Ottobre 12, 2025
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Bce, nuove misure sul clima nella politica monetaria

Il Consiglio direttivo della Bce ha deciso di adottare misure specifiche per integrare il cambiamento climatico nell’assetto di politica monetaria dell’Eurosistema. L’Economia italiana si dimostra resiliente rispetto alle avversità di questo periodo.

(ITALPRESS) Il Consiglio direttivo della Bce ha deciso di adeguare le consistenze di obbligazioni societarie nei portafogli detenuti per finalità di politica monetaria e il sistema delle garanzie dell’Eurosistema, di introdurre obblighi di informativa relativi al clima e di migliorare le prassi di gestione dei rischi. Queste misure sono concepite in piena compatibilità con l’obiettivo primario dell’Eurosistema di mantenere la stabilità dei prezzi. Mirano a tenere in maggiore considerazione il rischio finanziario connesso al clima nel bilancio dell’Eurosistema e a sostenere la transizione verde dell’economia in linea con gli obiettivi di neutralità climatica dell’UE.

Le misure intendono anche incentivare le imprese e le istituzioni finanziarie ad accrescere la trasparenza in merito alle loro emissioni di carbonio e a ridurle. “Con queste decisioni traduciamo il nostro impegno per la lotta al cambiamento climatico in un’azione tangibile”, dichiara la presidente della Bce Christine Lagarde. “Nell’ambito del nostro mandato, stiamo compiendo passi concreti per integrare il cambiamento climatico nelle operazioni di politica monetaria. E seguiranno altre iniziative, nel quadro della nostra agenda per il clima in divenire, per allineare le nostre attività agli obiettivi dell’Accordo di Parigi“, aggiunge.

L’Eurosistema mira a decarbonizzare gradualmente le proprie consistenze di obbligazioni societarie, seguendo un percorso in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Al tal fine, l’Eurosistema orienterà queste consistenze in favore di emittenti con migliori risultati sul piano climatico reinvestendo i considerevoli rimborsi attesi nei prossimi anni. Migliori risultati dal punto di vista climatico saranno misurati in termini di minori emissioni di gas serra, obiettivi di riduzione del carbonio più ambiziosi e una migliore informativa in relazione al clima. La Bce si attende che le misure siano applicate a partire da ottobre 2022; poco prima saranno comunicati maggiori dettagli. Inoltre, dal primo trimestre del 2023 la Bce inizierà a pubblicare con cadenza regolare informazioni di carattere climatico sulle consistenze di obbligazioni societarie.

L’Eurosistema limiterà la quota di attività emesse da soggetti con un’impronta di carbonio elevata che possono essere stanziate a garanzia dalle singole controparti nelle operazioni di rifinanziamento dell’Eurosistema. Il nuovo regime di limiti è inteso a ridurre i rischi finanziari connessi al clima in tali operazioni. Questa misura sarà applicata secondo le attese prima della fine del 2024, purchè sussistano i presupposti tecnici necessari. Per incoraggiare le banche e le altre controparti a prepararsi per tempo, l’Eurosistema sottoporrà a test il regime di limiti prima della sua effettiva applicazione. In aggiunta, a partire da quest’anno l’Eurosistema terrà conto dei rischi climatici nel riesame degli scarti applicati alle obbligazioni societarie stanziate a garanzia. L’Eurosistema accetterà in garanzia per le proprie operazioni di rifinanziamento soltanto attività negoziabili e crediti di imprese e debitori conformi alla direttiva relativa alla comunicazione societaria sulla sostenibilità (CSRD), una volta attuata pienamente.

Poichè il recepimento della CSDR (Central Securities Depository Regulation, n.d.r.) ha subito ritardi, i nuovi criteri di idoneità dovrebbero applicarsi a partire dal 2026. L’Eurosistema affinerà ulteriormente i propri strumenti e le proprie capacità di valutazione per cogliere meglio i rischi climatici. Ha inoltre stabilito una serie di standard minimi comuni su come i sistemi di valutazione interni delle banche centrali nazionali dovrebbero integrare i rischi climatici nei loro rating. Questi standard entreranno in vigore alla fine del 2024.

Relativamente all’economia italiana, i dati ci dicono che si sta dimostrando resiliente alla guerra in Ucraina, alle strozzature dell’offerta e all’aumento dei prezzi delle materie prime, e dovrebbe continuare a crescere nel primo trimestre del 2023 dopo i dati “rassicuranti” del Pil del secondo trimestre. Lo ha detto il direttore generale della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, in un’intervista a Mni-Market News. “Dal 2021, i dati consuntivi tendono a sorprendere positivamente rispetto alle previsioni degli analisti, confermando la buona performance complessiva dell’economia italiana in questi tempi difficili”, ha detto Signorini, indicando i dati pubblicati la scorsa settimana che confermano la crescita del Pil all’1% nel secondo trimestre rispetto al primo. Signorini si è detto fiducioso che la crescita dovrebbe continuare nel 2023, in linea con le recenti previsioni della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. (ITALPRESS).

L’Italia, l’Europa e il peccato originale

Molti si chiedono cosa potrà succedere in autunno al potere d’acquisto degli italiani, ma molti dimenticano che la situazione attuale è il risultato di un “suicidio internazionale”  istigato da chi ci governava negli anni ’90.

Di Alessio Cardinale

Cosa potrebbe succedere in autunno ai prezzi dell’energia? I russi taglieranno la fornitura di gas e non potremo più riscaldare per bene le nostre case? Subiremo un razionamento? A che livello sarà l’inflazione? Queste sono le domande più frequenti che oggi vengono indotte dai media italiani quotidianamente, quasi a prepararci a sacrifici simili a quelli raccontati dai nostri genitori quando molti di noi erano bambini e che nessuno di noi aveva mai pensato di dover fare. Contestualmente, gli amanti della teoria del complotto potrebbero pensare che una tale concentrazione dei mezzi di informazione su scenari così funesti sia un tantino allarmistica, e serva in realtà per “anestetizzare” il ricordo dei guasti che gli italiani stanno vivendo da circa venti anni, da quando, cioè, la Moneta Unica ha preso ufficialmente il sopravvento sulla Lira, e il regolamento della Bce ha relegato la Banca D’Italia a naturale gregario di un board a guida tedesca.

Oggi esistono sostanzialmente tre scuole di pensiero riguardo l’Unione Europea: a) i perennemente soddisfatti di starvi dentro, che prima erano addirittura entusiasti e oggi approvano per principio qualunque decisione dei massimi organi europei, anche quelle più penalizzanti per l’Italia; b) gli scontenti, che prima erano molto contenti, i quali si sentono traditi dall’Unione Europea dove vorrebbero continuare a stare, ma non più a queste condizioni; c) gli incazzati neri, che prima erano persino felici di entrare in Europa e che da tempo si sentono vittime di un inganno della banda Prodi & Co. Ad alimentare queste tre principali scuole di pensiero, una pletora di correnti minoritarie dove sentimenti negativi e finalità politiche si mischiano tra posizioni estreme o del tutto agnostiche.

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Tutti costoro, tuttavia, hanno smesso di farsi la domanda fondamentale da cui dipende il “peccato originale” dell’ingresso in Europa: “a cosa serve l’Unione Europea?”.  E’ una domanda semplice, ma se provate a darvi oggi una risposta tecnicamente lucida – al bando i sentimenti per una decina di minuti – non lo troverete affatto facile. Personalmente, ho condotto un breve sondaggio tra alcune delle mie decine di conoscenze qualificate e meno qualificate, sottoponendo una “batteria” di possibili risposte e chiedendo di sceglierne al massimo tre. Il terzetto che ha avuto il maggior numero di preferenze è stato quello formato da “a essere tutti più ricchi”, “ad avere un futuro migliore” e “a dare opportunità lavorative ai nostri figli”. In sintesi, l’Europa servirebbe essenzialmente a migliorare la propria posizione in termini di ricchezza/capitale e di opportunità/lavoro. Su tutte le risposte, aleggia il fantasma della povertà, che determina a sua volta il desiderio di migliorare.

