Settembre 19, 2025
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Passaggio generazionale: Trust o società di persone? Consulenti finanziari poco attivi sulle questioni patrimoniali

Il trust fiscalmente più conveniente, soprattutto all’atto della dotazione iniziale di immobili e beni registrati. Consulenti finanziari ancora indietro nel proporsi come “professionisti in rete” per le esigenze di protezione del patrimonio familiare delle proprie famiglie-clienti, superati dalle altre categorie professionali tradizionalmente interessate al settore.

In tema di protezione del patrimonio immobiliare (e non solo), la scelta tra conferimento di beni in una società di persone o in un trust è un argomento sempre “caldo”, che un buon consulente finanziario dovrebbe essere in grado di intercettare per primo, grazie al suo grado di prossimità con le famiglie-clienti, e condividere proattivamente con le altre categorie di professionisti, con i quali costruire un team di consulenza strumentale alla tutela del patrimonio dei clienti di fascia medio-alta. Eppure i consulenti finanziari spesso – per non dire regolarmente – si fanno sfuggire le opportunità di crescita personale generate dal settore ad esclusivo vantaggio di avvocati, commercialisti e notai, tradizionalmente (e tecnicamente) interessati all’Asset Protection Advisory.

Al fine di migliorare tale capacità di “attrazione” delle problematiche inerenti i beni immobiliari e, soprattutto, la loro distribuzione preventiva tra gli aventi diritto, per i consulenti finanziari sarebbe sufficiente, per i professionisti del risparmio, aggiornare periodicamente il proprio livello di formazione (cosa a cui sono già abituati) e aggiungere nuove competenze a quelle relative alla consulenza sugli investimenti, sulla quale anche le società mandanti appaiono ancora troppo fossilizzate.

In tema di “casseforti immobiliari familiari”, poi, le novità normative succedute di anno in anno rendono oggi possibile una valutazione più chiara dei possibili assetti patrimoniali, e sembrano suggerire una soluzione (trust) a discapito di un’altra (società di persone). In particolare, il regime di imposte di registro e ipotecarie-catastali applicate, all’atto dispositivo di un trust, in misura fissa e non proporzionali, consentono di ottenere un notevole risparmio fiscale grazie alla costituzione di questo particolare strumento di pianificazione patrimoniale ed aziendale, con cui un c.d. disponente trasferisce al c.d. trustee (gestore effettivo dei beni conferiti) immobili e partecipazioni sociali allo scopo del successivo passaggio a favore dei futuri beneficiari (suoi familiari). Infatti, nel conferimento di cespiti immobiliari in società di persone (la forma sociale delle S.n.c. o delle S.a.s è preferibile a quella della SRL per via della impignorabilità delle quote sociali per tutta la durata della società) si sconta l’handicap di una imposta di registro pari al 9%, da calcolare sul valore venale netto (e non di quello catastale) di ciascun immobile, determinando così un peso fiscale a volte talmente proibitivo da scoraggiare qualunque scelta in tal senso e lasciare gli immobili di famiglia senza difesa da un eventuale attacco dei terzi.

Questo vantaggio fiscale non è frutto del caso. Esso si verifica – sembra banale doverlo precisare, ma così non è per tutti – perché il trust e la società di persone, sebbene siano entrambi due contenitori ideali per il patrimonio immobiliare della famiglia, sono due istituti profondamente diversi. Una S.n.c. o una S.a.s, infatti, sono due persone giuridiche ben definite fin dalla loro costituzione, titolari di diritti e obblighi (esattamente come le persone fisiche), ed i beni ad esse conferiti entrano a far parte del loro patrimonio immediatamente. Il trust, invece, è un “contenitore giuridico transitorio” dei beni conferiti, dei quali i titolari si spossessano in vista del passaggio generazionale ai familiari che ne saranno, in seguito (e non subito), effettivi beneficiari.

Ciò comporta un diverso trattamento fiscale in relazione al “momento impositivo” dell’imposta di registro dovuta per il conferimento di immobili e/o altri beni registrati. Infatti, l’imposta sulle successioni e donazioni, anche per i vincoli di destinazione, non è dovuta al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, perché si tratta di atti fiscalmente neutri e “di uso strumentale”. L’imposta vera e propria, proporzionale al valore venale dei beni, si applicherà in seguito all’eventuale trasferimento finale al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce, ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, un trasferimento effettivo di ricchezza mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale.

Secondo l’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 30821 del 26 Novembre 2019, nel trust tale trasferimento imponibile non è costituito né dall’atto istitutivo, né da quello di dotazione patrimoniale fra disponente e trustee, in quanto gli stessi sono meramente attuativi degli scopi di segregazione e costituzione del vincolo di destinazione. Pertanto, l’atto dispositivo di un trust sconta le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa e ridotta, dal momento che il trasferimento avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso trustee, il quale è tenuto solo ad amministrare i beni conferiti ed a custodirli a futuro beneficio dei familiari del disponente.

La Cassazione, quindi, è finalmente intervenuta in aperto contrasto con numerosi atti di indirizzo dell’Amministrazione Finanziaria, secondo la quale (documenti di prassi: Circ. 48/E/2007 e 3/E/2008risposta ad interpello n. 371/2019) il conferimento di beni immobili nel trust doveva essere assoggettato a imposta in misura proporzionale. Questa posizione è stata respinta dalla Suprema Corte che, con la sentenza 30821/2019, ha ribadito che nel caso di un trust non si verifica un effettivo conferimento di immobili (fiscalmente rilevante ai fini dell’imposizione indiretta), bensì solo una disponibilità transitoria in attesa del successivo trasferimento dei beni agli effettivi beneficiari.

Fin qui la ratio di una sentenza che fa chiarezza e giurisprudenza. Relativamente alla sua storia, numerose sono le sfumature che colorano il caso in questione, il quale è riuscito a disciplinare nel giusto modo una questione di natura familiare (i beneficiari del trust erano i figli del disponente) che, evidentemente, è sfuggita al consulente finanziario/private banker di quella famiglia. La vicenda, infatti, è la prova inconfutabile che i contrasti tra legittimità e prassi errate sono molto frequenti, e che dietro il lungo percorso intrapreso per giungere a conclusione, oltre alla tenacia di chi non si è piegato alle prassi, c’è la professionalità di un consulente (in questo caso un avvocato cassazionista) che ha agito a tutela del patrimonio del cliente.

