Nel conflitto scatenato dalla Russia rischiano di prevalere sulla pace gli inconfessabili interessi delle grandi corporations e gli obiettivi di politica internazionale, ma i mercati si adegueranno anche a questo.
di Alessio Cardinale*
Se c’è qualcosa che abbiamo imparato negli ultimi due anni, è che la narrazione sugli eventi più gravi della nostra Storia Moderna si sia ridotta al lumicino: nulla sappiamo sulle origini del Covid-19, e nulla sappiamo sulle cause più segrete di questo conflitto armato, tranne che entrambi gli eventi sono accaduti e producono danni. L’informazione ufficiale, infatti, ci racconta solo metà della storia e si ferma in superficie, ed espone con dovizia di dettagli – molti da verificare, vista la insolita scarsità di giornalisti inviati sullo scenario di guerra – solo gli effetti di questi eventi. Per esempio, a distanza di ben due anni dallo scoppio della pandemia, nessuno dei governi del mondo e nessuna organizzazione sovranazionale ha compiuto una seria indagine sulla origine del Coronavirus, nonostante la Scienza e i mezzi di investigazione a disposizione abbiano fatto passi da gigante; però hanno trovato a tempo di record un vaccino – sulla cui reale efficacia l’informazione non è stata trasparente – e poi lo hanno anche messo in produzione e distribuito in tutto il mondo.
Persino in occasione della diffusione dell’HIV, ben quaranta anni fa, fu possibile identificare l’origine del virus e il c.d. paziente zero, e gli strumenti di indagine non erano certamente quelli di oggi; nel caso del Coronavirus, invece, tutto rimane avvolto dal mistero più fitto, ed è ormai evidente che alla versione del passaggio da animale – i famosi pipistrelli del mercato di Wuhan – a uomo la gente non abbia abboccato. Del resto, dopo l’inganno delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – con cui l’Occidente si è di fatto impadronito dell’Iraq e del suo petrolio – si tende a non credere più alle versioni di USA, Regno Unito ed Unione Europea, e invece si attribuisce sempre più credito allo scenario del “fine virus mai“, che innegabilmente ha spostato enormi ricchezze dai consumatori a specifici settori industriali, grazie alla scelta di produrre il “rimedio” a più alto margine finanziario, ossia il vaccino, anzichè la terapia farmacologica, che è il vero grande assente di questa pandemia insieme alla verità sulle sue origini. I media, infatti, inondano ogni giorno la comunicazione con la narrazione riguardante i vaccini, ma pochissime sono le notizie riguardanti la ricerca sui farmaci efficaci per attaccare l’infezione in modo specifico e curare chi si è contagiato.
Allo stesso modo, non si sente parlare di iniziative diplomatiche volte alla cessazione dei combattimenti, semplicemente perchè non ce ne sono se non di facciata, e gli sforzi di tutti sembrano indirizzati più al mantenimento della conflittualità internazionale che alla mediazione. Nonostante il palpabile oscurantismo dell’informazione ufficiale, però, qualche riflessione è ancora possibile farla, e non abbiamo bisogno della Scienza per comprendere il groviglio di interessi industriali e politici che gravitano attorno a questi due eventi – pandemia e guerra – che stanno avvenendo in rapida successione, ed anzi l’uno dentro l’altro, dal momento che la pandemia è lontana dall’essere dichiarata estinta. Inoltre, la sensazione che Biden e lo stesso Zelensky non abbiano tanta voglia di porre fine a questa guerra – il c.d. “fine guerra mai“, con il suo naturale portato di produzione di armi, distruzione e business della ricostruzione – ormai è forte, così come è evidente che il completo fallimento della diplomazia internazionale.
La sensazione, a voler essere un pò complottisti, è che questi ultimi due anni e mezzo abbiano consentito alle corporation più potenti di mettere in atto una sorta di “turnazione” per dividersi i mega profitti ottenuti grazie alla pandemia e alla guerra. Secondo questa improbabile (ma non impossibile) teoria del complotto, il primo turno sarebbe toccato a Big Pharma, che con il business dei vaccini ha messo a segno un jackpot stimato in 35 miliardi di dollari fino ad oggi, destinato ad arrivare ai 100 miliardi entro cinque anni grazie al richiamo annuale che verrà adottato, si stima, da almeno 5 miliardi di individui ogni anno a partire dal prossimo autunno. Il secondo turno sarebbe andato agli estrattori di materie prime fossili, cioè gas e petrolio, da anni alle prese con il differenziale geografico sui costi di estrazione – bassi nei paesi arabi, alti in USA – e, di conseguenza, sul differenziale sugli utili. In particolare, gli stati del Golfo beneficiano di un costo di estrazione di circa 19-22 dollari al barile, mentre gli USA estraggono il loro Shale Oil (petrolio prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso) ad un costo superiore a 45 dollari al barile. E’ evidente, quindi, che gli aumenti vertiginosi sul prezzo del petrolio stiano portando nelle casse dei petrolieri di tutto il mondo utili da capogiro, e solo un aumento mai visto prima della produzione da parte dell’OPEC potrebbe oggi far abbassare il prezzo in costanza di conflitto armato Russia-Resto del Mondo dagli attuali 116 dollari (Brent) ad una quota più sostenibile di 70-80 dollari.