Povertà, capitale e lavoro altro non sono che i principali elementi di base di qualunque modello macroeconomico. Quello dell’Unione Europea è il modello liberista/capitalista: uguaglianza di fronte alla legge e pari opportunità dell’individuo in tutti gli ambiti della Società, riconoscimento del valore della proprietà privata, della libertà d’impresa e delle diversità economiche nella popolazione. Questo modello, a ben vedere, non prevede l’assenza di povertà, ma fa sì che chi è meno abbiente possa “scalare posizioni” e raggiungere i livelli sociali superiori, aumentando il proprio benessere e, sopra ogni cosa, auto-realizzandosi. Questo accade perché il modello liberista/capitalista si basa sulla differente condizione economica della società civile, facendone un punto di forza e centro vitale delle aspirazioni individuali. Ed è su questo concetto di diversità economica come occasione di crescita che si regge anche l’Unione Europea, al cui interno coesistono paesi più ricchi e paesi più poveri, ognuno dei quali rimane “diverso”, ma condivide una moneta, rinunciando per questo alla propria sovranità monetaria.

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Dall’Unione Europea, pertanto, ci si attenderebbe che le fasce meno abbienti diventino “meno meno abbienti”, che le fasce medie possano aspirare a diventare benestanti e così via, fino a scalare quante più posizioni possibili – anche dall’ultima alla prima – secondo il criterio meritocratico. E se da questa successione di pari opportunità deve derivare la cessione di sovranità sulla politica monetaria, ben venga, ma il meccanismo descritto non può e non deve prevedere il condizionamento della politica interna dei singoli stati al di fuori di ciò che è previsto dai Regolamenti Europei, peraltro senza dare nulla in cambio in termini di benessere generale e sicurezza sociale. Al contrario, l’Italia fin dal suo ingresso nell’UE ha subito una gravissima ingerenza dell’Europa nelle politiche interne e, in venti anni, l’economia del nostro Paese ha fatto talmente tanti passi indietro da fare rimpiangere a molti la Lira e i bei tempi andati.

Pertanto, ci si chiede per quale motivo la speculazione sui nostri titoli di stato continui a ripresentarsi periodicamente, visto che l’EU è sorta proprio per rafforzare la moneta comune ed evitare gli assalti della speculazione. Se l’Unione Europea è nata per difendere, collateralmente, le singole economie degli stati aderenti, come è possibile che dopo solo venti anni si sia già arrivati ad una “questione meridionale europea”, talmente conclamata da diventare un caso di scuola studiato dagli economisti nelle più importanti università americane? Il problema risiede nel “peccato originale”, commesso nel periodo antecedente alla adesione ufficiale dell’Italia alla Moneta Unica, durante il quale chi ci governava ha diffuso consapevolmente una propaganda ingannevole sui benefici derivanti dall’ingresso nell’Euro.

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E così, sulla scia di questo peccato originale, si è arrivati ai giorni nostri e allo scudo anti-spread, che si è rivelato come l’ennesima prova dell’uso politico della Moneta Unica da parte dei Paesi del Nord Europa, pur non essendo l’UE una unione politica e fiscale. Per averne la dimostrazione, basta leggere le condizioni più preoccupanti imposte per l’entrata in funzione dello Scudo: 1) la decisione su quali titoli acquistare, e di quale stato emittente, sarà presa discrezionalmente dal Consiglio Direttivo Europeo in base ad una valutazione “accurata e severa”; 2) il Paese destinatario non deve trovarsi in condizione di elevato disavanzo e non essere sottoposto a procedura di infrazione per eccessivi squilibri macroeconomici; 3) il suo debito pubblico deve essere sostenibile, e la valutazione di tale sostenibilità sarà a cura della Bce, di concerto con la Commissione europea, il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) e il FMI (Fondo Monetario Internazionale); 4) La Bce deve vedere segnali di panico sui mercati obbligazionari per attivare il meccanismo anti-frammentazione.

Il punto n. 1 sancisce il principio della indeterminatezza dell’intervento, che viene così lasciato alla discrezionalità dei Paesi frugali, e cioè quelli che non perdono mai l’occasione (neanche in pandemia) di effettuare “valutazioni accurate e severe” su tutto ciò che riguarda il Sud dell’Europa, salvo glissare sul proprio livello effettivo di tassazione delle imprese che li pone in regime di concorrenza sleale verso gli altri Paesi UE. Il punto n. 2 è talmente rischioso per l’Italia – per via dei suoi “regolari” squilibri economici – da risultare persino minaccioso. Questa sensazione aumenta leggendo il punto n. 3, che traccia in modo lucido lo scenario da “sindrome greca” in cui potrebbe trovarsi l’Italia di fronte allo schieramento della triade BCE-MES-FMI. Relativamente al punto n. 4, infine, il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco ha chiarito magistralmente come e quando lo Scudo potrebbe essere chiamato in causa: “se domani cominciamo a vedere 250, 255, 260 e così via, e cioè qualcosa che indica che c’è panico nel mercato, noi agiamo e uccidiamo il panico sul mercato“.

Nessuna attività di prevenzione, quindi, ma solo un intervento a danni già iniziati, proprio quello che la politica monetaria non deve mai fare. Qualunque banca centrale, infatti, detiene l’onere di agire in anticipo, sulla base degli indicatori economici, in modo da scongiurare gli effetti negativi di una certa congiuntura. Arrivare quando gli eventi che si dovrebbero scongiurare hanno già iniziato a manifestarsi è un contegno tipico della politica, che agisce soltanto di fronte a fatti che, per la loro gravità, richiedono il suo intervento quando sono già accaduti.

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Pertanto, il c.d. scudo anti-spread è una mossa di natura politica, mascherata da strumento tecnico-economico. E’ una operazione di facciata, che rappresenta l’abdicazione a fini politici della Bce dai propri doveri di “intervento preventivo” e che dovrebbe far preoccupare moltissimo gli italiani, i quali fino a Settembre saranno debitamente distratti dalla campagna elettorale più affrettata e breve della storia della Repubblica, il cui esito non è affatto scontato come qualcuno vorrebbe far credere.

Lo scudo anti-spread e la trappola della Bce, spiegata bene

Quasi un mese ha impiegato Christine Lagarde per svelare le carte sul c.d. scudo anti-spread, e chiarire che si tratta di una finta ”arma di de-frammentazione di massa”, incapace di svolgere il compito per cui sarebbe nata.  

Di Alessio Cardinale

Dopo più di venti anni dalla sua entrata in funzione, possiamo dire che oggi esistono due Europe. La prima è quella sognata, l’Europa dei popoli mai attuata nonostante le promesse da marinaio della ditta Prodi & co.; la seconda è quella reale, alla quale di unire i popoli europei non importa nulla e, anzi, si nutre delle numerose diversità (climatiche, linguistiche, paesaggistiche, sociali e soprattutto economiche) per bloccare ogni afflato di modernità e conservare accuratamente gli stessi confini – quelli sociali, infrastrutturali e produttivi – che nessun trattato amministrativo potrà mai rimuovere. E così, la seconda Europa ha ucciso ogni giorno, lentamente, il sogno di tanti cittadini del Sud del continente, mostrando il volto severo della Germania e dei paesi c.d. frugali, con la Francia sullo sfondo a cui è sempre interessato non essere infastidita nella sua attività di shopping delle migliori aziende straniere, soprattutto italiane (salvo impedire alle nostre di fare altrettanto).

