola dall’aggressore – cosa che non permette formalmente di definire quella della NATO come una “partecipazione diretta” al conflitto – all’aiuto ad offendere la sovranità della Russia, che a quel punto si sentirebbe in diritto di reagire con forza, magari invadendo, per esempio, Moldavia e Romania, e scatenando di fatto il terzo conflitto mondiale.

Quello appena delineato è uno scenario tutt’altro che fantasioso, poichè ci troviamo davvero nella fase immediatamente precedente a quella della escalation. Tuttavia, difficilmente un tale scenario si potrà verificare, e non certo per un improvviso riverbero delle coscienze civili, ma perché la guerra totale  determinerebbe l’impossibilità di tutelare proprio quegli inconfessabili interessi economici privati – il patrimonio personale di Putin, la vendita di armi dagli USA e dall’Europa, il mantenimento dell’attuale livello del prezzo del gas e del petrolio, solo a titolo di esempio – di tutti gli attori del conflitto, aggressori e difensori, poiché un lungo e logorante confronto bellico costa moltissimo, e rischia di annullare gli enormi profitti già conseguiti. E così, le potenze in guerra si trovano in una fase di stallo, da cui è difficile uscire senza usare la diplomazia internazionale per garantire la conservazione di quegli interessi, sotto l’egida di nuovi equilibri territoriali.

Così è sempre stato, da quando l’uomo ha inventato le armi. Chi ha studiato la Storia Moderna sa bene che l’uso organizzato delle armi è sempre stato il modo in cui il mondo dominato dai regimi autoritari e centralizzati ha preteso di risolvere le controversie tra gli stati. Con l’avvento delle democrazie, e soprattutto grazie al benessere generale permesso dal progresso industriale e tecnologico, l’umanità ha scoperto che in tempo di pace si può prosperare in tanti, senza il pericolo di dover affrontare lunghe e inutili guerre. Lo ha imparato l’Europa, che durante gli ultimi otto decenni di pace si è del tutto disabituata alla stessa idea del conflitto armato, avendo continuato a prosperare – con i dovuti distinguo – in modo pacifico. Non così Gli Stati Uniti e la Russia, che non hanno mai perso l’abitudine all’uso delle armi – dentro fuori del proprio territorio – e questo fa paura agli europei.

Ma siamo sicuri di poter addossare tutte le colpe ai “cattivi” Stati Uniti e Russia, e alleggerire l’Europa di qualunque responsabilità? Paradossalmente, la nascita dell’Unione monetaria europea ha affievolito (e di molto) i modelli democratici venuti fuori nel secondo Dopoguerra, creando un modello “semi-autoritario” di Europa, plasmato ad immagine e somiglianza di alcuni paesi e a discapito di altri. Una simile architettura, così ostinatamente priva di equilibrio, ha già determinato il progressivo accentramento della ricchezza nelle mani di un numero esiguo di persone in rapporto alla popolazione, nonché l’impoverimento della classe media, tradizionale ossatura di ogni vera democrazia. Ebbene, se guardiamo ai decenni trascorsi dopo il 1945, ci accorgiamo che il lungo periodo di pace che ne è seguito ha eretto le sue fondamenta nella iniziale ridistribuzione del reddito a beneficio della classe media, avvenuta fino a tutti gli anni ’80. Pertanto, il legame tra guerra e cattiva distribuzione del reddito – o se vogliamo il legame tra pace e maggiore equità nella redistribuzione dei redditi – conferma la sua validità anche oggi. La stessa Russia è un paese dove pochissimi ultra-ricchi, tutti alla corte del re Putin, dominano una società fondamentalmente povera, dove la classe media è molto sottile.

In sintesi, la guerra in corso, ufficialmente ancora ristretta a livello locale, ci rivela in tutta la sua chiarezza che ci si sta pericolosamente avvicinando alla stessa situazione internazionale che ha generato il primo e il secondo conflitto mondiale: classe media inesistente o ridotta ai minimi termini, ricchezza concentrata nelle mani di una minima percentuale della popolazione, classe politica alla ricerca di privilegi e completamente scollata dalle istanze della popolazione, inflazione elevata e tendente all’aumento, con l’aggiunta del fenomeno moderno – del tutto conseguenziale – della scarsa partecipazione al voto. Non ci sono più i monarchi assoluti e i dittatori in uniforme militare, ma in compenso il costo della guerra continua a pagarlo la popolazione, esattamente come nella prima e seconda guerra mondiale. Le bollette energetiche quintuplicate e l’inflazione al 10% hanno sostituito, in quanto a finanziamento del conflitto, la donazione allo stato delle fedi nunziali e le obbligazioni di guerra.

Russia, Cina e India mai così vicine economicamente. Gli USA trascinano l’Europa verso anni bui

Russia e Cina non erano mai state così vicine nemmeno ai tempi di Stalin e Mao, e adesso sono pronte a rafforzarsi reciprocamente all’interno di un asse politico e commerciale che vede anche l’India sullo sfondo.