I consulenti finanziari che vogliano definirsi “patrimoniali” facciano tesoro del caso di specie, perché per un cliente che arriva a vincere in Cassazione, altri dieci si perdono (e perdono) tra le prassi dannose dell’Autorità Finanziaria, e di solito i consulenti finanziari sono i primi a saperlo. In tutti questi casi, “fare rete” con uno studio legale esperto in questioni tributarie, condividendo – perchè no? – anche il risultato economico (senza gravare sui clienti), è la soluzione.

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La consulenza finanziaria conviene. Un buon consulente “rende” fino al 3% annuo in più

Un consulente finanziario può riuscire a far remunerare il capitale, al netto delle commissioni, con un buon 2-3% annuo in più rispetto alla media dei rendimenti proposti dall’offerta “statica” delle banche tradizionali o della Posta.

Rispetto al passato, oggi sempre più persone si chiedono se vale la pena farsi assistere da un consulente finanziario per la gestione dei propri investimenti. Di solito, le domande più frequenti riguardano l’entità della commissione annua (“…sarà ragionevole o troppo alta?”) da pagare, il costo medio degli strumenti finanziari consigliati, la loro capacità di lavorare nell’interesse del cliente e così via.

Certo, ci sono anche quelli poco qualificati, ma il livello dei controlli e la storia ormai trentennale di questa professione così importante garantisce serietà e risultati tangibili, ed in generale un consulente finanziario può fare davvero molto per la finanza familiare (e non solo per quella, come vedremo).

Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove il ruolo della consulenza finanziaria ha soppiantato da tempo, nella scala di valori percepita dagli investitori, l’attività di distribuzione di strumenti finanziari “in consulenza”, un singolo professionista in genere costa dallo 0.5 all’1.0% annuo, calcolato sul valore di portafoglio. Pertanto, i clienti vogliono sapere se stanno ottenendo i risultati attesi per cui pagano, e pretendono legittimamente che il costo sostenuto possa determinare un rendimento maggiore di quello ottenibile con il fai da te.

Vanguard, una delle più grandi società di investimento del mondo, da 15 anni effettua ricerche e analisi grazie alle quali ha concluso che – sì – c’è una convenienza ben quantificabile nel servirsi di un consulente finanziario, che Vanguard definisce l’”Alfa del consulente”. In particolare, se vengono seguite alcune best practice (principi di gestione finanziaria che attribuiscono qualità e sicurezza) nella gestione del denaro e degli altri asset patrimoniali, il risultato può essere un Alpha compreso nell’intervallo del 3-4% all’anno. Ad una conclusione simile arriva anche uno studio separato di Russell Investments, che stima l’aumento medio del rendimento ottenuto grazie al lavoro di un buon consulente finanziario nel 3,75% annuo.

L’Italia non fa differenza: un buon consulente (soprattutto in questa epoca di tassi negativi) può riuscire a far remunerare il capitale, al netto delle commissioni, con un buon 2-3% annuo in più rispetto alla media dei rendimenti proposti dall’offerta “statica” delle banche tradizionali o della Posta.

C’è da dire che, da noi, non tutti vogliono un consulente finanziario. Circa un quinto degli investitori ama il “fai da te”, un po’ per abitudine a far da sé, oppure perché ha un po’ di tempo a disposizione e decide di impiegarlo seguendo ossessivamente i mercati e divertendosi a creare proiezioni finanziarie immaginifiche. Si tratta di persone molto riservate, che mal sopportano di condividere e delegare la gestione di propri risparmi e che spesso rifiutano il supporto di un professionista semplicemente perché pensano di poter fare meglio di lui (così come di un buon avvocato, di un fiscalista e persino di un ingegnere). Di solito, però, gli amanti del fai da te, ad eccezione di quei pochissimi che si sono trasformati in veri e propri maestri dell’investimento personale, finiscono tutti per rimediare perdite di un certo rilievo, ammantandole poi di fitto mistero.

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Per fortuna, rimangono gli altri quattro quinti che, all’interno di un rapporto fiduciario (ma condiviso), decidono di avvalersi dei private bankers (dipendenti bancari dedicati alla clientela “più ricca”) o di un consulente, il quale ha diversi modi per aggiungere valore agli investimenti o aiutare i giovani risparmiatori a formare un capitale mediante programmi di accumulo e accantonamenti nel tempo. In particolare, ciò che fa la differenza è lo sviluppo di una strategia di investimento sostenibile, con un occhio attento anche alla previdenza ed alla protezione del patrimonio.

Il modo più efficace per ottenere benefici in termini di rendimento, contrariamente a quanto si pensi, non è strettamente legato ai numeri, bensì al c.d. coaching comportamentale, ossia la capacità dei consulenti finanziari di insegnare a tenere sotto controllo le paure e le emozioni dei loro clienti, fornendo consulenza e rassicurazioni costanti, basate sui fatti e sulla razionalità, quando i mercati “impazziscono”. Lo studio di Russell Investment ha anche identificato questo come il più grande vantaggio derivante dalla collaborazione con un consulente finanziario, ma anche la stessa Vanguard, grazie ad una ricerca – non più recente ma sempre attualissima – condotta su oltre 58.000 investitori, ha dimostrato che coloro che hanno apportato modifiche sostanziali alla loro strategia tradizionale, anche una sola volta nel quinquennio 2008-2012, hanno ottenuto un aumento dell’8% in più della performance complessiva.

Uno studio di Morningstar (la più importante società di informazione, monitoraggio e valutazione degli strumenti di risparmio gestito) rivela che gli investitori spesso ricevono rendimenti molto più bassi rispetto ai fondi in cui investono. Il motivo risiede nel fatto che essi rincorrono i fondi dopo le loro migliori performance,  oppure li abbandonano proprio prima di un loro “decollo”, magari perché li hanno visti “un po’ fermi” e si sono spazientiti. Un buon consulente, grazie al coaching comportamentale, può prevenire tali atteggiamenti irrazionali e controproducenti, spiegando ai clienti che:

  1. le c.d. correzioni (fasi in cui i tutti i mercati scendono, ivi compreso quello obbligazionario, determinando una diminuzione del valore dell’investimento) sono sempre esistite, durano poco e bisogna semplicemente farle passare,
  2. è proprio in questi momenti che bisogna investire, approfittando dei prezzi più bassi.