Sono questi gli equilibri su cui si regge l’Unione Europea, e difficilmente potranno cambiare finchè la Natura non richiamerà a sé l’attuale classe dirigente, cresciuta a “pane e Germania”; quella stessa Germania che, portando dentro di sé i benefici effetti derivanti dall’unificazione post-sovietica, non ha voluto trasmettere all’Unione Europea il suo stesso esempio politicamente illuminante, pensando che sarebbe stato più conveniente far permanere una certa fragilità economica nei Paesi del Sud Europa come l’Italia, che prima del 2000 era un pericoloso competitor da tenere a bada.  Parimenti, da questi equilibri sono derivati gli eventi economici degli ultimi dieci anni e tutte le misure intraprese che, contrariamente al comune sentire, hanno salvato soprattutto Germania e Paesi frugali dallo spettro della disgregazione di questo modello economico a due velocità, tanto conveniente per le economie del Nord.

Seguendo questa scia è stato concepito il bluff dello scudo anti-spread. Dopo essere stato annunciato solennemente, il silenzio sul suo effettivo funzionamento – svelato solo qualche giorno fa, a distanza di circa tre settimane – ha fatto intendere a tutti che si sarebbe trattato di una creatura guidata da ciniche finalità politiche, tirata fuori dal cilindro di un prestigiatore che con una mano regge il mazzo di carte, e con l’altra ti distrae per non svelare il suo trucco. Già il giorno successivo all’annuncio, infatti, la sensazione che la Bce non avesse varato nulla di buono si era diffusa nei mercati, i quali hanno continuato imperterriti a penalizzare i BTP e lo spread. Quando, poi, il board della Banca Centrale si è finalmente  messo d’accordo su come far pagare pegno all’Italia, le condizioni di utilizzo dello “Scudo” hanno confermato la sua incapacità di raggiungere i suoi obiettivi teorici, e cioè di impedire gli attacchi speculativi contro i titoli emessi dal Meridione d’Europa.

Le condizioni imposte per l’entrata in funzione dello Scudo sono ormai note, ma vale la pena riassumerle:
1) verranno acquistati titoli di Stato ed altri titoli con scadenza fra uno e dieci anni;
2) la decisione su quali titoli acquistare, e di quale stato emittente, sarà presa discrezionalmente dal Consiglio Direttivo Europeo in base ad una valutazione “accurata e severa”;
3) il Paese destinatario non deve trovarsi in condizione di elevato disavanzo e non essere sottoposto a procedura di infrazione per eccessivi squilibri macroeconomici;
4) il suo debito pubblico deve essere sostenibile, e la valutazione di tale sostenibilità sarà a cura della Bce, di concerto con la Commissione europea, il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) e il FMI (Fondo Monetario Internazionale);
5) il Paese beneficiario deve rispettare l’impegno preso con il PNRR nell’ambito del semestre europeo;
6) la Bce deve vedere segnali di panico sui mercati obbligazionari per attivare il meccanismo anti-frammentazione.
Relativamente a quest’ultimo punto, il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco ha chiarito magistralmente come e quando lo Scudo potrebbe essere chiamato in causa: “se domani cominciamo a vedere 250, 255, 260 e così via, e cioè qualcosa che indica che c’è panico nel mercato, noi agiamo e uccidiamo il panico sul mercato”. Nessuna prevenzione, quindi, ma solo un intervento a danni già iniziati, proprio quello che la politica monetaria non deve mai fare. Qualunque banca centrale, infatti, detiene l’onere di agire in anticipo, sulla base degli indicatori economici, in modo da scongiurare gli effetti negativi di una certa congiuntura. Arrivare quando gli eventi che si dovrebbero scongiurare hanno già iniziato a manifestarsi è un contegno tipico della politica, che agisce soltanto di fronte a fatti che, per la loro gravità, richiedono il suo intervento quando sono già accaduti. Pertanto, il c.d. scudo anti-spread è una mossa di natura politica mascherata da strumento tecnico-economico, peraltro privo della sufficiente efficacia.   

Quanta nostalgia del “whatever it takes” di Mario Draghi, con il quale l’ex Presidente del Consiglio improvvisò un discorso per rasserenare gli animi e dichiarò che la Bce “avrebbe fatto tutto ciò che serviva” per difendere la moneta unica. A partire da quel discorso di dieci anni fa, la Bce diventò un po’ italiana, suscitandole proteste della Bundesbank e dell’opposizione, ma l’alternativa alla visione di Draghi sarebbe stata, anche allora, la disgregazione dell’euro, e questo non andava giù ai frugali. Con il meccanismo tracciato dallo Scudo, invece, l’assenza di un percorso di applicazione certo – a titolo di esempio, un livello di spread “di allarme”, a partire dal quale il TPI viene prontamente applicato – e l’ampio margine di discrezionalità nel decidere se attivare il TPI oppure no, farà sì che quando esso verrà invocato l’Italia sarà già in difficoltà e sotto l’assedio dei mercati finanziari, e potrebbe addirittura ritrovarsi nelle condizioni di non poter soddisfare i parametri di applicazione del TPI (quelli descritti al n. 3 e 4), rimanendo così in balia dei ricatti politici dell’Europa e vittima di ulteriori richieste-capestro.

Oltreoceano, l’economia americana è costretta a fare  gli slalom tra sostegno alla crescita e contenimento dei prezzi, ma sembra più propensa a combattere l’inflazione preferendo il rischio recessione al rischio inflazione fuori controllo. Anche l’Europa si trova di fronte lo stesso bivio, e se finora non ha accelerato come gli USA è perché le condizioni del contesto economico sono ancora favorevoli. Tuttavia, se la Russia dovesse limitare o bloccare le forniture di gas, anche l’Unione Europea piomberebbe nel medesimo scenario americano, ma senza le stesse capacità di reazione per via della totale inadeguatezza di questa Europa così divisa. L’Italia, in uno scenario del genere, rischia  di soccombere nonostante lo Scudo, una finta ”arma di de-frammentazione di massa” che non riesce a rassicurare nessuno. Neanche Mario Draghi, che in fatto di politica monetaria ne sa più di tutti e, alla prima occasione, si è sfilato dal ruolo di Premier per non trovarsi a Settembre “al posto sbagliato nel momento sbagliato”, evitando così di intraprendere la fulminea carriera di capro espiatorio, che in tutta evidenza non gli si addice.  

Bce, l’uscita dall’inflazione comincia solo oggi. Cattiva strategia o mancanza di coraggio?

La politica degli annunci e del non-fare messa in atto dalla Bce sta costando agli investitori europei una tassa inflattiva inaccettabile, che non appare frutto del caso o della congiuntura. Servirebbe un cambio di stile.

La Banca centrale europea si appresta a varare oggi il suo primo rialzo dei tassi dopo 11 anni di sonnacchiosa gestione di bassa inflazione. Il “sogno tedesco” di un indice dei prezzi al 2% si è scontrato bruscamente con alcuni eventi imprevisti – come la pandemia – e prevedibili già nel 2020 – come la guerra in Ucraina e l’alta inflazione – ma ampiamente sottovalutati dalla peggiore presidenza nella storia della Bce. E così, il Consiglio direttivo giovedì alle 14 dovrebbe stabilire la prima mossa concreta sui tassi, e da lì comincerà il lungo cammino che porterà l’inflazione europea a rientrare verso percentuali più sostenibili, non senza aver prima abbattuto il valore reale del maggior indebitamento pubblico assunto durante l’emergenza, e averlo scaricato sui cittadini europei sotto forma di una tassa occulta che vale mediamente circa 2.500 euro a famiglia solo nel 2022. 

La conferenza stampa di Christine Lagarde è prevista a seguire, per le 14.45 di giovedì, e tutti sono in attesa di capire quale sarà lo stile della politica monetaria restrittiva che l’Unione Europea a guida tedesca intende intraprendere. Mentre quasi tutte le banche centrali del mondo stanno già portando avanti manovre di correzione delle rispettive linee monetarie (rialzando i tassi), la Bce soltanto adesso dovrebbe alzare i tassi di 25 punti base su tutti e tre i riferimenti: il rifinanziamento principale (che è a zero), le operazioni marginali (0,25%) e i tassi sui depositi che sono ancora a -0,50%. Alcune voci autorevoli hanno richiamato la possibilità di un aumento dello 0,50%, e questa ipotesi potrebbe rientrare tra le possibilità, dal momento che sarebbe giustificata dal livello del carovita raggiunto nell’area euro, che secondo Eurostat è salito all’8,6%.