Di Massimo Bonaventura

Se esistesse  un premio speciale per i più grandi fallimenti di politica internazionale, quello del 2022 andrebbe assegnato di diritto agli Stati Uniti e all’Europa. A pensarci bene, ai “difensori del mondo” a stelle e strisce – unico paese al mondo che è riuscito per decenni a far passare l’assassinio del proprio presidente per l’atto isolato di un solo omicida – andrebbe assegnato anche il premio alla carriera, in considerazione dei continui atti di ingerenza che l’Americana ha svolto nella politica interna delle più disparate aree geografiche del pianeta, e in relazione ai fallimenti che sono seguiti- Vietnam e Cuba, a puro titolo di esempio – e di cui già oggi si comincia a parlare anche nei libri di storia.

Anche all’Unione Europea, nel caso della guerra scatenata dai russi in Ucraina, va un premio particolare, quello del peggior attore non protagonista. Il conflitto tra NATO/Ucraina e Russia, infatti, vede prevalere la linea degli USA, che in fatto di guerre fanno sempre da padroni in casa d’altri, com’è loro stile. Solo che questo atto di invadenza internazionale rivela in modo spietato l’estrema debolezza di una Europa che, con l’attuale configurazione non è “né carne né pesce”, e adesso ha bisogno come l’aria di trovare quella identità unitaria che in questi frangenti avrebbe permesso di non lasciare il campo libero a chi, da oltreoceano, deve pagare dazio all’industria degli armamenti e al peggiore dei business che la mente umana potesse concepire dopo la tratta degli schiavi.

Il mercato delle armi, sotto certi aspetti, ha caratteristiche molto simili a quello delle scorte di cibo a lunga conservazione e di medicine che ogni paese deve stivare nei magazzini della Protezione Civile, in caso di emergenza alimentare derivante, ad esempio, da una calamità naturale. Allo stesso modo, ogni paese del mondo spende una percentuale variabile del proprio PIL per gli armamenti, stipati nei depositi militari allo scopo di approntare una difesa del territorio in caso di emergenza militare, come quella di dover fronteggiare un’aggressione da parte di un altro paese. Pertanto, sia le scorte di cibo che le scorte di armi vengono accantonate rispondendo al principio di prudenza, nella speranza di non doverle usare mai, e non in base al “principio di belligeranza”, che la totalità degli abitanti del pianeta ha imparato nel tempo a conoscere e a rifiutare.

Per quanto detto sopra, va da sé che nessun paese può permettersi né di provocare una carestia o una calamità naturale, né di provocare un conflitto armato, dovendosi affidare alla diplomazia e al compromesso, senza dare sfogo agli interessi privati di chi vorrebbe vendere agli stati sempre più scorte di cibo e sempre più armi. Questi principi – talmente semplici che li capirebbe anche un bambino di prima elementare – sembrano essere stati traditi del tutto sia da chi ha materialmente scatenato il conflitto sul campo – che non coincide esattamente con la guerra, cominciata prima – sia dai paesi che hanno appoggiato con singolare prontezza la donazione di armi all’Ucraina e, in tal modo, hanno consentito di allungare i tempi del conflitto e di aumentare il numero delle vittime civili, evidentemente ritenute “sacrificabili” in nome di oscuri – nemmeno tanto – interessi di bottega.

E così, mentre all’ONU si continua ipocritamente a parlare di “applicazione dei criteri ESG in ogni ambito della Società Umana” e di “Sostenibilità”, questo scenario di guerra si sta verificando alle porte di una crisi energetica che si sarebbe potuto evitare semplicemente anteponendo la ragionevolezza e il compromesso – materia a cui gli Stati Uniti non sono avvezzi – invece di dare seguito alle mire espansionistiche della NATO a guida americana. Tutti gli attori apicali, infatti, conoscevano bene il livello di spregiudicatezza politica e cinismo militare di Putin, per cui l’invasione dell’Ucraina non è stata certo una sorpresa. L’adozione ed il rispetto dei criteri di sostenibilità, invece, avrebbero comportato la supremazia della via diplomatica, che in questo caso è scandalosamente mancata, e questo dà l’idea di come la strada del conflitto armato fosse non solo prevista, ma addirittura incoraggiata.

Il risultato di questo gravissimo fallimento è sotto gli occhi di tutti: la Russia non è stata messa in ginocchio dalle sanzioni economiche di USA ed Europa, e sta rafforzando come non mai l’interscambio commerciale con la Cina, che è bisognosa delle sue materie prime e rispetta i contratti. Di contro, mentre gli Stati Uniti non hanno perso la propria indipendenza energetica, l’Europa rischia di rimanere con il cerino acceso tra le dita, essendo la vittima predestinata delle ritorsioni russe su gas e petrolio per via della sua cronica dipendenza di materie prime dai paesi posti di fuori del continente.