Nel dettaglio, affidarsi alla consulenza finanziaria consente di:

– risparmiare diligentemente per la pensione e investire in modo efficace;

– ideare un piano di pensionamento solido che genererà un reddito sufficiente nell’età avanzata;

– suggerire le coperture assicurative più efficaci per proteggere la tua casa, la tua auto, la tua vita, le tue entrate e qualsiasi altra cosa che necessiti di protezione, ivi compreso il patrimonio nella sua interezza;

– tenere sotto controllo il livello di indebitamento;

– suggerire le giuste metodologie per minimizzare le imposte immobiliari;

– supportare tutta la famiglia nella pianificazione patrimoniale e nei passaggi generazionali.

Un buon consulente finanziario, soprattutto all’inizio del rapporto, guarderà al quadro generale, valutando tutte le esigenze della famiglia ed i mezzi necessari per raggiungere gli obiettivi. Egli, in questo, modo, potrà guidare l’investitore attraverso la pianificazione della pensione, le strategie di investimento, le questioni fiscali collegate agli investimenti, la pianificazione immobiliare ed altro ancora. Soprattutto, saprà tradurre in concretezza ciò che, senza la sua presenza costante, si scontrerebbe con l’improvvisazione, quella con cui si affrontano spesso i grandi eventi della vita: pagare l’università ai figli, comprare o vendere una casa, andare in pensione, ma anche (per i più giovani millennials) progettare il futuro, sposarsi, avere o adottare un bambino, ereditare dei beni oppure determinare la scelta tra un leasing o l’acquisto diretto dell’auto, rifinanziare un mutuo o evitare maggiori imposte sul trasferimento delle proprietà familiari.

In tutto il mondo, i consulenti finanziari e patrimoniali sono circa 20 milioni (30.000 solo in Italia), e tutti loro condividono economicamente con i propri clienti le diverse fasi di mercato: la loro remunerazione è legata al valore del portafoglio di investimenti, pertanto essi guadagnano meno quando i mercati scendono, e di più quando salgono (provate a non pagare o a ridurre la parcella di un avvocato se avete perso la causa, o quella di un commercialista se le vostre imposte sono aumentate rispetto all’anno precedente.…).

Questa caratteristica rende la loro professione unica, come solo la condivisione dei risultati, nella buona e nella cattiva sorte, può fare.

 

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Consulenti finanziari, chi detiene la titolarità del cliente? Meno lobbying e più sindacato

Per la sopravvivenza della categoria dei consulenti finanziari sarà necessario riparametrare (in aumento) i ricavi della rete rispetto a quelli della banca.

Costi del servizio, commissioni di ingresso, commissioni di gestione, altalena dei mercati, crisi dei subprime del 2008, crisi dei titoli di stato del 2011, crisi economica…..nonostante questi eventi, a volte catastrofici, succeduti nel corso degli ultimi dieci anni, il livello di relazione interpersonale consulente-cliente si è evoluto positivamente, al punto che i cambi di consulente sono stati veramente rari ed i professionisti della finanza sono diventati, grazie alla capacità di problem solving, ricercatissimi e fondamentali consiglieri delle famiglie italiane in campi anche molto differenti dalla gestione del risparmio (educazione finanziaria, pianificazione del patrimonio, passaggi generazionali, investimenti immobiliari ed altro ancora).

Cosa sarebbe successo, alle banche che si avvalgono della competenza degli ex promotori, se non avessero avuto proprio i consulenti al loro fianco a spiegare ai risparmiatori cosa stava succedendo? Consistenti deflussi di clientela, probabilmente, con il corollario di una strutturale perdita di fiducia nel sistema. Pertanto, nel vendere e poi gestire i servizi di una banca, è lecito affermare che il consulente e le modalità con cui egli informa i clienti, pesano per un buon 90% sul valore complessivo della vendita. Il rimanente 10% delle motivazioni di acquisto è costituito dai vantaggi intrinsechi degli strumenti di investimento proposti.

E’ opinione ormai comune, infatti, che il cliente, nel momento in cui entra in contatto con il consulente finanziario, non compra il prodotto/servizio, ma il consulente stesso, insieme ai valori (fiducia, affidabilità, puntualità, empatia, competenza  etc) percepiti da questo rapporto. Di conseguenza, sembra che le fortune delle banche-reti siano state determinate grazie all’insostituibile lavoro di relazione degli ex-promotori, ai quali, però, rispetto all’effettivo contributo dato all’acquisizione della clientela, le stesse banche pare abbiano destinato una fetta inadeguata dei ricavi: tra un quarto ed un terzo (nella migliore delle ipotesi) di quelle complessivamente pagate dal cliente. Di più, i consulenti, che forse avrebbero meritato migliore fortuna, sono sempre stati tenuti accuratamente lontani dalla partecipazione al capitale delle aziende mandanti: nessun piano di stock option, nessuna azione gratuita né azioni a sconto ha mai fatto parte delle proposte contrattuali delle banche, neppure nel periodo pre-MiFID, quando i promotori, a parità di portafoglio rispetto ad oggi, portavano a casa il doppio dei ricavi, e avrebbero certamente potuto permettersi di diventare finalmente “comproprietari” dell’azienda alla cui fortuna avevano partecipato attivamente.

A monte di tutto, nessun ente si è eretto a tutela di ben 55.000 consulenti: a parte Federpromm (unica vera organizzazione sindacale di categoria), ANASF persegue altri obiettivi, che l’hanno portata lontana, tra le altre cose, dal combattere per la nascita di un ordine professionale con organizzazione, governance e cassa di previdenza indipendenti, più efficace del pur valido OCF. Un ordine dei consulenti finanziari, infatti, oggi avrebbe fatto la differenza e avrebbe fatto sentire il proprio peso, soprattutto in merito ad una questione rimasta sempre “nell’aria” e che crea non poca confusione: di chi è il cliente, della banca o del consulente?