La Bce aveva anche preavvertito che procederà ad un ulteriore rialzo alla riunione di settembre, e che in quel caso sarebbe stato più alto (0,50%) di quello che con verrebbe annunciato giovedì. E allora, perchè non farlo adesso, con le quotazioni del mercato obbligazionario che già incorporano un rialzo di tre quarti di punto, accompagnando la decisione con l’annuncio di un ulteriore rialzo di 25 punti base in Settembre, magari aggiungendo una chiosa beneaugurante come “a meno che l’inflazione non sia scesa in modo apprezzabile“? Sia il clima generale che le quotazioni ne trarrebbero giovamento, ma sembra che questo cambio di stile – a metà strada tra quello americano e quello inglese – alla Germania non vada proprio giù. Peraltro, il Consiglio direttivo della Bce ha sempre detto che le sue decisioni sarebbero state basate sui dati: di quali altri dati avrebbe bisogno la Bce oltre ad una inflazione vicina al 9%? Forse la Bce ritiene che siano ancora valide le previsioni di un carovita 2022 al 6,8%, del 3,5% nel 2023 e del 2,1% nel 2024? 

Se è così, Christine Lagarde lo dica a gran voce; ma dubitiamo che lo farà, che sia per cattiva strategia o mancanza di coraggio. Del resto, relativamente al PIL dell’Eurozona, i tecnici della Bce prevedevano un +2,8% quest’anno e un +2,1% sia nel 2023 che nel 2024, ma il conflitto in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia contro le forniture di beni e materie prime avranno contraccolpi sulla nostra economia, soprattutto se verranno estese su petrolio e gas. Inoltre, le interruzioni nelle catene di approvvigionamento create dalla politica cinese del contagio-zero creano ulteriori pressioni sui prezzi, ed il crollo dell’euro sul mercato dei cambi rispetto al dollaro rivela la previsione di un rialzo dei tassi ancora più sostenuto del previsto da parte della Federal Reserve. Questo rischia di creare, per la prima volta dopo venti anni, inflazione “importata” dagli USA

Nel frattempo, la lentezza con la quale il c.d. scudo anti-spread viene discusso dal Consiglio Europeo dimostra ciò che avevamo già compreso in occasione del suo annuncio: la Lagarde non ha ancora idea di che sostanza sarà fatto, e certamente non c’è unità di intenti sulle sue caratteristiche. L’Italia, che è il primo “beneficiario naturale” di tale misura, è in preda ad una stranissima crisi di governo – voluta dallo stesso Draghi e dalla sua maggioranza schiacciante, primo e (probabilmente) ultimo caso nella storia della Democrazia – e in queste condizioni il nostro Paese difficilmente avrà voce in capitolo, poichè non sarà in grado di fronteggiare politicamente le ennesime condizioni capestro imposte dall’Europa.

Schmidt, Ethenea: Bce inadeguata, serve un nuovo “whatever it takes”

I rialzi dei tassi attesi da parte della Banca centrale europea fino all’1.25% potrebbero non bastare per difendere l’euro. Possibile un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine.

“È ora che la Bce metta fine alla politica monetaria degli ultimi dieci anni e inizi ad adottare misure coerenti e credibili per contenere l’inflazione. Come ha dimostrato di saper fare, invece, la Banca nazionale svizzera, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% per difendere il cambio del franco svizzero”, sostiene Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors. “Gli strumenti più importanti nell’arsenale di una banca centrale non sono gli acquisti di obbligazioni o i tassi d’interesse di riferimento, bensì l’integrità e la credibilità”, prosegue Schmidt. “La Bce ha perso buona parte di entrambe negli ultimi anni, ma è ancora in tempo per riconquistare la fiducia dei cittadini. Ciò richiede una consistente svolta di politica monetaria, un nuovo momento whatever it takes”.

Sono passati circa dieci anni da quando, il 26 luglio 2012, l’allora presidente della Banca centrale europea e attuale campo del Governo italiano, Mario Draghi, pronunciò quel famoso Whatever it takes, che avrebbe dato una svolta alla crisi dell’euro. In quel periodo, i paesi dell’Europa meridionale come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo erano afflitti da enormi problemi di rifinanziamento a causa di deficit delle partite correnti persistentemente elevati, dell’andamento del debito pubblico nel periodo precedente la crisi finanziaria e dell’eliminazione dei meccanismi di cambio dovuta all’Unione monetaria europea. Nel giro di pochissimo tempo, i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni schizzarono oltre il 6%. Solo il coraggioso intervento delle autorità politiche e della Banca centrale europea, con al centro l’annuncio del presidente della Bce, a settembre 2012, di voler acquistare quantità illimitate di titoli governativi degli Stati dell’Ue, riuscì a frenare il massiccio aumento dei rendimenti dei titoli dei Paesi del Sud e a stabilizzare l’economia dell’area dell’euro. “Gli attuali dati sull’inflazione mostrano che ci troviamo di nuovo in un momento whatever it takes”, sottolinea Schmidt. “Con un aumento dei prezzi del 7,9% in Germania a giugno, gli economisti prevedono un’inflazione media del 6,8% nell’area euro per l’intero 2022 e un’inflazione in rallentamento ma ancora elevata nel 2023 a causa degli effetti di base”.

Naturalmente è difficile fare previsioni nell’attuale contesto economico. La crisi ucraina, le misure contro il Covid-19 e le strozzature lungo le catene di approvvigionamento rappresentano un mix difficilmente prevedibile di variabili in costante evoluzione e il desiderio di non spegnere subito la timida ripresa economica dell’area euro dopo la crisi sanitaria è più che comprensibile. Tuttavia, tassi d’interesse di riferimento pari al -0,5% non sono più graditi ad ampie fasce della popolazione, visto l’attuale andamento dell’inflazione, e, nel peggiore dei casi, determineranno una notevole perdita di fiducia e spaccature sociali.

La Banca nazionale svizzera (Bns) ha recentemente dimostrato che esistono alternative, aumentando a sorpresa il tasso d’interesse di riferimento dello 0,5% e portandolo a -0,25%, in risposta a un tasso d’inflazione che a maggio aveva raggiunto il massimo da 14 anni ma che, al 2,9%, resta nettamente inferiore a quello dei vicini Paesi europei. Con questa mossa, l’istituto centrale svizzero anticipa la Banca centrale europea, che probabilmente annuncerà un primo rialzo dei tassi dello 0,25% nella prossima riunione di luglio. Se la Bns non avesse alzato i tassi, il franco svizzero si sarebbe probabilmente svalutato in misura significativa, alimentando ulteriormente le pressioni inflazionistiche con l’aumento dei prezzi delle importazioni.