Del resto, già con la crisi ucraina del 2014 Cina e Russia avevano riscoperto una comune agenda politica ed economica, nonché la necessità di contenere l’invadenza americana nei paesi della ex cortina di ferro. La cosiddetta “primavera ucraina” aveva portato alla luce la collaborazione tra Pechino e Mosca rimasta un pò nell’ombra, consistente nella cooperazione militare, nello scambio di materie prime energetiche e nel commercio. In quella occasione, peraltro, i rapporti di collaborazione nel campo della politica internazionale svelavano una chiara convergenza su Iran, Palestina e Corea del Nord. In più, i rispettivi sistemi economici di Cina e Russia sono accomunati dal fatto che lo stato controlla sia la finanza che i settori strategici come i giacimenti di gas e petrolio. L’interscambio commerciale tra i due paesi è destinato a un’ulteriore accelerazione con l’import cinese di gas siberiano previsto nei prossimi anni, ma la Cina è già oggi il primo partner commerciale della Russia, e quest’ultima è il primo esportatore di energia in Cina.

A breve, per completare il quadro dei fallimenti americani (ed europei) di politica internazionale, sarà il turno dell’India, che con i suoi 1,4 miliardi di abitanti – e altri cinquanta milioni sparsi per il mondo – rappresenta un mercato di sbocco troppo importante anche per la Russia. Infatti, per via del conflitto scatenato in Ucraina, l’Unione Europea nel prossimo futuro non importerà più combustibili provenienti dai giacimenti siberiani. In risposta a ciò, il Cremlino ha deciso di puntare anche sull’India, nazione più popolosa del mondo e partner strategico di vecchia data. In tal modo, si profila tra Mosca e Nuova Delhi una più intensa collaborazione energetica, che rinsalderà i rapporti esistenti fin dai tempi dell’Unione Sovietica.

In definitiva, Russia e Cina non erano mai state economicamente così vicine nemmeno ai tempi di Stalin e Mao, e con l’aggiunta dell’India a fare da linea mediana le due potenze sono pronte a rafforzarsi come reciproci mercati di sbocco privilegiati anche per le materie prime energetiche, che andranno sempre meno verso l’Europa. Quest’ultima, trascinata dagli USA nel buco nero degli aiuti militari all’Ucraina, è ormai disperatamente bisognosa di una propria identità internazionale, senza la quale ci aspettano anni bui.

Area Euro, deboli prospettive di crescita. Pesano guerra e prezzi delle materie prime

Le prospettive economiche dell’area dell’euro si indeboliscono a causa delle pressioni sui costi globali e della guerra in Ucraina. Le proiezioni sull’inflazione sono state riviste al rialzo.

Dall’analisi della stabilità finanziaria del novembre 2021, le prospettive economiche per l’area dell’euro si sono indebolite, mentre le proiezioni sull’inflazione sono state riviste al rialzo. I previsori del settore privato hanno ridimensionato significativamente le loro aspettative di crescita dalla fine dello scorso anno, poiché le ripercussioni della guerra in Ucraina si sono riverberate a livello globale, probabilmente rallentando la ripresa economica.

Le pressioni sui costi che si sono accumulate durante la pandemia di coronavirus sono state amplificate dalla guerra, che ha provocato ulteriori aumenti dei prezzi delle materie prime, influito sulle catene di approvvigionamento e notevolmente indebolito la fiducia dei consumatori. Di conseguenza, le aspettative di consenso sulla crescita del PIL reale nell’area dell’euro nel 2022 sono state declassate al 2,7% (in calo di 1 punto percentuale da fine febbraio), mentre le aspettative di inflazione sono state riviste al rialzo al 6,8% (+2,6 punti percentuali da fine febbraio) (Grafico 1.1, riquadro a).

Sebbene la guerra in Ucraina abbia provocato aumenti sostanziali dei prezzi dell’energia e delle materie prime, l’impatto più diretto attraverso le esportazioni dell’area dell’euro è stato contenuto. Le sanzioni sono servite a isolare in modo significativo l’economia russa, il che si riflette in un forte declassamento delle sue prospettive di crescita economica e in un contemporaneo aumento delle aspettative di inflazione. L’impatto diretto del conflitto sull’economia dell’area dell’euro è stato relativamente modesto. Complessivamente, le esportazioni verso la Russia rappresentano il 3% della domanda estera, con alcuni paesi dell’Europa orientale che hanno esposizioni significativamente maggiori. Modeste anche le importazioni dalla Russia, intorno al 4% del totale. Tuttavia, le cifre principali relativamente piccole per le importazioni e le esportazioni nascondono la maggiore dipendenza dell’area dell’euro in termini di approvvigionamento energetico. L’area dell’euro dipende dalle importazioni russe per il 20% del suo fabbisogno di petrolio e il 35% del gas, con alcune economie più grandi che mostrano livelli di dipendenza ancora maggiori. Di conseguenza, le economie con una quota maggiore dell’energia russa nel loro mix energetico totale potrebbero dover affrontare maggiori sfide nella ricerca di fonti alternative e potrebbero essere più colpite se venissero imposte ulteriori sanzioni.