A ben vedere, questa è la “madre di tutte le domande”, e non è affatto semplice dare una risposta compiuta a meno che non si passi continuamente dal piano formale a quello sostanziale. Anzi, questi due piani, nel caso in questione, sono continuamente in contatto tra loro. Sul piano formale, nella consulenza su base non indipendente il problema non si porrebbe neanche: il consulente è un “semplice” gestore della relazione, e le persone con cui entra in relazione sono “clienti della banca”. In realtà, sul piano sostanziale, il peso del consulente e del suo lavoro di relazione, rispetto al prodotto in sé, è tale da consolidare, nella mente di tutti gli attori della distribuzione (consulente, cliente, mandante e case d’investimento), l’idea che il cliente sia proprio del consulente. Tale principio è dimostrato dal fatto che, nei piani di sviluppo di nuove masse da amministrare, le banche si dedicano molto di più alla sollecitazione commerciale verso i propri consulenti (sui quali, quindi, ripongono grandissima fiducia) ed al reclutamento di consulenti di altre reti, pagando dei premi (bonus) di ingresso, in cambio delle loro masse, su cui ancora oggi si regge questo particolare mercato delle professionalità.

Pertanto, mentre nella consulenza indipendente “il cliente è sempre del consulente” (come in tutte le altre professioni liberali), nel caso dei consulenti abilitati fuori sede esiste un contrasto netto tra il piano formale e quello di realtà, ed è questo contrasto che, giuridicamente e nella sostanza, segna la debolezza di una intera categoria di professionisti attivi (circa 40.000 oggi), la cui fragilità intrinseca è stata di recente messa a nudo dalla seconda edizione della MiFID e dalla nuova fase di riduzione dei margini di ricavo per le reti. Questi ultimi, in relazione all’importanza del consulente nel processo di distribuzione del prodotto/servizio, non sarebbero accettabili; essi, però, hanno tutti la stessa natura, derivando dalla mancata titolarità formale del cliente in capo al consulente, il quale oggi sembra gravato anche da un gravoso carico di mansioni amministrative non retribuite, trasferite in capo alla rete commerciale dalle mandanti, di cui nessuno pare abbia voglia di occuparsi.

Di conseguenza, secondo alcuni esperti, nel prossimo triennio sarà necessario uscire dal “modello lobbistico” di ANASF, del tutto insufficiente a tutelare il futuro di migliaia di professionisti della consulenza finanziaria, e fare ingresso all’interno di un più coraggioso “modello negoziale-sindacale”, che possa sostenere concretamente gli interessi della categoria, rivendicare la titolarità (o almeno la con-titolarità) del cliente, ristabilire un equilibrio economico tra ricavi della mandante e ricavi del consulente, ed infine eliminare quella cronica mancanza di unità che sembra essere, da sempre, alla base della sua debolezza nei rapporti di forza.

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Banche e reti, la tecnologia guida le nuove professioni. Un futuro da consulenti digitali?

L’intelligenza umana continuerà a superare quella delle macchine ancora per molto tempo, ma l’aumento della tecnologia migliorerà l’esperienza dei clienti.

Sembra lontana un secolo l’epoca in cui i consulenti – promotori a quel tempo – viaggiavano con la valigetta piena zeppa di moduli “pronti all’uso”, da compilare e poi scaricare alla segreteria del proprio ufficio per la spedizione. Al resto, ossia alla verifica delle firme e della correttezza della compilazione, ci pensava la sede, mentre la copia-cliente era l’unica prova dell’investimento per il risparmiatore, prima che arrivasse via posta (dopo un mesetto) la tanto sospirata conferma per via postale. Oggi, invece, la tecnologia applicata dalle aziende alla relazione commerciale con i clienti si sta facendo strada un tutti i settori, anche in quello delle banche-reti, dove il contatto visivo/fisico tra consulenti e investitori (soprattutto quelli di età over 50) è ancora un caposaldo di solidità e continuità nel rapporto professionale.

Non ci sorprende, pertanto, che i professionisti della finanza possano procedere all’identificazione dei propri clienti attraverso sessioni audio/video protette, relazionandosi con loro “a distanza”, grazie ad un sistema che garantisce la cifratura del canale di comunicazione audio/video e l’identificazione chiara dell’interlocutore, registrando e conservando l’intera sessione dopo aver ottenuto il consenso del cliente alla privacy. Allo stesso modo, non è una novità che tutta questa tecnologia, ed i processi ad essa collegati, debbano essere progettati, creati, aggiornati ed infine gestiti da risorse umane che entrano a pieno titolo nel novero delle nuove professioni legate al mondo bancario.

Secondo un recente rapporto di HSBC (“Human Advantage: The Power of People”) l’intelligenza umana continuerà a superare quella delle macchine ancora per molto tempo, ma l’aumento della tecnologia migliorerà l’esperienza dei clienti, soprattutto di quelli appartenenti alla fascia dei c.d. millennials. In sintesi, l’intelligenza artificiale non sostituirà l’intelligenza umana, ed il segreto del successo delle banche risiederà nella loro capacità di mescolare la migliore tecnologia con il sapere delle persone”.

Relativamente alle nuove competenze richieste dal mondo bancario e finanziario, HSBC prevede che in futuro saranno importanti sei ruoli, e più precisamente quelli di:

Mixed Reality Experience Designer, ossia di colui che sovrappone i dati nel mondo fisico per creare personaggi o oggetti immaginabili e localizzarli nello spazio fisico come se fossero reali. Questo nuovo ruolo si adatta meglio a chi possiede competenze in design estetico, marchi, esperienza dell’utente e meccanica 3D.

Algorithm Mechanic, che ha il compito di supervisione degli algoritmi necessari ad ottimizzare l’esperienza del cliente bancario nel suo rapporto con la macchina. Questo ruolo richiede competenze nella gestione del rischio, nella progettazione dei servizi e nell’educazione finanziaria, piuttosto che nella competenza tecnologica.