Per sottolineare ulteriormente la posizione della Bns, il presidente dell’istituto, Thomas Jordan, ha indicato che in futuro continuerà a monitorare l’andamento dei mercati dei cambi e, se necessario, interverrà vendendo titoli di Stato dell’area euro, Bund in primis, al fine di rafforzare il franco svizzero. “La svolta di politica monetaria è arrivata”, è convinto Schmidt. La Federal Reserve statunitense ha recentemente innalzato dello 0,75% l’intervallo obiettivo per il tasso sui federal funds, ora compreso tra l’1,50% e l’1,75%, la Bank of England (BoE) ha aumentato per la quinta volta consecutiva il tasso d’interesse di riferimento dello 0,25% portandolo all’1,25% nonostante i crescenti timori di recessione e persino la banca centrale svizzera ha aumentato a sorpresa i tassi d’interesse dello 0,5% nonostante livelli d’inflazione a una sola cifra. Solo la Banca centrale europea sembra paralizzata e continua ad aderire alla sua politica di tassi d’interesse bassi. “L’istituto di Francoforte non potrà esimersi dall’intraprendere un nuovo corso. La banca centrale d’oltreoceano è troppo influente perché la Bce possa opporsi alla sua politica monetaria, rischiare una svalutazione dell’euro e, nella peggiore delle ipotesi, alimentare ulteriormente l’inflazione”, conclude Schmidt. “Il mercato prevede quindi almeno cinque rialzi dei tassi, per un totale di ben l’1,25%. Riteniamo addirittura che ciò non sarà sufficiente e che nel corso del prossimo anno la Banca centrale europea dovrà portare il tasso di riferimento ben oltre la soglia dell’1,5%, in direzione del 2%, al fine di contrastare un ulteriore deprezzamento dell’euro. Vediamo pertanto il potenziale di un ulteriore aumento dei rendimenti a breve termine (calo dei prezzi delle obbligazioni) e abbiamo posizionato i nostri portafogli di conseguenza vendendo futures sui tassi d’interesse in euro”.

Mercati, ancora dentro la tempesta perfetta. Scudo antispread, la Germania mette i paletti

L’Inflazione raggiunge i livelli del 1986 e i mercati obbligazionari continuano a risentirne. Le condizioni dettate da Nagel per lo scudo anti-spread rischiano di annullarne gli effetti.

A circa due settimane dal Consiglio direttivo della Bce, durante il quale i tassi verranno alzati in Europa dopo ben 11 anni, il dibattito interno sul c.d. scudo antispread è sempre più vivo. Del resto, Christine Lagarde non aveva convinto nessuno a Giugno con il suo 2annuncio di futuri eventi”, e si era già capito che questo nuovo strumento non avrebbe inciso sulla politica monetaria. A chiarirlo, casomai ce ne fosse bisogno, è stato il numero uno della Bundesbank, Joachim Nagel, che siede nel direttorio Bce e da lì, nel suo ruolo di “falco” dichiarato, sembra voler dettare numerose e rigorose condizioni.

Per Nagel la priorità assoluta è la lotta all’inflazione, e soltanto agendo con un buon anticipo sarà possibile evitare politiche eccessivamente restrittive. Di conseguenza, “un nuovo strumento anti-frammentazione  (lo scudo anti-spread, ndr) potrebbe essere giustificato solo in circostanze eccezionali e sulla base di condizioni rigorosamente definite“. In pratica, secondo Nagel lo Scudo deve rispettare tre condizioni, e cioè:
a) non deve avere l’effetto di modificare l’orientamento della politica monetaria,
b) deve risultare compatibile con il mandato della Bce e
c) deve rispondere al criterio di sostenibilità delle politiche economiche.

Tanto vale non farlo affatto, in base a queste indicazioni. La seconda condizione, soprattutto, sembra essere una specie di avvertimento basato  su passate esperienze. Infatti, ricordiamo che la Bce è stata portata davanti alla Corte Suprema tedesca e alla Corte di Giustizia Europea per via del programma di acquisto di bond, ed è stata accusata di aver violato il divieto di finanziare i governi, come previsto dal trattato europeo. Successivamente i tribunali hanno stabilito che la Bce avesse agito in modo corretto e che non avesse tradito il suo mandato, ma il ricordo rimane, e Nagel lo usa per scoraggiare quanti, all’interno della Bce, stanno lavorando per dare una forma efficace a questo strumento per mettere un freno alla speculazione sui titoli di stato dei paesi del Sud Europa. Inoltre, a giugno l’inflazione ha raggiunto il livello di +8,0%, che non si vedeva da gennaio 1986, e le tensioni inflazionistiche si trasmettono senza freni dai prezzi dell’energia a quelli degli agli altri comparti merceologici. Attualmente, i prezzi al consumo al netto dei prodotti energetici sono a +4,2%, un aumento che non si vedeva dal 1996.

Su questa onda, i Btp decennali sono saliti al 3,35%, e lo spread rispetto ai tassi dei BUND tedeschi è a 201 punti base. La paura dei mercati adesso è quella di dover assistere ad  un dibattito infinito, all’interno della Bce, tra “paesi coraggiosi” e i soliti “paesi frugali” che, proprio quando c’è da gestire una emergenza (come quella dell’alta inflazione da shock di offerta) ricordano a tutti che l’Europa è una unione contabile monetaria, e non una vera unione economica e fiscale tra popoli dello stesso continente, e che il mandato di chi, nel secondo Dopoguerra, aveva teorizzato una Europa veramente unita, è stato tradito da paesi come Germania, Olanda, Belgio, Danimarca (con la Francia sullo sfondo), che più si sono avvantaggiati dall’”essere europei ma non troppo”.  Pertanto, mentre gli altri paesi occidentali (USA, Regno Unito) riescono a trovare soluzioni rapide ai problemi congiunturali, i tempi dell’Europa scoraggiano gli investitori.

In tal senso, la “melina” in corso sulla decisione di annunciare o meno l’entità e la durata del prossimo programma di acquisto di titoli di Stato, indispensabile per evitare che l’Europa cada in recessione, non fa certo bene. Invece, l’annuncio di uno schema di acquisto di grandi dimensioni potrebbe tranquillizzare i mercati e, relativamente all’Italia, far capire agli investitori che la frammentazione degli spread verrà evitata, ponendo fine alla speculazione sui nostri titoli di stato. Non tanto per motivi di solidarietà economica tra stati – che nella UE non esiste, se non per le calamità naturali – ma per scoraggiare le istanze di quanti, dall’Europa, vorrebbero uscire. Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla Lagarde nella più famosa delle sue gaffe da principiante (Marzo 2020), l’Europa – piaccia o no alla Germania – scopre oggi di dover risolvere anche i problemi di spread dell’Italia, poiché per un paese aderente il dover sopportare un differenziale elevato rispetto ai BUND tedeschi – e la conseguente speculazione sui BTP che aumenta il costo del suo indebitamento – equivale a far vivere al nostro Paese la stessa condizione che vivrebbe al fuori dall’Europa, e non al di dentro, e ciò potrebbe alimentare i movimenti di opinione che vagheggiano una “exit”.

Pertanto, è fondamentale che il volume degli acquisti di obbligazioni non venga considerato troppo basso dal mercato, ed è altrettanto importante che alla prossima riunione si passi dalla vaghezza alla concretezza, limitando al massimo le questioni senza risposta. La presidente della Bce Christine Lagarde ha affermato in queste ore che il nuovo strumento sarà efficace e sufficiente a “preservare lo slancio degli Stati membri verso una sana politica fiscale”. Non è esattamente una dichiarazione che infonde fiducia ai mercati, ed anzi fa sentire gli investitori ancora più dentro una tempesta perfetta che non accenna a finire.  

Scudo anti-spread: un nuovo strumento della BCE per intrappolare l’economia italiana?

L’annuncio della Bce sul nebuloso scudo anti-spread non spegne i dubbi sulla reale possibilità che un simile strumento possa funzionare in un periodo di alta inflazione. Ecco i rischi per l’Italia.

Di Alessio Cardinale

Per trovare una inflazione come quella di oggi (+6,7%) sarebbe necessario tornare agli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Oggettivamente, dopo quasi un decennio di tassi prossimi allo zero (o negativi) e di inflazione pressoché nulla, c’è chi neanche ricorda più – o non ha mai vissuto direttamente – una simile corsa dei prezzi che rischia di azzerare circa trentacinque anni di storia e stabilità economica. Soprattutto tra i millennials, che tra mille differenze con il periodo storico in cui hanno vissuto i babyboomers cercano di portare avanti i propri progetti di vita.