Il conflitto in Ucraina si è aggiunto alle pressioni inflazionistiche globali preesistenti, poiché la guerra ha aumentato i prezzi delle materie prime utilizzate nell’estrazione o nella lavorazione di altre materie prime (ad esempio acciaio, alluminio) e in quelle utilizzate per produrre fertilizzanti e metalli. L’impennata dei prezzi, così, sta ponendo particolari difficoltà anche all’importazione delle economie dei mercati emergenti come l’India, la Turchia, il Messico ei paesi in via di sviluppo dell’area CEE, che potrebbero registrare aumenti significativi dei dati principali sulla base della ponderazione delle materie prime nei loro panieri di consumo. A queste preoccupazioni si aggiunge la prospettiva di una stretta monetaria globale e delle relative ricadute, che potrebbero avere un effetto negativo sulla sostenibilità del debito nei mercati emergenti.

Le catene di approvvigionamento globali sono sotto pressione dalla fine del 2020 a causa della forte domanda di prodotti manifatturieri, della carenza nella fornitura di alcuni fattori chiave e delle interruzioni nel settore della logistica. Di conseguenza, i tempi di consegna dei fornitori nell’area dell’euro si sono notevolmente allungati nell’ultimo anno, e hanno contribuito a un aumento significativo dei prezzi di produzione. In futuro, è probabile che anche alcune catene di approvvigionamento siano colpite dalla guerra in Ucraina, dato il ruolo significativo, tra l’altro, svolto da Russia e Ucraina nelle esportazioni globali di metalli, tra gli altri. Inoltre, la politica cinese zero-COVID ha portato all’imposizione di rigidi blocchi in diversi centri economici, interrompendo ulteriormente la fornitura di determinati beni. In tal modo, sebbene l’indice dei gestori degli acquisti (PMI) dell’area dell’euro rimanga comodamente in territorio espansivo (55,8 ad aprile 2022), le interruzioni continuano a pesare sul ciclo economico, ritardando la ripresa globale dalla pandemia.

Il rallentamento dell’economia cinese oggi aumenta i rischi al ribasso per la ripresa globale. Le turbolenze nel settore dello sviluppo immobiliare cinese sono proseguite all’inizio del 2022, con la crescita delle vendite di immobili residenziali che è rimasta negativa e i prezzi delle case in ulteriore indebolimento. Inoltre, rigide politiche di contenimento della pandemia stanno deprimendo l’attività economica, che si prevede crescerà di circa il 5% annuo nel periodo 2022-24, significativamente al di sotto della media di lungo termine dell’8%. Un rallentamento dell’economia cinese pone anche ulteriori sfide alle economie dei mercati emergenti con stretti legami finanziari con la Cina. Tutto sommato, questi sviluppi si aggiungono ulteriori rischi al ribasso per le prospettive dell’economia mondiale, con potenziali ripercussioni significative sull’area dell’euro.

Le nuove sfide economiche arrivano in un momento in cui alcuni settori e paesi si stanno ancora riprendendo dallo shock pandemico. Sebbene gli elevati livelli di vaccinazione e la variante meno letale dell’Omicron abbiano consentito alle economie dell’area dell’euro di riaprire ampiamente dall’inizio dell’anno, i settori economici continuano a essere colpiti in modo asimmetrico dalla pandemia.

Ad esempio, l’attività nel settore delle arti e dello spettacolo è ancora in ritardo rispetto ai livelli pre-pandemia, mentre il settore tecnologico ha chiaramente beneficiato delle tendenze di consumo osservate durante la pandemia. Questa frammentazione settoriale si riflette anche nella ripresa economica dei paesi dell’area dell’euro. Alcuni paesi si sono ripresi solo di recente dalla pandemia, ma stanno attualmente affrontando forti pressioni inflazionistiche. Inoltre, a seconda del loro grado di dipendenza commerciale con Russia e Ucraina, alcuni paesi dell’area dell’euro saranno colpiti dalla guerra in Ucraina più di altri, aggravando le asimmetrie nei tassi di crescita e inflazione.

Libera trattazione da:
https://www.ecb.europa.eu/pub/financial-stability/fsr/html/ecb.fsr202205~f207f46ea0.mt.html#toc4

L’inflazione italiana prende fiato ad aprile, ma il trend rimane al rialzo

Le riduzioni delle tasse governative su energia e carburante sono riuscite a fermare l’aumento dell’inflazione complessiva solo temporaneamente. Possibile una stabilizzazione dell’indice dei prezzi al consumo dopo il secondo trimestre.