Conversational Interface Designer, il quale aiuta a sfruttare al meglio i c.d. chatbot vocali e di testo, e supervisiona la costruzione di interfacce per sorprendere piacevolmente. Questo ruolo richiede un mix di abilità creative e linguistiche.

Universal Service Advisor, ossia colui che combina la conoscenza del prodotto e del dominio con un’eccellente “comunicazione empatica” con i clienti. Ciò richiede un buon livello di conoscenza delle principali tecnologie di comunicazione, comprese le prestazioni in un ambiente virtuale.

– Il Digital Process Engineer analizza, assembla e ottimizza i crescenti flussi di lavoro derivanti dalla crescita esponenziale delle informazioni da gestire ed archiviare, massimizzando la produttività e minimizzando l’attrito.

– Il Partnership Gateway Enabler monitora e aiuta a gestire la complessa rete di relazioni che nasce dai nuovi modelli di business, e garantisce che le prestazioni siano conformi alle normative.

Secondo Tom Cheesewright (di Applied Futurist, coautrice del rapporto insieme ad HSBC) mentre le macchine continueranno ad assumere maggiore importanza nei processi più “robotici”, una maggiore enfasi verrà data alle nostre risorse “più umane”, come la curiosità, la creatività e l’empatia: Grazie a queste, per fortuna, continueremo a distinguerci dalle macchine.

Sempre secondo il rapporto di HSBC-Applied Futurist, l’apprendimento permanente e la necessità di migliorare le competenze dei dipendenti diventeranno essenziali durante tutto il periodo in cui ci sarà carenza, come adesso, di candidati qualificati nelle discipline digitali. Pertanto, si prevede un aumento degli investimenti, da parte delle banche-reti, in risorse umane e nel loro sviluppo personale, le quali dovranno abituarsi a vedere tutto attraverso un “obiettivo digitale”, cambiando la propria mentalità ed offrendo un’esperienza migliore ai clienti.

Se non è chiaro, si tratta di una vera rivoluzione del lavoro nel mondo delle banche e delle reti di consulenza, che irrimediabilmente segnerà la necessità di un aumento delle competenze degli stessi consulenti nelle discipline digitali.

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Millennials e consulenti finanziari, un rapporto difficile. I giovani investitori costretti ad utilizzare app e piattaforme digitali

Il modello tradizionale di addebito delle commissioni, basato sulle masse amministrate, rende i clienti più giovani poco attrattivi per i consulenti. Allora, a chi deve rivolgersi oggi un millennial per le sue esigenze finanziarie?

Oggi, in Italia, le quote di mercato del risparmio sono suddivise in maniera netta e inequivocabile: 12% ai consulenti finanziari (sia non autonomi che indipendenti), 12% alle poste, 76% alle banche tradizionali. Il primo, in particolare, sembra inaccessibile ai millennials, e per il futuro non si intravede una soluzione al problema senza sfruttare la tecnologia.

Per capire meglio le dimensioni della questione, mettiamoci nei panni di uno dei 6 milioni di millennial italiani, e immaginiamo di essere uno di loro, mentre facciamo i primi passi importanti nella carriera; è il momento migliore per pensare di comprare la nostra casa o di sottoscrivere un fondo pensione o un programma di accumulo per un acquisto futuro. Pertanto, potremmo pensare di rivolgerci ad un consulente finanziario ma……quale consulente è disponibile per un cliente come un millennial, senza risparmio già accumulato ma con bisogni e necessità come tutti gli altri?

In Italia i consulenti raramente rifiutano di incontrare un cliente giovanissimo e senza risparmio (anche perché egli avrà certamente dei genitori “patrimonials” a cui rivolgersi in seguito), ma questa disponibilità non durerà ancora a lungo. Già oggi, per esempio, nel Regno Unito nessun consulente finanziario accetta di lavorare per i millennials, i quali sono così costretti a rivolgersi a singoli brokers per specifiche esigenze, frammentando con estremo disagio la platea dei propri interlocutori. In Italia, la situazione non è molto diversa, ed il concetto di “fare numero” è già stato sostituito da tempo da quello di “fare massa”, possibilmente attraverso clientela con patrimonio consolidato e di buona entità. Pertanto, a meno che un giovane investitore non abbia uno stipendio elevato, una grande eredità o sia all’inizio di una carriera potenzialmente redditizia, è probabile che il consulente non sia in grado di guadagnare in maniera soddisfacente, ed è altrettanto probabile che gli dedicherà poco tempo.

Non è una questione di “cinismo professionale”, ma una sorta di selezione naturale indotta dal modello retributivo di reti e consulenti, calcolato sulle masse, e dalle politiche di marketing delle banche-reti, rivolte oggi quasi esclusivamente alla clientela “di pregio” che consente – ancora per quanto? – di realizzare ricavi adeguati. Infatti, le modalità tradizionali di addebito delle commissioni al cliente – noto nel settore come modello ad valorem – rende i clienti più giovani e asset-light poco attrattivi.

Alla luce di queste considerazioni, a chi deve rivolgersi oggi un millennial per ricevere assistenza riguardo le sue esigenze finanziarie?

Da qualche tempo vengono in aiuto nuovi servizi digitali, con i quali si tenta di colmare il “divario di consulenza” tra clienti patrimonials e clienti più giovani, e alcune di questi sono così innovativi, eleganti e convenienti, che potrebbero far temere per la tenuta della professione di consulente tradizionale per il futuro imminente. Stiamo parlando di Internet, naturalmente, e delle piattaforme di consulenza online, le quali stanno venendo incontro alle sempre più pressanti richieste provenienti dai millennials in materia di finanza.

Il motivo di tanto fervore innovativo è rintracciabile nelle previsioni di sviluppo di questo segmento di investitori, il quale è previsto in aumento numerico esponenziale nel prossimo decennio. In Italia, la sostanziale scomparsa della classe media e la decrescita sostenuta del reddito disponibile delle famiglie hanno causato, negli ultimi quindici anni, la mancata creazione di nuovo risparmio e, relativamente al mercato dei servizi finanziari, hanno aumentato a dismisura il numero dei clienti ritenuti oggi “meno interessanti” (da 100.000 euro in giù) dalle banche-reti. I millennials, poi, si collocano all’interno di una fascia ancora inferiore (tra 0 e 50.000 euro di risparmio), e quindi hanno serie difficoltà a farsi prendere sul serio da un consulente navigato e alla ricerca di masse che compensino la continua diminuzione dei margini di ricavo a cui le reti commerciali sono state costrette dal 2008 ad oggi.