Ma se uguale è il livello di inflazione, sono comunque tantissime le differenze tra la nostra epoca e quella dei favolosi “eighties e nineties”, di gran lunga migliori, a parere di chi scrive, rispetto ai “two thousand years” così carichi di tecnologia, senso del profitto ad ogni costo e culto della relazione interpersonale debole. Innanzitutto, già dalla metà degli anni Ottanta l’inflazione stava cominciando a scendere dopo aver raggiunto un livello medio del 15% circa nel 1980 generato dall’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio che, invece, oggi la sta facendo salire per via del conflitto bellico in Ucraina. Inoltre, non esiste più il meccanismo della c.d. Scala Mobile, che allora adeguava i redditi sulla base del tasso di inflazione, per cui il potere d’acquisto delle famiglie rischia di subire un colpo durissimo in un solo anno fiscale. Ancora, i mercati finanziari non erano certamente gli stessi, così come le dimensioni della finanza speculativa, e le quotazioni di borsa erano irrimediabilmente legate all’economia reale.

Per  questi motivi, in un sussulto di (finta) solidarietà verso le famiglie con reddito più basso abitanti nei paesi – come l’Italia – dotati di un sistema economico bisognoso di riforme strutturali ormai urgentissime, la Banca Centrale Europea ha annunciato la “preparazione” di un c.d. scudo anti-spread, riunendo in seduta straordinaria il Consiglio direttivo che, a sua volta, ha incaricato gli uffici di studiare l’intervento più opportuno. Se non si fosse deciso di far scattare il piano d’emergenza, si sarebbe trattato di pura fuffa europea, e i mercati ci avrebbero penalizzato ancora di più; ma almeno sappiamo che, con modalità ancora tutte da scoprire, Francoforte potrà riacquistare i titoli alla scadenza in base alle esigenze del mercato senza dover tener conto della quote definite per Paese.

In cosa consiste questo “scudo”? Sappiamo che avrebbe lo scopo di impedire che movimenti speculativi di mercato possano esercitare eccessiva pressione sulle singole nazioni nel momento in cui la banca centrale avvia alla luce del sole un percorso di aumento graduale dei tassi di interesse, ma è mancato un messaggio netto da parte della Lagarde, poiché ad oggi si conoscono soltanto i meccanismi di base dello scudo ed il principio di fondo, e cioè che la Bce acquisterà incondizionatamente le obbligazioni degli Stati con il maggiore debito derogando al principio che imporrebbe alla banca centrale di acquistare gli asset in base alle dimensioni di un’economia. Naturalmente, all’Italia – paese indebitato per eccellenza e trattato costantemente dai c.d. paesi frugali come la Cenerentola d’Europa – verranno richiesti dei vincoli, come l’aderenza pedissequa a raccomandazioni economiche della Commissiona europea. Questo la Lagarde non lo ha detto, ma rientra nella natura stessa di questa Unione Europea a guida tedesco-francese, che è fondamentalmente una unione contabile e non lascia spazio alcuno al principio di solidarietà tipico di una “unione dei popoli”, secondo la quale, invece, i problemi di un paese si risolvono insieme, condividendo danni, soluzioni e vantaggi economici generali.

Da apprezzare, tuttavia, gli sforzi di Christine Lagarde di trasmettere una certa sicurezza ai mercati almeno nell’adozione di uno stile “draghiano” allorquando ha dichiarato che l’impegno a scongiurare la frammentazione degli spread “non ha limiti”, tracciando così  una similitudine con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi nel 2012. Purtroppo, Christine Lagarde non è – o non le è consentito essere – Mario Draghi, e le sue dichiarazioni si distinguono per vaghezza e scarsità di dettagli, lasciando spazio a quella speculazione a cui il mandato della Lagarde sembra essere involontariamente connesso fin dal Marzo del 2020, quando la Lagarde, in piena pandemia e con i mercati assetati di soluzioni, affermò che “non è compito della Bce ridurre gli spread” e che non voleva “essere ricordata per un altro whatever it takes”, causando un crollo del 10% delle borse europee e del 17% in Italia – in una sola giornata, il 12 Marzo – e uno spread BTP-BUND pari a 260 punti. Nei due anni successivi il presidente della Bce ha beneficiato del sentimento di riscatto generale dalla pandemia e di un certo ottimismo dei mercati, trainati dalle misure espansive dei governi e dai piani di spesa, ma lo scorso mese di febbraio 2022 Christine Lagarde ha dato una ulteriore prova della sua scarsa preparazione al ruolo e, dopo aver dichiarato più volte che i tassi non sarebbero stati toccati prima del 2023, annunciava bruscamente il rialzo dei tassi, generando altra speculazione.

Pertanto, l’annuncio dello scudo anti-spread non nasce con i migliori auspici, anche perché le caratteristiche dello strumento non sono note e ai mercati restano le generali dichiarazioni scritte dopo il vertice straordinario all’Eurotower. I più maliziosi pensano che questo imbarazzante comportamento da absolute beginner non sia del tutto spontaneo, e sia dettato  dall’interpretazione rigida – richiesta dai c.d. paesi frugali dell’UE – delle regole dell’Unione monetaria, che non lasciano alcuno spazio a meccanismi di solidarietà “senza corrispettivo” per i paesi in difficoltà, ai quali invece verrà richiesto l’obbligo di osservare durissimi vincoli di bilancio e di tagli alla spesa, che già negli ultimi venti anni, per fare un esempio tra i tanti, hanno determinato una impressionante diminuzione della sicurezza sanitaria e dei posti letto nei reparti di ospedale, e un elevatissimo tasso di morte per “malasanità” che ha manifestato tutta la sua gravità in occasione della fase più cruenta della pandemia. Quest’ultima ha segnato un punto di non ritorno nella Società italiana: il desiderio di “essere cittadini europei” che in tantissimi nutrivano nel 2001 si è spento irrimediabilmente, e qualunque pretesa del Consiglio d’Europa che abbia effetti nefasti sulla nostra economia oggi viene istintivamente vista come una trappola da cui liberarsi, facendo così il gioco di chi, dall’Unione Europea, vorrebbe (legittimamente) uscire.

Non c’è verso, oggi, di convincere gli architetti dell’Unione monetaria che la Storia e i popoli richiedono a gran voce una evoluzione del sogno europeo, un nuovo trattato che segua la scia del percorso virtuoso nato all’indomani del 1945 e che unisca finalmente popoli oggi divisi da confini economici evidenti e da una incipiente “questione meridionale europea”. Coloro che si ostinano a lasciare in questo stadio evolutivo il sogno di una Europa Unita sono in mala fede, e su di loro ricadranno le responsabilità della sua fine.

L’America unita alza i tassi dello 0,75%, l’Europa divisa si limita agli annunci

La Fed vara un energico aumento dei tassi, mentre la Bce annuncia futuri strumenti anti-spread non ancora ben identificati, irritando gli analisti. Un modello debole di Unione Europea non può che produrre soluzioni deboli.  

Che il momento non fosse dei migliori, già anche i poco informati lo avevano capito. In una Unione Europea che, negli ultimi due anni, ci aveva abituato ad interventi “regolarmente straordinari” di finanza pubblica a sostegno dell’economia, in molti si chiedevano come l’attuale congiuntura – certamente più grave di qualunque semplice correzione dei mercati finanziari e dell’economia reale – non avesse ancora generato un dibattito sull’adozione di misure capaci quanto meno di ridurre i danni. In tal senso, un primo segnale era arrivato ieri, con una riunione non programmata del Consiglio direttivo della Banca centrale europea per discutere della recente debacle dei titoli di Stato, cresciuta di intensità dopo che è stato annunciato il piano per l’aumento dei tassi di interesse.

L’annuncio della riunione era arrivato dopo che il rendimento del debito decennale italiano era salito al di sopra del 4% per la prima volta dal 2014, e questo determinava un nuovo scenario di politica monetaria, in cui la Bce pone fine a otto anni di tassi negativi e avvia un ciclo di rialzi pianificati a partire da luglio e con prossima tappa a Settembre. In più – ed è questo ciò che ha generato il sell-off sui titoli di stato italiani – già dal primo Luglio la Bce terminerà gli acquisti netti di obbligazioni (il c.d. Quantitative Easing) che negli ultimi anni ha determinato una enorme espansione della liquidità a sostegno delle economie colpite dal Covid.