Per fare un esempio in casa nostra, non va male neanche per Eni, che nell’anno dello scoppio del Covid aveva chiuso il bilancio con una perdita di 750 milioni di euro, ma già nell’ultimo trimestre 2021, e cioè quando i venti di guerra sulle fonti energetiche cominciavano a soffiare sul prezzo del gas, aveva aumentato il profitto del 631% rispetto allo stesso periodo del 2020. Oggi, a distanza di due anni dall’inizio dell’emergenza pandemica, Eni chiuderà l’esercizio 2022 con un profitto pari a 4,6 miliardi di euro – il miglior risultato dal 2012 – e ciò è merito dei contratti a lungo termine sulle forniture di gas firmati a suo tempo da Paolo Scaroni e stipulati a prezzi competitivi proprio con la Russia di Putin. Ebbene, secondo una recente inchiesta televisiva trasmessa da RAI3, nessuno conosce il prezzo a cui Eni acquista il gas dalla Russia, poichè i contratti sono segretati; però sappiamo che verrà staccato un utile per azione pari a 0,88 euro, di cui lo Stato beneficerà in proporzione alla sua quota del 30%. Tuttavia, ne beneficeranno anche (e soprattutto) gli azionisti privati con il loro 70%, tra cui tre fondi americani che da soli si spartiranno circa 400 milioni di utili. Tutto legale, per carità, ma questo la dice lunga sul fatto che gli interessi forti di cui parliamo ce li abbiamo anche in casa. Peraltro, a proposito di interessi forti, l’ultima intesa firmata da Eni è stata con l’Egitto, e cioè con il paese che sta ostacolando il processo a carico dei quattro agenti dei servizi segreti egiziani (Nsa) accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso il nostro Giulio Regeni.
Il terzo turno, infine, sarebbe toccato all’industria delle armi, che scaldava le polveri già da un pezzo e con questo conflitto così esteso politicamente al di fuori dei confini ucraini sta realizzando utili immensi anche per gli anni a venire. Relativamente alle quote di mercato, gli Stati Uniti detengono la leadership mondiale di esportatori di armi, raddoppiando la distanza proprio con la Russia, che è comunque al secondo posto sia come utilizzatore diretto, sia per via delle richieste provenienti dai clienti del Medio Oriente. L’Italia, nel 2019, era nella top 10, al nono posto, ma con quote di mercato in calo. Usa e Russia, insieme a Francia, Germania e Cina, valgono tre quarti del mercato. In particolare, gli Stati Uniti hanno una quota di mercato del 36%, mentre la Russia è al 25-27%. La Cina, dopo il +195% del realizzato tra il 2004 ed il 2013, nell’ultimo periodo ha visto crescere i suoi affari solo del 2,7%, mentre il fatturato europeo quota un buon 27% del mercato mondiale.
Relativamente ai mercati, mentre in Europa le tensioni sul fronte ucraino continuano a pesare sul mercato, il presente vede un cambio di posizione della Federal Reserve, e le dichiarazioni di diversi presidenti della FED sembrano confermare la volontà di abbassare drasticamente il bilancio federale e di aumentare i tassi fino a 300 bps entro la fine dell’anno per contenere una inflazione che ha già superato il 7%. Del resto, la narrazione sui crimini di Bucha ha determinato un ulteriore ciclo di sanzioni contro la Russia, in vista dello spostamento del fronte sul vero obiettivo di Putin, ossia la conquista dei territori del Donbass ricchi di materie prime. Se così stanno le cose, non appena la Russia avrà consolidato l’occupazione di quei territori aumenteranno le probabilità della sospensione del conflitto armato e del ritorno della diplomazia. Ciò darà respiro ai mercati finanziari e alle quotazioni, facendo rimanere sullo sfondo la Cina, con il suo carico di mistero sulle sue future mosse nello scacchiere economico internazionale.
Pertanto, come si comporteranno i mercati finanziari se anche il conflitto dovesse durare molto di più di quanto non fosse previsto all’inizio? L’esperienza insegna che anche loro si adegueranno a questo trinomio terribile – pandemia, inflazione e guerra – a condizione di mostrare uno spirito di adattamento che neanche in occasione della pandemia si era visto. Per cui ci vorrà più tempo, poichè la congiuntura economica precedente allo scoppio della pandemia era completamente differente da quella che ha preceduto l’inizio del conflitto in Ucraina. Infatti, alla pandemia si è arrivati con un ampio margine di manovra delle banche centrali per adottare politiche monetarie accomodanti, ma l’emergenza sanitaria ha generato interruzioni nella produzione e nelle catene di approvvigionamento di materie prime e semilavorati, e quindi una elevata inflazione per via della domanda dei consumatori che continua ad essere robusta.
La situazione non è facile, poichè mentre si discuteva su come far scendere l’inflazione è arrivata la guerra a mutare gli scenari (che non erano proprio rosei) e a dettare un cambiamento dell’agenda delle banche centrali. Tuttavia, la congiuntura economica non concede più spazio per politiche monetarie accomodanti, e le frizioni sul prezzo di gas e petrolio non fanno altro che alimentare le aspettative di aumento dei prezzi al consumo in molti dei settori che compongono il c.d. paniere.
Come ne usciremo?
* Editore e direttore editoriale di Patrimoni&Finanza