Tutto ciò ha notevoli conseguenze anche sul futuro della professione di consulente. Infatti, i consulenti finanziari che ricadono nella fascia d’età 30- 40 anni dovranno affrontare una vera e propria sfida per trovare la loro “prossima generazione” di clienti, una volta che quella dei patrimonials (i genitori dei millennials, nella fascia di età over 65) si sarà esaurita per intervenuti limiti di vita. Probabilmente, il modello economico basato sulle masse dovrà lasciare il posto a quello basato sul servizio e sulla parcella, il quale oggi trova un muro invalicabile nel vincolo di mono-mandato a cui devono sottostare i consulenti finanziari. In tal senso, il modello anglo-sassone (che dà al consulente autonomo la possibilità di occuparsi direttamente delle operazioni di acquisto presso qualunque banca “depositaria”) è certamente più avanzato del nostro.

Così, i millennials hanno trovato nelle piattaforme di investimento fai-da-te, letteralmente esplose negli ultimi tre anni, un contenitore di servizio dove poter gestire le proprie esigenze legate al denaro, sviluppando, insieme alla dimestichezza nell’uso della tecnologia, l’idea che si possa investire con successo anche senza il supporto di un consulente. I gestori patrimoniali digitali online (come Moneyfarm) oggi invitano gli aspiranti investitori a presentare il loro orizzonte temporale di investimento e le loro opinioni sul rischio, suggerendo loro il miglior fondo di investimento. Questo approccio rappresenta esattamente ciò che vuole un millennial, il quale cerca soluzioni semplici a quesiti altrettanto semplici: come accumulare, quale mutuo scegliere, quali commissioni pagare…il tutto in tempo reale, con poca spesa e senza interagire eccessivamente con qualcuno.

Peraltro, nel corso dei prossimi 20 anni, i millennials italiani erediteranno circa 5 miliardi di euro dai baby boomers: a chi verranno affidate queste masse, frazionate tra vari eredi? Non esiste nessuna ricerca di questo tipo, ma ci viene in aiuto una ricerca inglese (condotta da Kings Court Trust) secondo la quale un quarto dei beneficiari di eredità si è immediatamente allontanato dai consulenti dei genitori o dei nonni, portando via, in media, circa 300.000 sterline presso le banche tradizionali per operare in autonomia. Il restante 75% di ereditieri, in tutta probabilità, apprezzerà ancora il “tocco umano” del consulente per interagire con il mondo della finanza, anche perché, secondo la stessa ricerca, molti dei giovani investitori si dichiarano spaventati all’idea di andare su un sito Web finanziario, rispondere ad alcune domande automatizzate e vedersi addebitare la propria carta di credito per una consulenza che potrebbe essere stata erogata anche da un c.d. Robo-Advisor.

Di contro, rispetto ai colleghi britannici, i consulenti italiani rimangono ancora “umani” e si rivelano amichevoli, professionali e disposti ad aiutare le giovani generazioni. Ma non sappiamo quanto a lungo durerà, perchè i punti critici rimangono, e sono i costi, la convenienza e il tempo. Pertanto, anche per i millennials italiani, la soluzione sembra essere quella di usare una combinazione intelligente di app, piattaforme di investimento e presenza umana (simpatica ed efficace) di tanto in tanto.

Chi ha già intravisto questo cambiamento, tra i consulenti, si attrezzi in fretta ad investire sul proprio sito web.

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Regno Unito, gli investitori vogliono “le 3 T” dal proprio consulente finanziario. E in Italia?

Sondaggi, statistiche e note di colore provenienti dalle più interessanti ricerche giornalistiche del Regno Unito condotte in piena epoca MiFID II. Analogie con l’Italia e aneddoti in salsa british

Tratto da un articolo di Nick Shepherd (FT)

A parte la differenza linguistica (e la Regina), Italia e Inghilterra hanno molti punti di contatto quando si parla di consulenza in servizi finanziari. Quello inglese, senza dubbio, è un mondo più variegato, ma alcuni sondaggi condotti sulla clientela british hanno rivelato sorprendenti similitudini in relazione alla reputazione di cui i consulenti finanziari godono presso la clientela. Prima di introdurre l’argomento, sarà bene fare una breve panoramica su come si svolge il servizio di consulenza di investimento nel Regno Unito.

Nel mondo anglosassone, a parte le reti di distribuzione di prodotti finanziari remunerate con commissioni, sono molto presenti e apprezzati i consulenti autonomi, che hanno già una “storia” notevole rispetto all’Italia e sono preferiti a quelli non autonomi. Di conseguenza, le banche accettano di accoppiare, al servizio di collocamento di strumenti finanziari, la consulenza su base indipendente quale servizio a valore aggiunto, all’interno di un modello di servizio che prevede una sorta di cooperazione fra tre figure professionali differenti e autonome: cliente, banca depositaria e consulente (o advisor).

Questo modello comporta benefici per ognuna delle figure che ne fanno parte. Infatti:

– il cliente sceglie personalmente la banca di sua fiducia presso la quale depositerà il denaro in custodia;

– il cliente sceglie il consulente a cui affidare la gestione del proprio patrimonio depositato in quella banca;

– il consulente opera in piena tranquillità ed indipendenza, senza conflitto di interesse e senza vincoli commerciali di alcun tipo, nel rispetto di un contratto di gestione di portafoglio;

– la banca depositaria, in qualità di custode, ha una funzione di controllo sull’operatività e sulla buona diligenza del consulente;

– Il consulente controlla che la banca esegua le disposizioni impartite dal cliente secondo le condizioni ed i tempi concordati.