La buona notizia, nella mente degli strateghi della Bce, sarebbe stata quella di aver incaricato gli uffici tecnici di accelerare il completamento di un nuovo strumento anti-frammentazione dello spread – che in Italia è aumentato  sensibilmente nelle ultime settimane rispetto al BUND tedesco – con l’obiettivo di avere delle opzioni nel caso in cui il programma di finanza straordinaria inaugurato  con la pandemia non dovesse bastare; ma la mossa della Bce non ha convinto del tutto gli analisti, poiché la sua efficacia è tutta da dimostrare, e la speculazione  sui titoli di stato dei paesi periferici raramente si ferma di fronte ai semplici annunci di eventi o mezzi ancora da definire, neanche se hanno il marchio della Banca centrale europea. Infatti, secondo gli analisti di Carmignac, è probabile che questo strumento genericamente annunciato non impedirà ai mercati di continuare a spingere per un aumento degli spread europei, frammentandoli ulteriormente al punto che, quando il c.d. scudo anti-spread vedrà la luce, l’entità del differenziale di rendimento tra BTP e BUND sarà tale che l’efficacia del nuovo strumento potrebbe rivelarsi insufficiente.

Pertanto, si tratterebbe del classico elefante che partorisce un topolino, e questo purtroppo è il prodotto di un modello fallimentare di Unione Europea, che di fronte agli eventi straordinari – l’inflazione al 7% è un fenomeno dai risvolti economici del tutto simili, se non più gravi, di quelli scatenati dalla pandemia – rimane diviso sull’opportunità e la necessità di introdurre un nuovo e più difficile meccanismo di stabilizzazione che possa mettere in repentaglio l’equilibrio economico dei paesi del Nord Europa, lasciando a se stessi quelli del Sud (tra cui, naturalmente, l’Italia). La circostanza che ha più irritato gli analisti, inoltre, è che la Bce, dopo soli sei giorni dall’aver annunciato la fine del QE, rilancia lo strumento dei reinvestimenti flessibili del programma PEPP che aveva già ripetutamente annunciato dal 2020, riformulandolo adesso in chiave “anti-spread”. La verità è che la Bce non ha ancora un piano, o non è stata in grado di definirlo entro la giornata di ieri, ma le circostanze richiedevano una mossa e la banca centrale si è limitata ad annunciare la prossima creazione di un nuovo strumento di sostegno contro gli spread di cui, però, non si conoscono bene le coordinate, rivelando così una incertezza di fondo che nessuna istituzione finanziaria può permettersi senza trasmetterla irrimediabilmente agli analisti e ai mercati.

In pratica, la Bce avrebbe dovuto usare la stessa sicurezza ostentata nel comunicare nettamente che, nella prossima riunione di Luglio, sarà deciso un rialzo di 25 punti base, e un altro rialzo di entità ancora non definita (e questo ci sta, invece) a settembre. Si pensa che l’aumento di tasso di fine estate sarà dello 0,50%, e che tale misura potrebbe essere più leggera solo qualora in quel periodo le pressioni inflazionistiche non siano migliorate. La Fed, dal canto suo, è intervenuta con il suo stile tradizionalmente energico, ed ha alzato i tassi di interesse dello 0,75%, con una mossa che non si vedeva dal 1994. Il costo del denaro sale così in una forchetta fra l’1,50 e l’1,75%, e la Fed prevede per il 2022 tassi di interesse compresi tra il 3,1% e il 3,6% un range compreso tra il 3,6% e il 4,1% nel 2023. Coerentemente, la Federal Reserve ha tagliato le stime sul Pil Usa all’1,7% contro +2,8% stimato a marzo, sia per il 2022 che per il 2023, e all’1,9% per il 2024. Ciò consentirà agli USA di mantenere il contesto di sostanziale piena occupazione, poiché la Fed stima che il Paese chiuderà il 2022 con un tasso di disoccupazione del 3,7% ed il 2023 con un tasso del 3,9%.

In definitiva, l’attuale congiuntura economica mondiale ha fatto emergere, ancora una volta, la profonda differenza tra i due “modelli federativi” continentali  del mondo occidentale. Da un lato, infatti, abbiamo il modello degli Stati Uniti d’America che, appunto, è una consolidata unione di popoli, sviluppatasi lungo l’arco di eventi storici e culturali anche gravi, che però ne hanno forgiato il carattere e il senso di appartenenza; dall’altro, abbiamo l’Unione Europea che non è una vera unione (né popolare né fiscale), ed è nata da un semplice disegno economico a guida franco-tedesca capace di realizzare un modello basato sulla dicotomia tra Nord e Sud Europa, che oggi impedisce la realizzazione di programmi unitari efficaci (e rapidi) ogni qual volta che le circostanze straordinarie lo richiedono.

Si tratta, quindi, di un modello “depotenziato” di Unione Europea, con il quale dovremo convivere per molti anni ancora. E da un modello economico debole (solo per i paesi del Sud Europa, però), ci si possono aspettare soltanto soluzioni  deboli. 

Le azioni europee in ribasso. Pesano le attese sull’aumento dei tassi e la paura di una recessione

L’ottimismo generato dall’allentamento delle restrizioni in Cina è stato rapidamente annullato dai dati che indicano che le economie potrebbero andare verso la recessione.

Venerdì le azioni europee sono scese, spazzando via i guadagni precedenti, dopo che i dati sull’occupazione negli Stati Uniti hanno supportato la tesi dell’inasprimento aggressivo della politica della Federal Reserve. Di conseguenza, gli investitori hanno alzato il tiro delle scommesse sui rialzi dei tassi della BCE dopo la pubblicazione dei dati sull’inflazione della scorsa settimana.

L’indice paneuropeo STOXX 600 ha concluso una settimana tumultuosa in calo dello 0,9%, con volumi che contenuti a causa delle festività in Gran Bretagna e Cina. Il settore della tecnologia dell’informazione, sensibile ai tassi, ha portato perdite consistenti sullo STOXX 600, mentre il settore automobilistico è sceso dell’1,6%. In particolare, il francese Faurecia (fornitore di componenti per auto) ha perso il 6,8%, ed ha dichiarato di aver lanciato un aumento di capitale di 705 milioni di euro (758 milioni di dollari) per finanziare l’acquisizione della rivale tedesca Hella. Questi risultati sembrerebbero confermare che gli investitori abbiano aumentato le loro scommesse sugli aumenti dei tassi di interesse della BCE per quest’anno, prezzando un aumento più ampio di 50 punti base in almeno una delle riunioni politiche della banca entro il prossimo ottobre, come naturale portato dell’inflazione record nella zona euro.

“In considerazione della drammatica tendenza dell’inflazione e del fatto che la BCE è così chiaramente ‘dietro la curva’, rispetto alla Fed, il linguaggio della BCE dovrebbe tendere a diventare più aggressivo”, scrivono gli analisti di Commerzbank in una nota. Infatti, i dati di venerdì hanno mostrato che i datori di lavoro statunitensi hanno assunto più lavoratori del previsto a maggio, e hanno mantenuto un ritmo abbastanza sostenuto di aumenti salariali. Si tratta di segnali di forza del mercato del lavoro, che manterranno la Federal Reserve su un percorso di aggressività della politica monetaria, e ciò fa temere che in Europa la BCE seguirà l’esempio, sebbene lo “stile” europeo di manovra dei tassi di interesse non sia mai stato così aggressivo al pari di quello americano.

Il risultato negativo dei mercati azionari europei ha sorpreso molto quanti speravano, ad inizio della scorsa settimana, un maggiore entusiasmo dopo che la Cina ha allentato alcune restrizioni legate al COVID-19 e ha rivelato l’intenzione di usare ulteriori stimoli, ma l’ottimismo è stato rapidamente annullato dai dati che indicavano che le economie potrebbero andare verso la recessione. In Francia, per esempio, secondo un’indagine, la crescita dell’attività nel settore dei servizi dominante del paese è diminuita a maggio rispetto ad aprile, ed anche il settore dei servizi tedesco ha mostrato segnali di rallentamento della crescita.