Di Adriana Cardinale*

Il rallentamento dell’economia italiana nel primo trimestre ha ceduto il passo ad una lieve contrazione, quando l’impatto della guerra in Ucraina ha aggravato altri fattori negativi che avevano già colpito consumatori e imprese. Nonostante le misure compensative messe in atto dal governo, pertanto, sembra altamente probabile una recessione tecnica.

La stima preliminare del PIL del primo quadrimestre 2022 indica una contrazione dello 0,2% su base trimestrale (+5,8% il dato annuale mese su mese), in linea con le aspettative di consenso. Sebbene i dati non lo abbiano ancora confermato, pare che la domanda interna abbia dato un contributo positivo alla crescita trimestrale, soprattutto grazie alle costruzioni – alimentate dai bonus, ogni città è un grande cantiere – ma a frenare sono state le esportazioni nette e i consumi privati, questi ultimi rallentati dalla diminuzione del reddito reale dei consumatori e del livello di fiducia, che ha raggiunto il livello più basso da Novembre 2020.

A livello di macro-settori, è andata bene l’Agricoltura, stabile l’Industria e male il settore dei servizi, ed è possibile che il consuntivo economico del terzo trimestre alla fine sarà uguale a quello precedente, nonostante le misure introdotte dal governo per stemperare gli effetti di una inflazione elevata di lontana memoria – neanche gran parte dei millennials se la ricordano – e del caro-energia che peserà molto quest’anno sull’equilibrio finanziario delle famiglie. Del resto, anche la fiducia delle imprese è ai minimi termini, dal momento che la bassa disponibilità di attrezzature e materiali è ancora di ostacolo alla produzione. Inoltre, la fiducia dei consumatori è nuovamente scesa, sebbene una buona novella sembra arrivare dal settore turistico, che per questa estate e inizio autunno si prevede in grande crescita.

Nel dettaglio, secondo l’ISTAT l’inflazione ad Aprile si è abbassata al 6,2% su base annua dal 6,5% di Marzo), grazie alla riduzione temporanea della tassazione sui carburanti e sui prezzi regolamentati dell’energia, ma senza queste misure l’inflazione complessiva sarebbe aumentata di nuovo. Le pressioni inflazionistiche maggiori provengono dal comparto energia (+42,4%) e dai generi alimentari (6%), mentre nei servizi il tasso di inflazione è stato solo del 2,1%. Le previsioni degli economisti indicano probabili ulteriori pressioni sul fronte dell’inflazione core, dal momento che le imprese riverseranno sui prezzi alla produzione i maggiori costi che hanno ridotto i margini di profitto. Di conseguenza, il governo sarà sottoposto a crescenti pressioni politiche per allargare i cordoni della spesa pubblica e compensare famiglie e imprese, magari prorogando fino a giugno i tagli alle tasse sui carburanti. Questo – attenzione – non farebbe diminuire l’inflazione, ma solo farla stabilizzare intorno al 6,5%, salvo nuovi e più gravi sviluppi dalla guerra in Ucraina e dal caro-petrolio/gas.

In definitiva, il dato peggiore di tutti è quello del sentiment, ossia cosa frulla per la testa degli investitori e cosa sentono “di pancia” i consumatori: nessuno di loro riesce ad abituarsi all’idea di una guerra combattuta sul campo, che si riteneva essere ormai un retaggio del secolo scorso, una cosa da raccontare a figli e nipoti. Invece, di fronte all’atteggiamento della Russia di Putin – e per alcuni anche dell’Ucraina e di Zelensky, ma non entriamo nel merito – persino la Cina ci sembra un tranquillo approdo di pace, equità sociale e democrazia progressista.

* Segreteria di redazione P&F

“Fine guerra mai”. I mercati si adegueranno come nella pandemia?

Nel conflitto scatenato dalla Russia rischiano di prevalere sulla pace gli inconfessabili interessi delle grandi corporations e gli obiettivi di politica internazionale, ma i mercati si adegueranno anche a questo.

di Alessio Cardinale*

Se c’è qualcosa che abbiamo imparato negli ultimi due anni, è che la narrazione sugli eventi più gravi della nostra Storia Moderna si sia ridotta al lumicino: nulla sappiamo sulle origini del Covid-19, e nulla sappiamo sulle cause più segrete di questo conflitto armato, tranne che entrambi gli eventi sono accaduti e producono danni. L’informazione ufficiale, infatti, ci racconta solo metà della storia e si ferma in superficie, ed espone con dovizia di dettagli – molti da verificare, vista la insolita scarsità di giornalisti inviati sullo scenario di guerra – solo gli effetti di questi eventi. Per esempio, a distanza di ben due anni dallo scoppio della pandemia, nessuno dei governi del mondo e nessuna organizzazione sovranazionale ha compiuto una seria indagine sulla origine del Coronavirus, nonostante la Scienza e i mezzi di investigazione a disposizione abbiano fatto passi da gigante; però hanno trovato a tempo di record un vaccino – sulla cui reale efficacia l’informazione non è stata trasparente – e poi lo hanno anche messo in produzione e distribuito in tutto il mondo.