Il modello anglosassone, a ben vedere, elimina anche il conflitto di interessi, escludendo ogni forma di retrocessione dalle società prodotto ai consulenti che scelgono di operare in modo indipendente; in più, consente al consulente autonomo di avere la certezza dell’esecuzione degli ordini nei tempi previsti, che così ricade sempre sotto il suo controllo (come in Italia, solo che la banca non è una semplice depositaria, ma una mandante).

Relativamente alla parcella, questa viene pagata direttamente dal cliente al consulente sotto forma di commissione di gestione del portafoglio, pattuita contrattualmente entro certi minimi e massimi, oppure periodicamente, a seconda dell’entità del patrimonio amministrato e della durata del servizio.

Quando è stato chiesto di nominare le qualità più richieste in un consulente finanziario, i lettori del Financial Times non hanno avuto dubbi, convergendo quasi tutti sulle “tre T”: Trasparency, Trust and Tailored (trasparenza, fiducia e servizio su misura).

La risposta è arrivata da oltre 300 lettori, di cui oltre i due terzi di essi stavano già pagando servizi di consulenza finanziaria. In cima alla lista dei loro desideri c’è la trasparenza sulle commissioni. In particolare, il 7% dei lettori inglesi confessa di non sapere quanto stia pagando per i consigli del consulente, mentre una percentuale maggiore (18%) contesta il livello delle commissioni che vengono loro addebitate e il modo in cui queste vengono applicate. La pratica diffusa di addebitare commissioni ad valorem – in cui i consulenti prendono una percentuale sul valore delle attività gestite ogni anno – è stata particolarmente dibattuta. Alcuni lettori, infatti, si sono concentrati sugli aspetti della comunicazione sul tema (“le commissioni dovrebbero essere espresse in sterline, non in percentuale”), mentre altri hanno posto l’attenzione sulla partecipazione del consulente al risultato finale, mostrando preferenza sulle commissioni di performance e non su quelle basate sul valore del portafoglio totale. Altri, ancora, si sono lamentati dalle scarse capacità di relazione e attenzione dei consulenti verso i clienti, i quali lamentano la pratica delle due riunioni di revisione l’anno, considerate poco coinvolgenti.

Circa un terzo dei lettori che hanno partecipato al sondaggio del FT ha confessato di non avere una buona opinione sui consulenti che lavorano su base non indipendente, e con una gamma limitata di opzioni di investimento, dichiarando il proprio disagio verso la “consulenza basata sulle commissioni per l’acquisto di determinati prodotti“. Anche per i consulenti inglesi non indipendenti, pertanto, la direttiva Mifid II comporta una maggiore trasparenza sulle commissioni ed un momento di trasformazione per tutto il settore.

In sintesi, il tipo di servizio che molti lettori britannici hanno detto di voler ottenere è fatto essenzialmente di sei elementi fondamentali: fiducia, chiarezza, creatività, onestà, indipendenza e buone capacità di ascolto. Oltre a questi, alcuni partecipanti hanno dichiarato di voler andare oltre la consulenza sugli investimenti, desiderando parlare di Arte e di Filantropia, ma anche di affari e degli investimenti non finanziari che possano dare ai propri figli la possibilità di arricchirsi.

Ritornando alle statistiche fuoriuscite dal sondaggio, il 38% dei lettori ha dichiarato di essere “molto soddisfatto” del rapporto qualità-prezzo del proprio consulente, mentre il 41% si è dichiarato “soddisfatto” del livello delle tariffe e poco più del 13% ha ritenuto di non ottenere un buon rapporto. Sebbene il 43% dei lettori non abbia mai cambiato il proprio consulente, qualsiasi evento che possa portare a una perdita di fiducia li spingerebbe a farlo. Quasi un terzo dei lettori senza un consulente finanziario ha indicato nella mancanza di fiducia e nelle scarse esperienze passate le ragioni per cui ne stanno lontani.

Quello della fiducia è un elemento ricorrente. Da un sondaggio effettuato dall’Autorità di vigilanza sulla condotta finanziaria (FCA), si è scoperto che solo il 39% degli adulti del Regno Unito si fida di consulenti finanziari, e che il meccanismo su cui si basa il successo dei consulenti è essenzialmente il passaparola o la raccomandazione personale di un membro della famiglia, un collega o un altro professionista di altra categoria. Allo stesso modo, la maggior parte dei consulenti ha descritto i referral (passaparola) come il loro modo principale di trovare clienti.

Non mancano, infine, le cosiddette note di colore nella ricerca condotta dal FT, che ha chiesto ai consulenti finanziari di raccontare le domande più strane, gli obiettivi di spesa più bizzarri e le richieste più insolite in cui si erano imbattuti nella loro carriera. Si va da un cliente fanatico della moda ansioso di “liquidare parte del suo portafoglio per aggiornare il suo guardaroba” a un cercatore di tesori che voleva “trasformare il suo intero portafoglio in oro fisico“. Alcuni clienti, poi, si aspettano molto in cambio delle commissioni che pagano: a un consulente è stato chiesto “puoi portare le mazze da golf di mio figlio dall’altra parte della città per me?“, mentre altri hanno riferito esperienze di gestione del conflitto coniugale dei loro clienti. Un cliente felicemente sposato insisteva sul “non dire a mia moglie quanti soldi ho, lei li spenderà tutti“, mentre un altro chiedeva come “nascondere le risorse a un partner che tradiva” (richiesta rifiutata dal consulente). Un consulente ha dovuto spiegare la matematica di base a una cliente divorziata con un patrimonio dal valore di 8 milioni di sterline, in un classico caso in cui l’ex marito pagava e controllava tutto, quindi da sola lei non era in grado di comprendere il valore del denaro e dei beni.

Per ultimo, le storie toccanti di gentilezza umana. Rob Roberts, pianificatore finanziario di The Chester Partnership, ha raccontato come una coppia abbia lasciato un lascito testamentario sostanziale all’agente di viaggio di fiducia, che aveva trovato un hotel a Lanzarote dove la coppia si era recata in vacanza romantica ogni anno per un decennio.

Per i suoi apprezzati sforzi, l’agente ha ereditato 300.000 sterline.