Il divieto parziale da parte dell’Unione Europea alle importazioni di petrolio dalla Russia, in rappresaglia all’invasione dell’Ucraina, ha anche alimentato i timori di un ulteriore aumento dell’inflazione. “Un’eventuale recessione non si verificherà quest’anno, ma molto probabilmente nel 2023. Detto questo, ci aspettiamo che il mercato sconti in modo più appropriato un minore slancio dell’economia“, hanno affermato gli strateghi azionari di Generali Investments. Nonostante queste dichiarazioni di importanti analisti – che sono generalmente caute riguardo una eventualità di recessione –  i titoli continuano a subire una scarsa propensione al rischio, con eccezione di alcuni player che beneficiano degli effetti del conflitto armato. Per esempio, l’italiano Leonardo è salito del 2,0% dopo che la tedesca Rheinmetall ha fatto un’offerta per una partecipazione di minoranza nella sua unità di produzione di cannoni OTO Melara, fissando un valore di 190-210 milioni di euro come prezzo indicativo per la partecipazione del 49% nel produttore di armi italiano.

Eppure, nella zona euro la crescita del business è stata robusta a maggio, ma rischia di essere vanificata a causa dell’aumento del costo della vita, delle interruzioni della catena di approvvigionamento e dell’incertezza sull’invasione russa dell’Ucraina. L’indice composito finale dei responsabili degli acquisti (PMI) di S&P Global, considerato un buon indicatore della salute economica, è sceso a 54,8 a maggio dal 55,8 di aprile, poco meno di una stima preliminare di 54,9. Qualsiasi valore superiore a 50 indica comunque una crescita. La forte domanda di servizi ha contribuito a sostenere un ritmo sostenuto di crescita economica; tuttavia, i rischi sembrano essere orientati al ribasso per i prossimi mesi. Il settore manifatturiero rimane limitato in modo preoccupante dalla carenza di offerta, e sia le imprese che le famiglie rimangono afflitte dall’aumento dei costi.

Ci sono segnali che la spinta all’economia determinata dalla maggiore domanda di servizi post restrizioni stia iniziando a svanire, per cui le aziende hanno ridimensionato le loro aspettative di crescita per il prossimo anno, preoccupate per la carenza di offerta, l’aumento del costo della vita e l’inasprimento delle condizioni monetarie. Di conseguenza, l’indice composito della produzione futura è sceso a 59,9 da 60,5, uno dei livelli più bassi dall’inizio della pandemia.

Ethenea: l’inflazione rallenterà soltanto nel secondo semestre 2022

Secondo Volker Schmidt , l’inflazione elevata esclude ogni possibilità di ulteriore ripresa economica sia negli Stati Uniti sia nell’area euro. I tassi USA saliranno ancora, attestandosi tra il 2,5% e il 2,75% entro fine anno.

“Anche se in Europa e negli Usa i tassi d’inflazione potrebbero salire ancora nel trimestre in corso, fino a sfiorare il 10%, verso la fine dell’anno potrebbero rientrare attorno al 5-6%. Non è comunque chiaro se nel 2023 e 2024 torneranno verso l’intervallo desiderato del 2%. In caso contrario, le banche centrali saranno costrette ad aggiustare nuovamente le loro politiche, con un ulteriore rialzo dei tassi di riferimento e dei tassi d’interesse a lungo termine”. È l’analisi di Volker Schmidt, Senior Portfolio Manager di Ethenea Independent Investors.

La Fed ha già concluso il suo programma di acquisto di obbligazioni e a marzo e maggio 2022 ha alzato i tassi d’interesse di riferimento nel tentativo di smorzare l’inflazione. Seguiranno senza dubbio altri rialzi dei tassi. Inoltre, la Fed ridimensionerà il suo bilancio vendendo titoli di Stato e obbligazioni garantite da ipoteca oppure astenendosi dal reinvestire i titoli in scadenza. Eppure, finora gli interventi e gli annunci della banca centrale da soli non sono quasi mai riusciti a far rallentare la dinamica dell’inflazione. La Bce ha rallentato il ritmo dei suoi acquisti netti di obbligazioni senza terminarli completamente, ma ha lasciato invariati i suoi tassi d’interesse di riferimento. I rendimenti delle obbligazioni a lungo termine sono aumentati in misura significativa, così come le condizioni per i nuovi prestiti, con i tassi sui mutui decennali al 2% in Germania, mentre negli Stati Uniti i mutui trentennali sono saliti al 5,25%, il livello più alto dal 2010. “In questo contesto, sia la Fed che la Bce alzeranno i loro tassi d’interesse. Per la Fed, pare probabile un nuovo intervallo obiettivo compreso tra il 2,5% e il 2,75%, se non leggermente superiore. La Bce, dal canto suo, dovrebbe riportare il tasso sui depositi in territorio positivo entro fine anno. Non è escluso nemmeno un aumento del tasso repo nel 2022”, spiega Schmidt.

Fare pronostici sul futuro andamento dell’inflazione appare più complesso. Se negli Usa le singole componenti incluse nel calcolo dell’inflazione sono già in calo o salgono solo lentamente, i costi degli affitti e per la costruzione di case hanno appena iniziato a crescere. In Europa, la fiammata dei prezzi dell’energia è decisiva per l’andamento dell’inflazione. Fare previsioni sull’evoluzione futura è difficile visti i possibili boicottaggi e una produzione energetica dipendente dai venti e dai livelli d’acqua. D’altra parte, ci saranno interventi governativi di dimensioni non ancora quantificabili, che ridurranno l’inflazione ma faranno salire i livelli di debito pubblico.

“Pertanto, non ci sentiamo di escludere un nuovo lieve rialzo dell’inflazione nel secondo trimestre sia negli Usa che in Europa, ma non oltre il 10%”, precisa Schmidt, “e a fine anno la dinamica inflazionistica dovrebbe rallentare. Per dicembre 2022 ci aspettiamo comunque tassi d’inflazione superiori al 5%, forse addirittura del 6%. L’andamento dell’inflazione a lungo termine nel 2023 e nel 2024 e la conseguente evoluzione dei tassi d’interesse delle banche centrali saranno tuttavia ancora più decisivi per il futuro sviluppo dei tassi a lunga scadenza. Si tratta di un’area che offre terreno fertile alle speculazioni, visto che le certezze sono ben poche. 

Anche il ridimensionamento del bilancio della banca centrale statunitense e l’interruzione degli acquisti da parte della Bce potrebbero creare distorsioni. Nessuno sa chi si sostituirà alle banche centrali in qualità di acquirenti. Un aumento almeno temporaneo del rendimento dei Bund decennali all’1,25% e di quello dei Treasury Usa di pari scadenza al 3,25% nel secondo trimestre appare probabile. Dopodiché, però, il mercato dovrebbe conoscere una tregua. I rendimenti sono già saliti enormemente e le incertezze su ciò che ci riserverà il 2023 sono estremamente numerose. In ogni caso, visti gli esorbitanti tassi d’inflazione, escludiamo un’ulteriore ripresa economica sia negli Stati Uniti che nell’area euro”, conclude Schmidt.

“Sono due gli scenari possibili: o l’economia si indebolirà per prima, facendo rallentare l’inflazione e rendendo meno necessario un intervento della banca centrale, oppure livelli di inflazione persistentemente elevati smorzeranno il sentiment dei consumatori, causando una grave recessione economica. In ogni caso, la crescita nel primo trimestre del 2022 ha già evidenziato un netto indebolimento, con il prodotto nazionale lordo negli Stati Uniti che è addirittura sceso leggermente rispetto al trimestre precedente”.