Persino in occasione della diffusione dell’HIV, ben quaranta anni fa, fu possibile identificare l’origine del virus e il c.d. paziente zero, e gli strumenti di indagine non erano certamente quelli di oggi; nel caso del Coronavirus, invece, tutto rimane avvolto dal mistero più fitto, ed è ormai evidente che alla versione del passaggio da animale – i famosi pipistrelli del mercato di Wuhan – a uomo la gente non abbia abboccato. Del resto, dopo l’inganno delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – con cui l’Occidente si è di fatto impadronito dell’Iraq e del suo petrolio – si tende a non credere più alle versioni di USA, Regno Unito ed Unione Europea, e invece si attribuisce sempre più credito allo scenario del “fine virus mai“, che innegabilmente ha spostato enormi ricchezze dai consumatori a specifici settori industriali, grazie alla scelta di produrre il “rimedio” a più alto margine finanziario, ossia il vaccino, anzichè la terapia farmacologica, che è il vero grande assente di questa pandemia insieme alla verità sulle sue origini. I media, infatti, inondano ogni giorno la comunicazione con la narrazione riguardante i vaccini, ma pochissime sono le notizie riguardanti la ricerca sui farmaci efficaci per attaccare l’infezione in modo specifico e curare chi si è contagiato.

Allo stesso modo, non si sente parlare di iniziative diplomatiche volte alla cessazione dei combattimenti, semplicemente perchè non ce ne sono se non di facciata, e gli sforzi di tutti sembrano indirizzati più al mantenimento della conflittualità internazionale che alla mediazione. Nonostante il palpabile oscurantismo dell’informazione ufficiale, però, qualche riflessione è ancora possibile farla, e non abbiamo bisogno della Scienza per comprendere il groviglio di interessi industriali e politici che gravitano attorno a questi due eventi – pandemia e guerra – che stanno avvenendo in rapida successione, ed anzi l’uno dentro l’altro, dal momento che la pandemia è lontana dall’essere dichiarata estinta. Inoltre, la sensazione che Biden e lo stesso Zelensky non abbiano tanta voglia di porre fine a questa guerra – il c.d. “fine guerra mai“, con il suo naturale portato di produzione di armi, distruzione e business della ricostruzione – ormai è forte, così come è evidente che il completo fallimento della diplomazia internazionale

La sensazione, a voler essere un pò complottisti, è che questi ultimi due anni e mezzo abbiano consentito alle corporation più potenti di mettere in atto una sorta di “turnazione” per dividersi i mega profitti ottenuti grazie alla pandemia e alla guerra. Secondo questa improbabile (ma non impossibile) teoria del complotto, il primo turno sarebbe toccato a Big Pharma, che con il business dei vaccini ha messo a segno un jackpot stimato in 35 miliardi di dollari fino ad oggi, destinato ad arrivare ai 100 miliardi entro cinque anni grazie al richiamo annuale che verrà adottato, si stima, da almeno 5 miliardi di individui ogni anno a partire dal prossimo autunno. Il secondo turno sarebbe andato agli estrattori di materie prime fossili, cioè gas e petrolio, da anni alle prese con il differenziale geografico sui costi di estrazione – bassi nei paesi arabi, alti in USA – e, di conseguenza, sul differenziale sugli utili. In particolare, gli stati del Golfo beneficiano di un costo di estrazione di circa 19-22 dollari al barile, mentre gli USA estraggono il loro Shale Oil (petrolio prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso) ad un costo superiore a 45 dollari al barile. E’ evidente, quindi, che gli aumenti vertiginosi sul prezzo del petrolio stiano portando nelle casse dei petrolieri di tutto il mondo utili da capogiro, e solo un aumento mai visto prima della produzione da parte dell’OPEC potrebbe oggi far abbassare il prezzo in costanza di conflitto armato Russia-Resto del Mondo dagli attuali 116 dollari (Brent) ad una quota più sostenibile di 70-80 dollari.