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Non ne sai abbastanza dei consulenti finanziari? Conoscili. Guida breve alla conoscenza dei professionisti del patrimonio

Molti risparmiatori tendono a confondere il consulente finanziario abilitato con il “consulente bancario”. Ecco alcune informazioni per conoscerli meglio

La professione del consulente finanziario ha ormai 28 anni, ma molti ancora la confondono con altre figure, ugualmente rispettabili ma molto diverse, del mondo bancario.

Infatti, complice la convivenza di soggetti diversi all’interno di una stessa banca, per i clienti non è semplice, oggi, distinguere tra impiegati che prestano anche il lavoro di consulenza ed i professionisti autonomi a partita IVA. Il malinteso, poi, viene amplificato dalle prassi commerciali degli sportelli bancari e postali, che utilizzano sempre più il termine “consulente” per indicare chi, tra i loro dipendenti, viene dedicato all’assistenza dei clienti in tema di strumenti di risparmio.

Molte, invece, sono le differenze (e le competenze) che identificano un consulente finanziario e lo qualificano come tale.

Innanzitutto, per poter intraprendere la carriera del consulente autonomo occorre poter certificare i propri requisiti di onorabilità. In particolare, non possono iscriversi all’albo dei consulenti finanziari coloro che sono interdetti, inabilitati, falliti, o condannati ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici, oppure sono stati condannati per un reato contro il patrimonio.

Inoltre, per svolgere questa professione è necessario superare una durissimo esame di abilitazione per la verifica delle conoscenze in ambito economico e giuridico. Questa prova valutativa è la condizione necessaria per potersi iscrivere allo speciale elenco di professionisti, e viene gestita dall’Organismo Unico per la tenuta dell’albo dei Consulenti finanziari, che sorveglia e controlla la loro attività disciplinando, insieme ad altri organi di controllo, la formazione obbligatoria che, come nelle altre professioni, questi professionisti sono tenuti ad osservare ogni anno (pena la sospensione dall’attività o da un ramo di essa).

Ma come svolge il proprio lavoro il consulente finanziario?

Egli, in generale, offre la propria consulenza ai clienti che hanno bisogno di una guida per scegliere quali strumenti di investimento utilizzare per raggiungere i propri obiettivi all’interno di un orizzonte temporale: acquistare una casa, far studiare i figli all’estero, costituire una riserva finanziaria per l’età pensionistica, e più in generale

Difesa del patrimonio familiare

qualunque esigenza, presente o futura, che la vita riserva al risparmiatore ed alla sua famiglia. In particolare, egli analizza l’andamento dei mercati finanziari e suggerisce ai propri clienti le decisioni più appropriate, selezionando le opportunità e informando in maniera chiara i clienti sui rischi e sui costi.

Esistono due tipologie di consulenti finanziari: quello che lavora su base autonoma, il quale offre i propri servizi “slegato” dalle banche (consulenza pura, nessuna vendita di prodotti finanziari) e viene remunerato attraverso una parcella pagata direttamente dal cliente; e quello che, invece, riceve il mandato da un istituto di credito o società di intermediazione mobiliare (per i quali lavora con mandato esclusivo, e dai quali viene pagato in base ad alcuni parametri quantitativi e qualitativi), distribuendone i prodotti/servizi.

Esiste una terza categoria di consulenti finanziari abilitati, quella di cui fanno parte coloro che, pur avendo ottenuto l’abilitazione, lavorano in qualità di dipendenti all’interno di una banca. Si tratta di pochi soggetti, che si differenziano comunque, sia per professionalità che per buona competenza specifica, dai “consulenti bancari/postali generici” di cui abbiamo parlato prima.

Per meglio comprendere quali aspettative vengano riposte dai risparmiatori su questa professione, ci sarà utile una recente ricerca, effettuata su un campione di oltre 1.500 investitori italiani di età compresa tra i 25 ed i 74 anni, secondo la quale le attese dei clienti di un consulente finanziario si differenziano in base all’età e, più precisamente, in base alla generazione di appartenenza. Più esattamente:

  • Per la c.d. Generazione Y (quella dei “Millennials”, ossia coloro che sono nati tra il 1984 ed il 1993), il consulente finanziario è una figura quasi irraggiungibile, dal momento che gli appartenenti a questa categoria demografica sono ancora alla ricerca di una stabilizzazione del proprio reddito e hanno poca disponibilità economica.
  • Per i nati tra il 1964 ed il 1983 (“Generazione X”), il consulente finanziario è colui che deve aiutarli a mantenere, con i propri consigli, la stabilità economica, con una proiezione temporale di lunga durata (circa 10 anni).
  • I c.d. Baby Boomers (quelli nati tra il 1944 ed il 1963), invece, hanno una buona stabilità economica e desiderano mantenere l’attuale tenore di vita con un orizzonte temporale di breve-medio periodo, avendo l’obiettivo di mantenere una buona salute personale e di tutelare, anche economicamente, figli e nipoti.

Secondo la stessa ricerca, l’identikit del consulente-tipo scelto dai clienti appartenenti a tutte e tre le categorie generazionali si basa sulla prevalenza di tre fattori fondamentali. Il primo è l’assenza di conflitti di interesse, nel senso che il consulente deve apparire ed operare dalla parte del cliente, e non della propria organizzazione. Il secondo riguarda il suo modo di relazionarsi con i clienti; egli, cioè, deve avere un linguaggio semplice e trasmettere la sua capacità di comprendere le esigenze personali e familiari del cliente. Il terzo (oggi finalmente molto richiesto, anche per via di una maggior tasso di informazione dei clienti) è relativo alla sua formazione: il consulente deve mostrare la propria competenza in molti campi della finanza applicata alla vita di ogni giorno, ed avere un ruolo di “educatore finanziario” più di ogni altra cosa.

Quella del consulente come “educatore” è una nuova visione del suo ruolo, sancita anche dalla legge italiana e dalla normativa europea; pertanto, pretendetela come servizio principale (è assolutamente gratuito), perché qualunque professionista del patrimonio, oggi, deve ritenersi tale solo se è capace di trasmettere alla clientela il proprio patrimonio di conoscenze finanziarie di base.

 

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