Per fare un esempio in casa nostra, non va male neanche per Eni, che nell’anno dello scoppio del Covid aveva chiuso il bilancio con una perdita di 750 milioni di euro, ma già nell’ultimo trimestre 2021, e cioè quando i venti di guerra sulle fonti energetiche cominciavano a soffiare sul prezzo del gas, aveva aumentato il profitto del 631% rispetto allo stesso periodo del 2020. Oggi, a distanza di due anni dall’inizio dell’emergenza pandemica, Eni chiuderà l’esercizio 2022 con un profitto pari a 4,6 miliardi di euro – il miglior risultato dal 2012 – e ciò è merito dei contratti a lungo termine sulle forniture di gas firmati a suo tempo da Paolo Scaroni e stipulati a prezzi competitivi proprio con la Russia di Putin. Ebbene, secondo una recente inchiesta televisiva trasmessa da RAI3, nessuno conosce il prezzo a cui Eni acquista il gas dalla Russia, poichè i contratti sono segretati; però sappiamo che verrà staccato un utile per azione pari a 0,88 euro, di cui lo Stato beneficerà in proporzione alla sua quota del 30%. Tuttavia, ne beneficeranno anche (e soprattutto) gli azionisti privati con il loro 70%, tra cui tre fondi americani che da soli si spartiranno circa 400 milioni di utili. Tutto legale, per carità, ma questo la dice lunga sul fatto che gli interessi forti di cui parliamo ce li abbiamo anche in casa. Peraltro, a proposito di interessi forti, l’ultima intesa firmata da Eni è stata con l’Egitto, e cioè con il paese che sta ostacolando il processo a carico dei quattro agenti dei servizi segreti egiziani (Nsa) accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso il nostro Giulio Regeni

Il terzo turno, infine, sarebbe toccato all’industria delle armi, che scaldava le polveri già da un pezzo e con questo conflitto così esteso politicamente al di fuori dei confini ucraini sta realizzando utili immensi anche per gli anni a venire. Relativamente alle quote di mercato, gli Stati Uniti detengono la leadership mondiale di esportatori di armi, raddoppiando la distanza proprio con la Russia, che è comunque al secondo posto sia come utilizzatore diretto, sia per via delle richieste provenienti dai clienti del Medio Oriente. L’Italia, nel 2019, era nella top 10, al nono posto, ma con quote di mercato in calo. Usa e Russia, insieme a Francia, Germania e Cina, valgono tre quarti del mercato. In particolare, gli Stati Uniti hanno una quota di mercato del 36%, mentre la Russia è al 25-27%. La Cina, dopo il +195% del realizzato tra il 2004 ed il  2013, nell’ultimo periodo ha visto crescere i suoi affari solo del 2,7%, mentre il fatturato europeo quota un buon 27% del mercato mondiale. 

Relativamente ai mercati, mentre in Europa le tensioni sul fronte ucraino continuano a pesare sul mercato, il presente vede un cambio di posizione della Federal Reserve, e le dichiarazioni di diversi presidenti della FED sembrano confermare la volontà di abbassare drasticamente il bilancio federale e di aumentare i tassi fino a 300 bps entro la fine dell’anno per contenere una inflazione che ha già superato il 7%. Del resto, la narrazione sui crimini di Bucha ha determinato un ulteriore ciclo di sanzioni contro la Russia, in vista dello spostamento del fronte sul vero obiettivo di Putin, ossia la conquista dei territori del Donbass ricchi di materie prime. Se così stanno le cose, non appena la Russia avrà consolidato l’occupazione di quei territori aumenteranno le probabilità della sospensione del conflitto armato e del ritorno della diplomazia. Ciò darà respiro ai mercati finanziari e alle quotazioni, facendo rimanere sullo sfondo la Cina, con il suo carico di mistero sulle sue  future mosse nello scacchiere economico internazionale. 

Pertanto, come si comporteranno i mercati finanziari se anche il conflitto dovesse durare molto di più di quanto non fosse previsto all’inizio? L’esperienza insegna che anche loro si adegueranno a questo trinomio terribile – pandemia, inflazione e guerra – a condizione di mostrare uno spirito di adattamento che neanche in occasione della pandemia si era visto. Per cui ci vorrà più tempo, poichè la congiuntura economica precedente allo scoppio della pandemia era completamente differente da quella che ha preceduto l’inizio del conflitto in Ucraina. Infatti, alla pandemia si è arrivati con un ampio margine di manovra delle banche centrali per adottare politiche monetarie accomodanti, ma l’emergenza sanitaria ha generato interruzioni nella produzione e nelle catene di approvvigionamento di materie prime e semilavorati, e quindi una elevata inflazione per via della domanda dei consumatori che continua ad essere robusta.

La situazione non è facile, poichè mentre si discuteva su come far scendere l’inflazione è arrivata la guerra a mutare gli scenari (che non erano proprio rosei) e a dettare un cambiamento dell’agenda delle banche centrali. Tuttavia, la congiuntura economica non concede più spazio per politiche monetarie accomodanti, e le frizioni sul prezzo di gas e petrolio non fanno altro che alimentare le aspettative di aumento dei prezzi al consumo in molti dei settori che compongono il c.d. paniere.

Come ne usciremo?

* Editore e direttore editoriale di  Patrimoni&Finanza

 

Newsletter n° 3: “Dei disastri e delle opportunità”

La cosa peggiore che possa capitare agli operatori dei mercati finanziari è non poter intravedere né l’entità del disastro, né la sua fine in ordine di tempo. Solo quando tutto sarà più chiaro, si comincerà finalmente a riparlare di opportunità.

Il secondo trimestre dell’anno si è aperto confermando i principali fattori di rischio che hanno influenzato i mercati nelle settimane precedenti. Infatti, gli investitori sono preoccupati da un restringimento troppo rapido e aggressivo delle condizioni finanziarie da parte della FED che intende rallentare l’economia per spegnere l’inflazione “rovente”. Peraltro, le minute dell’ultima riunione del FOMC (15-16 marzo) sono state appena pubblicate, evidenziando che diversi membri del Comitato di politica monetaria volessero alzare il costo del denaro di 50bps, invece dei 25bps poi votati per via della maggiore incertezza sulla fine del conflitto Russia-Ucraina. Di conseguenza, molti analisti ritengono che fin dai prossimi meeting delle banche centrali – della Fed in particolare – i rialzi di 50bps saranno la norma. A questo si aggiunge la volontà della Federal Reserve di ridurre il bilancio in modo repentino, nella misura di 95 miliardi ogni mese, e questo peggiora lo scenario generale.

LEGGI ANCHE: Il mercato immobiliare USA è caldo, la Fed riuscirà a raffreddarlo prima che esploda?

Sul versante geo-politico internazionale, Ursula Von Der Leyen ha incontrato a Kiev il presidente ucraino Zelensky e gli ha ribadito il sostegno incrollabile nella lotta contro l’invasione russa, soprattutto in risposta alle violazioni e agli abusi del diritto umanitario da parte delle truppe russe. Per gli stessi motivi, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato la sospensione della Russia dal Consiglio per i diritti umani. Tutto questo, è evidente, getta benzina sul fuoco, aumenta le preoccupazioni dei mercati e segna la sconfitta definitiva della diplomazia, grande assente in questa guerra il cui grado di coinvolgimento politico sta diventando sempre più mondiale.

I mercati finanziari globali, invece, sono più che mai desiderosi di un accordo almeno sulla fine al conflitto armato, ma Zelensky ha fatto sapere che “se ne parlerà dopo la grande battaglia sul Donbass”, in ciò rivelando assoluto disinteresse per il canale diplomatico anche di fronte all’arretramento delle truppe russe dalla capitale ucraina. Pertanto, bisogna essere preparati a rivedere le decisioni di politica monetaria qualora la pressione sui prezzi dell’energia e il conflitto Russia-Ucraina dovessero comportare un rallentamento marcato dell’economia mondiale.

LEGGI ANCHE: Come investire quando i tassi di interesse aumentano?

A ben vedere, si tratta dell’incubo peggiore per le banche centrali, che amano i cicli economici regolari (e senza strappi, sia in aumento che diminuzione) e odiano doversi destreggiare all’interno di un contesto che lascia aperta la possibilità di agire rapidamente sia con una stretta che con un allentamento, o peggio ancora con una alternanza di azioni simmetricamente contrarie. Relativamente alla Cina – che formalmente ha assunto un atteggiamento fin troppo prudente sulla guerra, ma tradisce spesso la sua simpatia per la Russia di Putin e per le sue materie prime – i dati rivelano una contrazione della propria attività manifatturiera per la prima volta in cinque mesi, per via del contagio galoppante che, nel paese che ha adottato la politica del “contagio zero”, costringe intere città (e fabbriche) a chiudere dalla mattina al pomeriggio finchè nella zona anche l’ultimo contagiato non si sarà negativizzato.

LEGGI ANCHE: La Fed rallenta l’economia per spegnere l’inflazione. Titoli growth giù, ma i value fanno peggio

Nel frattempo, l’inflazione in USA continua a salire +6.4% rispetto a un anno prima, ai massimi dal 1983. In Italia siamo a +6.7% su base annua, e in Europa non si scherza. Colpa delle frizioni sulle materie prime, petrolio e gas in primis, che costringono i capi di stato ad intraprendere azioni di sostegno straordinario sui prezzi, i quali non accennano a scendere a causa della situazione Russo-Ucraina.

LEGGI ANCHE: Un “nuovo ordine mondiale” alla guida di azioni e obbligazioni

Del resto, la Russia costituisce il secondo più grande esportatore di greggio del mondo, e fornisce all’Europa oltre il 40% del suo fabbisogno totale di gas e il 27% delle importazioni di petrolio.

In definitiva, la situazione si potrebbe riassumere citando una frase che Boris Jonhson pronunciò nel (lontanissimo) 2004: “Non ci sono disastri, ma solo opportunità. E, in effetti, anche opportunità per nuovi disastri”.